Eros, follia, monachesimo e violenza - terza puntata

Monaco in meditazione - immagine tratta da commons.wikimedia.org

Ipotizzare l’esistenza di un eros nonviolento significa vagheggiare che possa zampillare acqua in mezzo al fuoco. Eppure la sfida è esattamente questa e solo questa. Il Cantico dei Cantici, al capitolo 8, canta: 

« …forte come la morte è l’amore,

tenace come il regno dei morti è la passione:

le sue vampe sono vampe di fuoco,

una fiamma divina!

Le grandi acque non possono spegnere l’amore

né i fiumi travolgerlo.

Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa

in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo.

Una sorella piccola abbiamo,

e ancora non ha seni.

Che faremo per la nostra sorella

nel giorno in cui si parlerà di lei?

Se fosse un muro,

le costruiremmo sopra una merlatura d’argento;

se fosse una porta,

la rafforzeremmo con tavole di cedro.

Io sono un muro

e i miei seni sono come torri!

Così io sono ai suoi occhi

come colei che procura pace!»

La liturgia prescrive che bisognerebbe a questo punto - se il passo fosse letto in chiesa, il che non avviene pressoché mai - attestare pubblicamente “Parola di Dio” e rispondere assieme, da parte dell’assemblea: “Rendiamo grazie a Dio”.

Chi è in grado di riconoscere la potente possibilità di un eros nonviolento? Pare un ossimoro.

Dobbiamo iniziare dalla semplice e serena constatazione che eros è di per sé escludente. “Tu sì, e basta”. “Lei, lui, sì, ma nessun alto e nessun’altra”. Qui c’è un confine invalicabile. La merlatura delle torri, la muraglia che chiude dentro e fuori. Il contrario della lirica del Cantico.

Perché eros, poi, in effetti, pure desidera, vuole, persino pretende. Vuole “avere”, per poter “godere” di ciò che desidera. E gli strali della morale cristiana hanno dardeggiato, nei millenni, una tale brama, in enorme sospetto di vizio, mentre in realtà spesso traduce la semplice gioia di vivere.

Proprio a Salomone – che aveva settecento mogli e trecento concubine, narra il Primo Libro dei Re – viene attribuito, simbolicamente, il Cantico dei Cantici. Sconcertante.

Ma più che essere selettivo e quasi competitivo, eros è elettivo. 

Nella vita di ognuna ed ognuno, smentendo un po’ una certa retorica della scelta una ed unica come strada di perfezione personale, le “electiones” da farsi, le opzioni esistenziali, sono tante, varie, mai definitivamente concluse, spesso in contraddizione, se non in conflitto, l’una con l’altra. Dentro eros c’è violenza sì, ma questa presenza non è da ritenersi scontata. Eros non ospita benevolmente “vis”, la forza, la violenza, ma cede davanti ad essa, oppure adatta i propri codici espressivi alla sostanza del suo linguaggio.

Ciononostante il monachesimo – qualunque sia la sua precisa identificazione a norma dei diversi canoni religiosi secondo le diverse fedi – ha saputo fare spazio ad un capovolgimento persino imbarazzante del primato di eros come apprensione, come ricerca proprietaria di appartenenza di corpi, menti e cuori. 

Il monachesimo è stato storicamente capace di scardinare i presupposti romantici di un desiderio incontenibile e indomabile, per rovesciarne gli esiti etici, in termini di etica personale e collettiva, nello stupore, nella meraviglia, nella afasia silenziosa.

È molto significativo quanto racconta Raimon Panikkar a proposito di padre Henri Le Saux, il monaco benedettino noto come Abhishiktananda, quanto alla sua costante tensione nel trovarsi a vivere “due amori”, l’India e il Cristianesimo Occidentale: si può vederne il suggestivo video al link https://www.youtube.com/watch?v=mu5wliuj1H0.

Un altro insigne monaco benedettino, Michel Van Parys, già abate del Monastero di Chevetogne, così iniziava le conclusioni del XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità  ortodossa tenutosi a Bose dal 6 al 9 settembre 2017: «Da venticinque anni i fratelli e le sorelle del Monastero di Bose ci fanno il dono della loro ospitalità generosa e ormai divenuta proverbiale. L’ospitalità qui ricevuta tuttavia non ci può fare dimenticare le tragedie vissute da milioni di esseri umani che fuggono guerre, carestie e catastrofi naturali, persecuzioni etniche o religiose. Sono più di duecento milioni oggi nel mondo… Sono altrettanti poveri Lazzaro che gemono o muoiono alla porta delle nostre società ricche, le quali rifiutano addirittura di restituire le briciole di quello che hanno rubato o che ancora rubano nelle terre di quegli stessi poveri.» (in Il dono dell’ospitalità, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2018, p. 351).

Come mai il monachesimo è stato ricettivo nei confronti del Cantico dei Cantici rispetto molto più del laicato e degli ecclesiastici?

Eros, reso “innocente” dall’abbandono di ogni violenza – fosse pure, merita ripeterlo, anche quella puramente romantica -, si conforma al linguaggio metaverbale della preghiera e tanto più della preghiera liturgica. Come affermava Adriana Zarri, “pregare non è dire orazioni”. La preghiera è un verbo e non un sostantivo, una soggettività permanente attiva e non un’oggettività già definita da testi e rubriche.

La preghiera è, per così dire, dei folli; s’apparenta alla follia nel senso che è uno sragionamento, un’eccedenza di eloquio, di significati, un al di là non contraddistinto da una barriera, un valico, un passaggio, ma da un abbraccio, una confidenza, un sussurro, un gesto. Pregare è una cosa sola con il verbo amare. Resta da chiedersi se, però, credere sia altro da amare.

Il monachesimo è infatti anche confessione di fede, attestazione davanti al mondo di una convinzione intima che prende tutta la vita, e però può prenderla proprio in quanto è consapevolezza d’amore, sereno abbandono a Qualcuno/a che ama ed è amato/a.

Scrive la teologa e pastora valdese Letizia Tomassone (in L. Tomassone, F. Vouga, Per amore del mondo. La teologia della croce e la violenza ingiustificabile, Claudiana 2013, p. 127): «Qualche anno fa, all’interno di un gruppo di ricerca femminista in Trentino, ho riletto la storia delle donne martiri dei primi secoli della fede cristiana. Sono un numero esiguo, se confrontato a quello degli uomini martiri (un centinaio su circa 3000). Le donne hanno sempre trovato vie per conciliare silenziosamente scelte differenti e contrastanti nelle loro vite. Ma le martiri sono state portate ad esempio e santificate, con i loro nomi ripetuti di anno in anno nei calendari. Ci siamo chieste se la vita di donne e uomini non avrebbe avuto una qualità più alta se noi avessimo conosciuto come valore le storie dei non-martiri, le storie delle conciliazioni, mediazioni, adattamenti, di tutte quelle (e quelli) che allora scelsero la vita invece di portare la loro testimonianza all’estremo del martirio. Dovevano essere molte e molti, se nel III-IV secolo c’era la discussione sull’accogliere o meno i «relapsi» nel loro ritorno alle comunità cristiane. Ma le loro storie non ci sono state tramandate; a noi è stata tramandata la storia di Perpetua, che abbandona famiglia e figlio appena nato per l’amore di Cristo, per darne la prova estrema nell’arena delle belve.» E pone l’interrogativo cruciale: «Il sacrificio prevede la rinuncia a un amore in favore di un altro?»

In effetti la Shulamit del Cantico dei Cantici non sembra negarsi la gioia, anzi il piacere vero e proprio, sino al godimento, che contrassegna, deve contrassegnare, ogni esperienza d’amore. Ed il suo eroismo, la sua testimonianza, la sua “martyría”, corrispondono alla follia d’amore, amore francamente erotico e che non abbisogna di giustificazioni morali per essere tale. L’amore è ingiustificabile, come la violenza, ma per motivazioni del tutto opposte, perfettamente capovolte.

L’immagine del grano e della zizzania che oggi, secondo il rito romano, la liturgia domenicale propone con la proclamazione della pericope dal capitolo 13 del Vangelo di Matteo, non è funzionale alla cernita che successivamente verrà operata, bensì alla coesistenza: “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”, poiché altrimenti c’è il rischio di sbagliare e di non saper distinguere. Le nostre ansie di immediata codificazione e classificazione dovrebbero acquietarsi: l’amore sa quando e come mietere.

Un eros non violento, da folli, è la parola che riconcilia, che nasce dal basso, che vince il tormento di vivere solo per adempiere ad un debito, ad un dovere, ad un obbligo.

Si vive una volta sola, vale la pena vivere amando. Fa bene, molto. Senza paura di gioirne.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro