Imparare dagli ultimi

Frei Betto - foto tratta da commons.wikimedia.org

 

Il termine realtà deriva dal latino res [1] che significa “cosa”, ovvero un oggetto materiale. Oggi con questo termine s’intende normalmente tutto ciò che esiste effettivamente, indipendentemente dal soggetto conoscente. Per noi occidentali le cose sono come sono; esse sono vere: verum est id quod est (vero è ciò che è), scriveva Agostino (Soliloquia, II, 5). Sostanzialmente noi occidentali siamo convinti che solo l’essere è reale. Anche la verità è realtà, perché corrisponde a una realtà effettiva.

Ma a mettere in crisi questa convinzione ha pensato già lo psicoanalista Jung, il quale ha messo ben in chiaro che, purtroppo, noi non vediamo le cose per come veramente sono (il vero essere), ma per come siamo. Il da dove si vedono le cose determina e condiziona il come si vedono le cose.  È indubbio, cioè, che una persona nata e vissuta nelle favelas, dove vive a stento con un euro al giorno (neanche 300 euro all'anno), vede la vita in modo diverso da come la posso vedere io, nato e vissuto nella media borghesia. Quando il miliardario Flavio Briatore (in https://www.huffingtonpost.it/2017/04/06/flavio-briatore-non-so-come-si-possa-vivere-con-1300-euro-al-m_a_22028132/) ha detto di non capire come uno possa vivere con 1.300 euro al mese (cioè con la somma con cui, qui in Italia, vive la maggior parte della gente) era serio e sincero: semplicemente il suo angolo visuale sulla vita è completamente diverso rispetto a quello della maggioranza dei suoi concittadini. È grazie a Jung che possiamo intendere come la teologia sia rimasta ossessionata da cosa è la realtà in sé (chi sono realmente Dio e Gesù), mentre si è disinteressata di quello che succede realmente nella realtà della vita concreta di ogni singolo individuo (cosa succede quando Dio si fa presente nella vita di un essere umano) [2][2].

Il principio fissato da Jung valeva già anche ai tempi di Gesù. In Galilea non si vedevano le cose come le si vedevano nella capitale Gerusalemme, né si viveva la religione come la si viveva a Gerusalemme. La Galilea, secondo Gerusalemme, era abitata da gentaglia ignorante, zoticona, povera che seguiva una religione non ortodossa ma mezza eretica, dalla quale – a detta di Gerusalemme,- non poteva venir niente di buono (Gv 1, 46; 7, 41): una terra di gente da disprezzare in toto, che non sembrava rappresentare niente e nessuno. Isaiah Berlin, il grande filosofo e politologo del secolo scorso, ha però ricordato che, quando s’infligge una ferita profonda al sentimento collettivo di una società, come reazione a questo atteggiamento di disprezzo e umiliazione nei confronti dei suoi valori tradizionali, emerge l’orgoglio ferito che sfocia in rabbia e autoaffermazione. Non è un caso, allora, se proprio in Galilea trovò terreno fertile la setta degli zeloti (terroristi secondo i romani di allora), che tentavano di sovvertire quelle realtà sociali da cui si sentivano disprezzati, ma che comunque, con la loro utopia rivoluzionaria, furono capaci di dare identità alle comunità galilee umiliate.

Senza prendere la strada degli zeloti, è stato proprio nell'insignificante Galilea che Gesù ha cominciato la sua missione, spinto colà dalla forza dello Spirito (Lc 4, 14). Dunque, secondo l’evangelista, se è stato lo Spirito a spingere in quella direzione, significa che Dio stesso voleva si cominciasse proprio da lì, dal basso, dagli ultimi, dagli esclusi, ed è quindi dagli ultimi il da dove ci si poteva e ci si può ancora sintonizzare con Gesù. Si deve allora sottolineare che è solo da dove si posizionò Gesù che possiamo incontrare quel Dio che si è fatto conoscere in Gesù. In altre parole, questo vuol dire che possiamo sapere qualcosa di Dio non attraverso i nostri astratti discorsi filosofici, non attraverso la metafisica dei teologi (che non appartengono alla categoria degli ultimi), ma attraverso la vita di Gesù, perché la vita e il comportamento di Gesù sono la rivelazione di Dio. Ecco perché cristiano è chi segue il comportamento di Gesù, non chi crede a una determinata dottrina teologica, per quanto ben congegnata dai teologi, che poi chiamano “fede” ciò che è semplice riflessione teologica. Si è cristiani non per quello che si afferma, ma per quello che si fa. Quando Gesù parla di fede, non si riferisce a credenze con cui si accettano dottrine o leggi, bensì al comportamento di persone [3][3]. Non deve allora sorprendente come, stando al Vangelo, i samaritani e i gentili – quindi gli eretici secondo la religione ufficiale che intendeva per fede l’obbedienza alla legge e alle interpretazioni dottrinali imposte dal clero -  rispondano alla chiamata di Gesù con maggior fede degli israeliti (Lc 14, 16-24; At 13,46; 18,6; 28, 25-28) [4][4]. In quei racconti il Vangelo sottolinea che per Gesù l’importante nella vita non sono la religione o le credenze che ciascuno ha, bensì la condotta di bontà, umanità, sensibilità davanti alla sofferenza altrui, la gratitudine per un favore ricevuto; in definitiva, l’integrità e l’onestà. Questo è ciò che importa ed è il fattore determinante della fede cristiana [5][5].

Avete dei dubbi in proposito? Allora leggiamo questi vangeli: Gesù afferma che i discepoli devono essere la luce del mondo (Mt 5, 14), e la luce si accende affinché la vedano tutti. Ma cosa devono vedere tutti? “Le vostre buone opere” (Mt 5, 16), cioè i frutti che scaturiscono dalla condotta, mentre non servono le belle parole, anche se accompagnate da tanta fede. Giacomo dice nella sua lettera: «La religione pura e senza macchia davanti a Dio è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni» (Gc 1, 27). E Paolo, nella lettera agli Ebrei, dice ai cristiani: «Non dimenticatevi della solidarietà e di fare il bene, perché questi sono i sacrifici che piacciono a Dio» (Eb 13, 16). Quando Giovanni Battista (Mt 11, 2-11) chiede a Gesù chi egli è veramente, la cosa sorprendente è che nella sua risposta Gesù non dice chi è, ma cosa fa. Nel libro dell’Apocalisse, si dice: «beati quelli che muoiono nel Signore, le loro opere li seguono, ed entrano nel riposo del Signore» (Ap 14,13), non li segue la loro fede.

Non sembra di quest’idea il vescovo di Trieste il quale, nel commentare la domanda rivolta a Gesù e la sua risposta (“Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio? Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” – Mt 6, 28-29), sottolinea che Gesù ci invita a non dare troppa importanza alle tante opere, perché più importante è la fede, e senza la fede la carità si riduce ad assistenzialismo, per cui si duole del fatto che, in questi anni, si stia dando una spropositata enfasi dalle tematiche di carattere sociale (Crepaldi G., Il battesimo fonte di vita, Messaggio per l’Avvento, n. 32, 2019, 21-23). È vero che bisogna credere in Gesù mandato da Dio, ma – come lo stesso Gesù ha spiegato al Battista che lo interpellava, - bisogna credere al suo comportamento, a cosa fa, e quindi imitarlo in questo. Il vescovo invece ritiene ancora che la fede sia l’obbedienza alla dottrina insegnata dalla Chiesa con autorità.

Che Gesù chieda fatti, non belle parole, non belle riflessioni teologiche, non obbedienza a ciò che insegna il magistero, risulta chiaramente anche nel racconto del giudizio finale: quello che Dio terrà presente e sul quale giudicherà ciascuno, non saranno le sue osservanze e pratiche religiose, non sarà la retta dottrina, e non sarà neanche una fede solidissima, ma soltanto una cosa: quello che ognuno ha fatto, od omesso di fare, per coloro hanno avuto il peggio nella vita: i poveri, gli ammalati, gli immigrati, i detenuti (Mt 25, 31-46). Se le cose stanno così, è evidente che un ateo può salvarsi, mentre uno che ha sempre obbedito alla Chiesa, ma non ha fatto niente per il prossimo tranne pregare per lui, può non salvarsi.

Ora, siccome il potere religioso ha affermato con autorità che lui è il solo autorizzato a spiegarci cosa i vangeli vogliono spiegarci, essendo l’unico legittimo custode della Bibbia (n. 885 del Catechismo di Papa Pio X) e interprete autentico delle Scritture (n. 886 del Catechismo di Papa Pio X e n.1008 Catechismo vigente) ci si può domandare se il magistero è stato fedele a questo Vangelo e quindi a Gesù. Difficilmente chi fa parte del magistero docente fa parte degli ultimi, per cui assai difficilmente riesce a vedere le cose dal punto di vista degli ultimi. Gesù ha escluso che un’elite di privilegiati in alto, formata dal clero, sia la più idonea per insegnare il suo messaggio: “ti ringrazio, Padre, per aver nascosto queste cose ai sapienti…” (Mt 11, 25; Lc 10, 21); il che vuol dire che Dio non si rivela all’elite dei teologi, ai sapienti della gerarchia ecclesiastica, ma solo a coloro che non sanno nulla e non hanno nulla da dire in questo mondo, ai piccoli.

I piccoli, i nepioi in greco, non sono i bambini piccoli, ma gli adulti incapaci di parlare dottamente; sono gli adulti che non hanno studiato né filosofia, né teologia, ma pur non essendo tecnici addetti ai lavori non sono degli stupidi mentalmente handicappati; sono i sognatori, sono i semplici, sono le persone che – come i pastori al momento della nascita di Gesù - non hanno avuto difficoltà ad accogliere l’idea innovativa di un Dio-amore, perché avevano desiderio di luce, e non essendosi irrigiditi nella ideologia, in quella notte hanno visto avverarsi il loro sogno ed hanno finalmente trovato pace e serenità. «Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Mt 11, 26). Quindi Dio ha deciso che il criterio per conoscerlo è il cuore, non la legge, non la dottrina, non la teologia, non la filosofia, non le scienze misurabili, non la stringente logica. I pastori, come in genere le persone semplici di ieri e di oggi, si accontentano di essere uomini fra gli uomini, che credono nell’amore, nel bene e nella giustizia, e non sono neanche sfiorati dall’idea teologica delle due nature di Gesù in un'unica persona, o dall’idea che per essere considerati graditi a Dio ci si dovrebbe coprire con una specie di vestito soprannaturale (la grazia santificante), senza il quale non ci si salva. Tutto questo lo hanno costruito nel tempo i sapienti della Chiesa.

Allora l’ovvia domanda che dovremmo porci è questa: ma – se crediamo veramente ai vangeli - non è che anche noi dovremmo imparare dagli ultimi invece che imparare dai saggi appartenenti al magistero?

La risposta non può che essere positiva e, a conferma di questa affermazione che può lasciare perplessi, pensiamo a questa frase di Gesù che dovrebbe farci meditare: «chi accoglie anche uno solo di questi piccoli per causa mia accoglie me» (Mt 18, 5), e «chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9, 37; Gv 13, 20). Siamo davanti a testi paralleli. Gesù sta dicendo che l’esperienza del divino in noi non dipende dal seguire una serie di riti o di norme religiose, e men che meno dipende dal credere in certi dogmi, ma si fa quando c’è empatia con la figura del piccolo garzone, del ragazzetto di bottega che non conta nulla. Ancora una volta senza elucubrazioni teologiche dottrinali, ma con un esempio concreto, Gesù ci interpella: “Se non scegliete di cambiare, di abbassarvi al livello dei piccoli” non arriverà mai il Regno di Dio. Per costruire il Regno di Dio si deve mettere al centro solo un comportamento che, però, implica conversione ad “U” nella vita perché quelli che erano i valori del tempo, e che sono tuttora considerati validi, vengono sovvertiti. E la liturgia, il rito, i sacramenti, i dogmi, la fede intesa come credere in obbedienza all’insegnamento del magistero, tanto cari all’ortodossia, che fine fanno? Perdono d’importanza: tutto il resto non serve a niente se al centro della vita delle persone non c’è prima l’amore servizievole e gratuito. Ciò che si fa a un qualsiasi essere umano, quantunque sia il più indegno, lo si fa a Dio[6] [6]. Anche l’ateo, anche il più incallito peccatore che secondo il pio credente è il più lontano da Dio, lo possono fare.

L’annuncio del vangelo – che per i non credenti non ha già alcun particolare significato - di per sé solo non fa di un annunciatore un vero cristiano. Neanche l’adempimento del culto o la costante ripetizione del gesto religioso bastano a trasformare l’osservante in un vero seguace di Cristo. Se venerare Dio significa onorarlo, ciò che onora Dio non è la sottomissione dell’uomo a Dio e ai suoi rappresentanti seguendo scrupolosamente l’ortodossia, ma la somiglianza dell’uomo a Dio [7]:[7] l’unico culto che Dio vuole è l’accoglienza del suo amore per prolungarlo verso gli altri. Siccome Dio è forza d’amore, questa somiglianza si ottiene solo attraverso la pratica dell’amore per il prossimo, cioè attraverso l’impegno per procurare il bene dell’umanità [8],[8] cominciando da quelli che non contano nulla, come il garzone. Questa idea di culto l’aveva già espressa Isaia (Is 1, 11 ss.), anche se questi suoi passi non sono molto conosciuti:

11. «Che m'importa dei vostri sacrifici senza numero?» dice il Signore. «Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri non lo gradisco.

12 Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi che veniate a calpestare i miei atri?

13 Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità.

14 I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli.

15 Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue.

16 Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male,

17 Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova».

18 «Su, venite e discutiamo» dice il Signore. «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana.

Dunque un Dio che non sa che farsene di tutte le nostre sacre cerimonie: insomma, un Dio mangiapreti, che non sembra preoccuparsi molto se – magari a causa del coronavirus - non riusciamo ad andare in chiesa. Nel passo finale di Isaia sopra riportato ci vien perfino detto che il peccato non è poi così grave se veramente ci diamo da fare per gli altri: ci pensa Lui a farci tornare bianchi candidi, senza che noi si debba ricorrere ai sacerdoti per confessarci o fare grandi penitenze. Poi, Dio ci fa intendere che se non si fa il bene degli altri si è degli atei, anche se si pensa di essere religiosi, visto che non sa che farsene della nostra ora di culto se la conversione non ci coinvolge per tutto l’arco delle 24 ore, e se non ci attiviamo a fare il bene degli altri. Il culto di per sé non interessa a Dio perché è fatto solo di parole, mentre il cuore è lontano (Is 29, 13) e resta impuro; tutto il culto è privo di significato perché consiste solo in precetti umani. E il rito del digiuno religioso? Il digiuno che piace a Dio significa dividere il pane con chi ha fame, aprire la propria casa ai poveri senza tetto, dare un vestito a chi non ne ha, non abbandonare il proprio simile (Is 58, 7). Un po’ diverso dal digiuno che ci è stato predicato in chiesa, non è vero?

Dall’Antico al Nuovo Testamento, viene ripetuto con frequenza che se non c’è amore per il prossimo non serve a niente neanche l’astratta dottrina seguita con fede. Di ciò si ha conferma finale nell’Apocalisse, l’ultimo dei libri canonici: la chiesa di Efeso era una chiesa che si vantava di seguire la vera ortodossia, e di avere la capacità di difendere ad oltranza la Verità dottrinale. Gesù chiarisce che non serve proprio a niente la miglior ortodossia, se al centro non si vede l’amore. Peggio: la chiesa così ricca di ortodossia ma priva d’amore è destinata a scomparire (Ap 2, 5).

Come ha ben spiegato il prof. Castillo, nel comandamento dell’Ultima Cena neanche si menziona Dio. Gesù si è limitato a dire: “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (Gv 15, 12). Perché non si menziona Dio? Perché Dio sta nell’altro. Cioè, colui che fa del bene a chiunque, crede in Dio e ama Dio anche se non lo sa e non lo sospetta. Dio si è umanizzato con tutte le conseguenze. “Quello che avete fatto a uno di questi, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

Dunque nelle stesse Scritture e nelle stesse parole di Gesù si trova la conferma che si può essere molto religiosi eppure completamente atei. Si può vivere una vita sempre in chiesa (soffrendo indicibilmente quando le chiese sono chiuse, magari per il coronavirus), sempre in preghiera, seguire pratiche religiose, digiunare più volte alla settimana ed essere completamente atei perché, se non ci si apre agli altri, se non si accolgono gli altri (soprattutto i più deboli e i più insignificanti, i nepioi) si dimostra di non credere in Dio.

Dagli Atti degli Apostoli emerge che, per convertire uno che noi consideriamo il capostipite di tutti i credenti (Pietro, a quel punto già capo della Chiesa, secondo il magistero), lo Spirito Santo si è servito di un pagano straniero, destinato alla perdizione secondo la religione, in quanto miscredente. Ve lo hanno detto questo al catechismo? No! fin dall’inizio l’istituzione si premura di mescolare i fatti per poter sostenere che solo un suo credente può convertire un non credente: quando Pietro, nel Concilio di Gerusalemme, afferma che anche sui pagani è disceso lo Spirito, come reagisce l’autorità? Come agirebbe oggi: “Avendo udito queste cose glorificarono Dio dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso la conversione»” (At 11, 18). Ma cosa stanno dicendo! la conversione si è operata in Pietro, il quale si è convertito grazie ad un centurione pagano. Non si è mica convertito Cornelio. Cornelio, il centurione pagano, viene presentato come l’uomo già animato dallo Spirito, non come l’uomo cui Dio ha concesso di convertirsi. Ai pagani Dio ha concesso il dono dello Spirito, non la conversione. Invece, solo con la sua conversione Pietro ha finalmente capito che, secondo Gesù, l’accoglienza di Dio è ciò che rende pure le persone, e che non occorre essere puri per accedere a Dio. Gesù era ormai morto da diversi anni quando Pietro ha finalmente capito che l’essenza della Buona Novella sta in questo: non occorre che l’impuro peccatore si purifichi per essere degno di accogliere Dio, ma è l’accoglienza di Dio che renderà puro il peccatore [9][9].

Il nostro magistero continua imperterrito a separare gli uomini da Dio, come facevano i farisei: che nessun peccatore osi avvicinarsi alla mensa del Signore senza essersi prima purificato (confessato). Guarda caso, è sempre e solo la religione che divide gli uomini tra puri e impuri, tra meritevoli e no, tra degni e indegni; il Dio di Gesù non fa questo. Come ormai si è detto più volte, essere da Dio dipende – per i sacerdoti, - dall’osservanza scrupolosa della Legge (Gv 9, 1ss.), perché la vera funzione della Legge è quella di creare un recinto di protezione dall’impurità che sta fuori: “Per essere a posto con Dio fin qui posso arrivare, oltre no”. Per Gesù, invece, essere da Dio dipende dall’amore che si manifesta per l’uomo.

Ora, un centurione romano era già un’autorità nell’esercito romano, ma per chi si considerava vero credente era un insignificante signor nessuno, certamente uno che non poteva impartire lezioni di fede a nessuno. Eppure questo centurione dà una lezione di fede intesa non come credenza e obbedienza a una dottrina (fede oggettiva), ma come “fidarsi di” Gesù e, in definitiva, di Dio (fede soggettiva) [10][10].

È anche curioso notare come i discepoli di Gesù non siano mai riusciti a venire a capo della fede intesa in questo senso: erano “uomini di poca fede” così poca che non arrivava nemmeno ad essere come “un granello di senape”, sempre con dubbi, paure, insicurezze, come emerge nitidamente nei testi (Mt 8,26; 14,31; 16,8; 17, 20; Mc 4,40; 16,11.13.14; Lc 8,25; 24,11.41; cf. Gv 20, 25-31). Ma non per questo Gesù li ha allontanati. Occorre rappresentare Gesù con la propria vita, e nella misura in cui gli si assomiglia si potrà anche pensare di essere credenti.  Non basta, invece, predicare la parola di Dio in ogni occasione, opportuna e inopportuna, non basta rimproverare ed esortare (2Tm 4, 2); non basta portare avanti l’incarico di portare altri alla riconciliazione con Dio (2Cor 5, 18), se per prima noi stessi non viviamo dentro l’onda di Dio una fede vivificante. Ecco perché è difficile essere cristiani.

Questa notizia, che non piacerà a tanti pii osservanti convinti della capacità di essere automaticamente salvi partecipando ai sacramenti di Santa Madre Chiesa e proclamando ai quattro venti quanto è bello il messaggio di Gesù, ci viene fornita ancora una volta dai vangeli: chi furono i primi ad essere chiamati cristiani? I primi ad essere riconosciuti come cristiani furono quelli della comunità di Antiochia (At 11,26), pagani da poco cristianizzati, i quali non seguivano la tradizione giudaica, seguita invece dalla comunità di Gerusalemme retta dagli apostoli. A Gerusalemme, pensando di realizzare il progetto di Gesù, avevano strutturato la comunità facendo mettere tutti i beni in comune. La comunità di Antiochia non aveva seguito il regime pienamente comunista di Gerusalemme, ma ognuno dava secondo le sue possibilità e la sua generosità. E in un periodo di carestia Antiochia aveva abbastanza per sé e per aiutare gli altri, ed effettivamente aiutò con una colletta la comunità di Gerusalemme che era rimasta nel bisogno, dimostrando il fallimento del progetto più drasticamente comunista: infatti, non appena s’impongono più regole diminuisce la libertà, nascono gli artifizi e raggiri (vedi Anania e Saffira: At 5, 1) e cresce il malcontento (le vedove dei greci si lamentavano di essere emarginate: At 6, 1) [11][11]. Dunque, quelli di Antiochia sono stati chiamati per la prima volta cristiani[12] per questo concreto “assistenzialismo” (che, come si è visto, non piace al vescovo Crepaldi di Trieste), per questo darsi da fare in favore degli altri, non per altro[13]. Non sono stati chiamati cristiani perché avevano pregato per le altre comunità con più fede sperando che Dio facesse finire la carestia, o perché meglio degli altri avevano fissato il messaggio di Cristo in precisi schemi dottrinali, o perché la loro liturgia era la più brillante. Sia ad Antiochia che a Gerusalemme credevano nello stesso Signore, nello stesso Gesù, ma soltanto ad Antiochia sono stati riconosciuti come cristiani: ennesima riprova che l’essere cristiani non dipende da quello che si crede, ma da quello che si fa; e siccome solo ad Antiochia, pur colpiti anche loro dalla carestia, sono stati talmente generosi da non pensare solo a sé, ma di occuparsi anche degli altri, solo ad Antiochia questi sono stati riconosciuti come cristiani.

Del resto questo è in sintonia col Vangelo perché Gesù ha spiegato alla gente cos’è il Regno di Dio innanzitutto facendo, poi, spiegando quello che faceva. Infatti, Gesù andava per i paesi ed i villaggi curando tutte le infermità e le malattie del popolo (Mt 4, 23). Ossia, per Gesù, la prima cosa è porre rimedio alla sofferenza della gente. Solo dopo è altrettanto importante spiegare perché porre rimedio alla sofferenza è la cosa più importante da fare nella vita. Insomma, Gesù spiega che la cosa più importante non è la salvezza religiosa, ma la necessità umana, perché l’unica strada per incontrare Dio è incontrare l’essere umano [14[[14].

Il filosofo tedesco Feuerbach [15][15] ha sostenuto che il vero ateo non è in realtà l’uomo che nega Dio, ma l’uomo per cui gli attributi della divinità, dell’amore, della saggezza, della giustizia non significano nulla. Può essere allora definito credente e cristiano perfino chi nega l’esistenza di Dio, ma poi opera con vero amore verso il prossimo, mentre colui il quale proclama ad alta voce di credere fermamente in Dio, lo loda dalla mattina alla sera, pontifica cercando di imporre a tutti i dogmi della Chiesa, ma poi resta chiuso nel suo guscio di mollusco egoista e gira la faccia dall’altra parte quando passa accanto al primo bisognoso che incontra (ed è Dio che sta incontrando in quel momento), deve essere definito non credente e vero ateo. Solo crede di credere.

 

Dario Culot

[1] Dizionario etimologico della Lingua Italiana,voce: reale, Zanichelli, Bologna, 1999.

[2] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 100s.

[3] Luz U., Vangelo di Matteo, vol. 2, Paideia, Brescia 2010.

[4] Bovon F., Vangelo di Luca, Claudiana, Torino 2019

[5] Castillo J.M., El Evangelio marginado, Desclée De Brouwer, Bilbao, 2018, 115.

[6] Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 70.

[7] Castillo José M., Teología Popular (III), ed. Desclée De Brouwer, Bilbao (E), 2013, 28s.: Giovanni (Gv 10, 36) mette in bocca a Gesù la frase secondo cui il Padre lo aveva “consacrato”, e utilizza la stessa parola (in greco, il verbo hagiazō) che l’Antico Testamento utilizza per parlare della “consacrazione del Tempio”. Col che, il vangelo vuol dire che ‘la persona di Gesù’ sostituisce ‘l’edificio del Tempio’. Perciò essere una persona religiosa non consiste più nell’avere una buona relazione con il Tempio, con i preti e con le sue cerimonie sacre, bensì assomigliare il più possibile a Gesù, alla sua vita, alle sue abitudini.

[8] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, ed. Cittadella, Assisi,1989, 73.

[9] Maggi A., Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato, in A partire dai cocci rotti, ed. Cittadella, Assisi, 2001, 44.

[10] Cfr. quanto detto nell’articolo Cosa è la fede al n. 498 di questo giornale, (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-498---31-marzo-2019/cosa-e-la-fede).

[11] Negli Atti degli apostoli Luca dà un’idea di una comunità unita dove tutto funziona; ma già leggendo tra le righe si vede che non era proprio così. Anche le lettere di Paolo e Giacomo dimostrano che esse avevano un valore utopistico perché c’erano evidenti problemi nella comunità ai quali essi cercano di ovviare. Così pure nell’Apocalisse, con le lettere alle 7 Chiese. Dunque, neanche nella Chiesa, c’è mai stata una mitica età dell’oro.

[12] Il termine è di origine latina, e visto che ad Antiochia si parlava di più il greco, proprio questo fa pensare che la denominazione risalga alle schedature fatte dalla polizia romana, che teneva d’occhio quegli inquieti seguaci di un pericoloso sovversivo già condannato e crocefisso (Così l’archeologo Molthagen, citato dal professore di storia del cristianesimo Remo Cacitti nell’intervista rilasciata ad Augias: Cacitti R. e Augias C., Inchiesta sul cristianesimo, ed. L’espresso, Roma, 2010, 70).

[13] Affermava San Vincenzo de’ Paoli: «Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio, ossia  un’opera di Dio per farne un’altra. Se lasciate l’orazione per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa. È una grande signora: bisogna fare ciò che comanda.» (https://sinediesineloci.wordpress.com/2013/09/27/san-vincenzo-de-paoli/).

[14] Castillo J.M., Teología Popular (II), ed. Desclée De Brouwer, Bilbao (E), 2013, 22.

[15] Riportato in Robinson J.A.T., Dio non è così, ed. Vallecchi, Firenze, 1965, 74.