La droga

Magic Mushrooms Induced Synesthesia, 

with Spaceship Launches, and a Child-Like Mind,

Steve Jurvetson, 2015 - immagine tratta da commons.wikimedia.org

L’alcol, il caffè, il tabacco, gli psicofarmaci possono rientrare sotto vari aspetti nel concetto di droghe, perché per droga s’intende una sostanza capace di determinare artificiosi stati di benessere ma, se usata ripetutamente, porta facilmente ad assuefazione con conseguente decadimento psico-fisico.

Il problema droga può essere ovviamente affrontato sotto vari punti di vista: l’autonomia e la responsabilità personale, l’etica, la pubblica sicurezza, la farmacologia, la salute come “fondamentale diritto dell’individuo oltre che interesse della collettività” (art.32 della nostra Costituzione), la giustizia, la prevenzione informativa anche a livello scolastico, e se ne può parlare anche in base alle molteplici relazioni tra tutti questi vari aspetti. Io mi limiterò a un breve considerazione cercando di capire cosa può essere più conveniente dal punto di vista pratico, toccando quindi il campo del diritto più che l’etica.

Si può ricordare che verso la fine del ‘600 la Turchia aveva proibito il consumo di tabacco, considerato appunto una droga pericolosa, punendo il reato perfino con la pena di morte. Oggi, da noi c’è l’usanza di dire che una persona fuma come un turco, a dimostrazione che il proibizionismo, pur sotto minaccia di tremende sanzioni, non ha portato a quel miglioramento della società che si sperava.

Circa un secolo più tardi, la Dichiarazione d’Indipendenza americana garantiva a tutti gli abitanti degli Stati Uniti il diritto alla ricerca della felicità, accanto al diritto alla vita e alla libertà; non il diritto alla felicità. Questa ricerca prevedeva sostanzialmente una limitazione all’ingerenza statale. Eppure, negli anni ’20 del secolo scorso l’alcol venne considerato dal legislatore statunitense una sostanza capace di produrre gravi danni fisici e morali nella società [1], per cui venne proibito come reato, e rimase proibito fino al 1933. Non ogni ricerca della felicità era dunque lecita, ma dopo aver sperimentato per oltre un decennio il proibizionismo ci si rese conto che una semplice legge punitiva non riesce a incidere sulla causa che è alla base del fenomeno, tanto da non ottenere affatto quel miglioramento morale della società che ci si attendeva: il proibizionismo semplicemente incrementò il commercio abusivo dell’alcol a vantaggio della malavita.

Insomma, la storia ha dimostrato che ogni forma di proibizionismo genera piuttosto effetti opposti e soprattutto non contribuisce in alcun modo all’educazione e alla responsabilizzazione delle persone [2]. E c’è anche da dire che né la Turchia, né gli Stati Uniti sono usciti distrutti dopo che è stato liberalizzato il consumo di tabacco o dell’alcol [3].

Col passare del tempo, pian piano, quasi impercettibilmente, è però successo che il diritto di ricerca della felicità si è tramutato, in occidente, nel diritto alla felicità, e oggi molti si aspettano che lo Stato debba darsi da fare per togliere ogni ostacolo alla insoddisfazione del singolo. Il problema è, come insegnava già Epicuro, che non si diventa felici in modo facile. E negli Stati in cui il livello di vita è sostanzialmente alto, questo traguardo sembra ancora più difficile, tant’è vero che i suicidi sono molto più alti nei ricchi Paesi Occidentali che negli Stati poveri del Terzo mondo. Lo Stato occidentale, però, ha colto questa esigenza e si è mosso cogliendo al balzo gli studi medici i quali indicavano che, per far crescere i nostri livelli di felicità bastava manipolare la nostra biochimica. Pensiamo solo all’uso degli psicofarmaci, per i quali pur serve ricetta medica. Dicono che in Italia, su 60 milioni di abitanti, più di dieci ne facciano uso normale.

In realtà, lo Stato ha tranquillamente accettato le manipolazioni dell’uomo se rafforzano la stabilità politica, l’ordine sociale e la crescita economica. Le manipolazioni che invece minacciano chiaramente la stabilità sociale sono vietate, per cui non si accettano quegli zombi strafatti di eroina o altro (o anche i semplici ubriachi fradici) che circolano nelle città. L’eccesso nell’uso di queste sostanze è stigmatizzato anche a livello sociale. Pensiamo a come in Italia la parola vino sia una parola amica, come si parli perfino di una cultura del bere, però l’alcolizzato che è stato incapace di autocontrollarsi viene deriso e ghettizzato.

Ora, se la droga diventa un mezzo sostitutivo della religione o dell’ideologia che oggi latitano, se cioè chi l’assume la considera un modo artificiale per raggiungere uno stato di benessere altrimenti per lui irraggiungibile, che la droga sia lecita o illecita, per costui non farà alcuna differenza. Non basterà cioè una legge che ne dichiari l’illiceità per fermare il consumo.

Che fare, allora, dei tanti drogati che girano in Italia e spesso fanno aumentare la microcriminalità non avendo sufficiente denaro per soddisfare i propri bisogni [4] ‘Dovremmo aumentare le pene anche per il solo consumo di droga’, dicono alcuni. ‘No, dovremmo liberalizzarla’, sostengono altri. ‘No, va bene la normativa che abbiamo’ (già il 38% dei detenuti in Italia è lì perché colpevole di reati connessi al mondo della droga, e già così abbiamo più carcerati di quanti possano essere contenuti nelle nostre carceri, il che ci porta a frequenti condanne pecuniarie da parte dell’Europa).

Ebbene, a cosa serve iniziare una discussione su questo argomento? A scegliere fra possibilità diverse, magari mutando opinione e magari cambiando l’idea che prima ci sembrava essere la migliore. Un eventuale cambiamento, infatti, potrà avvenire solo se spinto dal basso, da una compatta richiesta della gente.

E allora io getto un sasso nello stagno: crollerebbe la nostra società se noi legalizzassimo l’uso delle droghe oggi proibito? L’esperienza insegna – lo ripeto,- che non si può eliminare con un divieto legislativo il loro consumo, come non si può eliminare solo con una legge la povertà, la disuguaglianza, la prostituzione, la pazzia, come non si può ordinare per legge che tutti siano felici.

Per di più, quando il cancro si è ormai ben diffuso in un corpo, il bisturi del processo penale che è sempre e solo individuale non basta più per risolvere il problema. Se pensiamo allora che la droga sia come un cancro infiltratosi nella nostra società dobbiamo renderci conto che la causa è molto più profonda. Non sono un sociologo, ma probabilmente dovremmo cercare la causa nella mancanza di ideali entusiasmanti, nella contraddittorietà esacerbata fra le belle idee astratte (pace, libertà, uguaglianza, giustizia) e triste realtà (impotenza di fronte al modo in cui questi alti concetti trovano attuazione concreta). Su questo punto, come si sa, gli studi si sprecano, e c’è chi parla di frustrazione, altri di rabbia, chi di disagio sociale, chi di noia e molto altro ancora. Per eliminare la causa di un male che colpisce una società, occorre cambiare la mentalità della società, occorre che la società stessa trovi in sé stessa la forza e le risorse per combattere il cancro. Sicuramente una mentalità diffusa non si cambia con una legge, ma solo se la gente – a un certo punto,- si convince di dover cambiare idea e modo di comportarsi.

Ma passando dall’astratto al concreto, di fronte al fenomeno droga, che è talmente grande e diffuso, nessuno è finora riuscito a spiegare chiaramente perché in questa attuale società si sta verificando quello che tutti vedono, e se non si riesce a spiegare il perché non si può eliminare la causa. È come in medicina: finché non conosciamo la causa della SLA si può cercar di tamponare, ma non si può sconfiggere la malattia. Finché non sappiamo come opera esattamente il coronavirus lo si può combattere solo con un’approssimazione di tentativi. Così in passato era per la peste: finché non si sapeva che era causata da un batterio e finché non è stata scoperta la penicillina, le processioni con cui s’invocava l’intervento divino non sortivano grande effetto; anzi, spesso aumentavano la diffusione della malattia per l’assembramento di persone durante la processione. Quando poi la peste se ne andava per esaurimento proprio, si gridava al miracolo. Ma la gente questo non lo sapeva, per cui partecipava con fervore alle processioni. Se per questo, ancora oggi ci sono tanti che, davanti alla chiusura delle chiesa per coronavirus, hanno protestato violentemente dicendo che l’uomo nulla può contro il virus, ma Dio sì: cioè c’è ancora gente ferma alla convinzione che Dio interviene per impedire il contagio quando lo si onora con le dovute processioni o con le sante messe.

Oppure pensiamo a cosa accadde col terrorismo negli anni ‘80. Non fu certamente sconfitto promulgando leggi che lo proibivano sotto minaccia di gravi sanzioni. Il terrorismo è stato sconfitto in Italia perché a un certo punto la maggior parte della società l’ha rifiutato e perché il legislatore ha emanato la legge sui pentiti: forse discutibile sotto il profilo morale, ma estremamente efficace perché ha disarticolato le colonne terroristiche.

Allora torniamo alla droga: è un dato di fatto che nessun Paese al mondo (neanche se più organizzato del nostro) è finora riuscito a debellare il fenomeno. Perché si pensa che mettendo ancora più gente in carcere si risolverà il problema quando gli altri Stati con questi metodi non hanno né eliminato, né contenuto il fenomeno?

E allora cosa può fare oggi il legislatore? Io credo che occorra essere molto pratici. Ricordo che quando lavoravo nel settore e si riusciva a sgominare una banda di trafficanti, entro una settimana il “vuoto” veniva riempito da un nuovo gruppo. Perché? Perché i guadagni sono talmente elevati che si trova sempre gente senza scrupoli pronta a rischiare. Lo stesso avviene in natura: se in un territorio si uccidono tutte le volpi (magari con la scusa che portano la rabbia), di lì a poco ne arrivano altre, da fuori, ad occupare quello spazio che ormai è diventato libero.  

Io credo fermamente, e l’avevo sostenuto per iscritto già nel lontano 1986 [5], che, non potendo eliminare la causa che spinge la domanda di stupefacenti, si debbano combattere gli enormi profitti economici che derivano dal traffico clandestino di stupefacenti, e che alimentano le finanze della malavita organizzata. Esattamente come i primi grandi successi contro la mafia sono stati ottenuti seguendo la pista del denaro.

E se allora liberalizzassimo la droga? Ovviamente il passo dovrebbe essere concordato a livello europeo, per non trovarsi invasi da sbandati di tutta Europa. Vendere una bustina di droga di Stato al puro costo effettivo, cioè a pochi euro come si fa con le sigarette, curando la qualità e quindi evitando la morte del consumatore per le varie porcherie con cui spesso viene tagliato lo stupefacente illecitamente confezionato, al solo scopo di aumentare il profitto, porterebbe per lo meno a questi risultati:

1. Si azzererebbe l’enorme guadagno derivante dallo spaccio. Si toglierebbe veramente l’ossigeno a tante organizzazioni criminali, e si eviterebbe che poi queste stesse organizzazioni possano riciclare il denaro illecitamente guadagnato con la droga in ulteriori attività lecite e illecite.

2. Una volta ridotto a zero anche il guadagno dello spacciatore, si eviterebbe che più di qualcuno vada a piazzarsi davanti alle scuole per invogliare i ragazzini a consumare gratis le prime dosi (e questo crea veramente allarme sociale). Se cessa il guadagno, cessa anche l’incentivo ad allargare il mercato e a cercare nuovi sbocchi.

3. La liberalizzazione farebbe cadere il fascino del proibito, e sappiamo come tanti giovani siano attirati da questo alone del proibito. Analogo discorso se la spinta ad assumere droga è intesa come una forma di protesta contro la società, la famiglia o qualcuno. Se l’assunzione diventa libera, non c’è più il fascino della protesta contro un’imposizione.

Resterebbero ovviamente anche degli aspetti negativi.

a. Innanzitutto una simile legge non farebbe cessare il consumo di droga da parte di tutti i tossicodipendenti (cosa che comunque neanche una legge proibizionista è riuscita a fare). Ma eviterebbe per lo meno che la maggior parte di questi tossicodipendenti debbano compiere reati (qualche furto, qualche rapina, la prostituzione) per avere i soldi sufficienti a comprarsi lo loro dosi quotidiane.

b. Se da una parte la liberalizzazione potrà far venire meno la curiosità per il proibito, si dovrà mettere comunque in preventivo che qualcuno voglia provare di sua iniziativa la droga, proprio perché non più proibita. Ovverossia, quanto tempo occorrerà perché la gente impari a far un uso moderato della droga in caso di liberalizzazione? Qui ci sarebbe da investire molto in punto prevenzione, soprattutto nelle scuole.

c. Dovremmo purtroppo adattarci – in mancanza di intervento di altre istituzioni, perché per un serio programma di prevenzione occorrerebbero grandi risorse e mezzi, anche umani, che probabilmente non abbiamo, e in ogni caso anche un programma perfetto non azzererebbe il consumo di droghe - a considerare una percentuale di individui persa comunque per la collettività, in quanto tossicodipendenti incapaci di contribuire allo sviluppo della comunità. Ma teniamo presente che oggi il numero degli alcolizzati e superiore a quello dei dipendenti da droga, eppure anche se questa percentuale che abusa di alcol è persa per la collettività, nessuno più pensa che mettere in carcere gli alcolizzati sia la soluzione. Di loro non se ne parla perché normalmente creano pericolo più per sé stessi che per la società (salvo quando si mettono al volante). Ma provate a mettere il bicchiere di vino a 30-40 euro, e improvvisamente si comincerà a parlare degli alcolizzati che rubano e rapinano le persone.

Per concludere: è chiaro che qui sto parlando solo dell’aspetto repressivo, del carcere, visto che comunque il fenomeno non è stato estirpato in nessun Paese con nessuna misura repressiva. Non sto ovviamente parlando dell’aspetto preventivo, degli studi da fare per cercar di capire per quale motivo tanti giovani e meno giovani si arrendono e buttano via le loro vite senza ottenere che piccoli lampi di apparente benessere, delle varie comunità che si danno da fare per cercare di ricostruire queste vite spezzate e tentano di rimettere in piedi questi giovani e di metterli in grado di camminare di nuovo nella vita da soli. Un minimo di misure dovrebbe essere messo in campo in appoggio e comunque in parziale sostituzione del carcere. Lasciare invece il problema solo in mano alla giustizia penale sarebbe un’idea cinica perché si finirebbe con l’abbandonare il tossico a sé stesso o, al massimo, alla sua famiglia.

I SERT, che già esistono, potrebbero innanzitutto essere chiamati a valutare lo stato attuale di ogni tossicodipendente segnalato, con particolare riferimento alla sua capacità d'intendere e di volere. Se ritenuto incapace, potrebbe per legge (e per un tempo minimo, con rivalutazione alla scadenza), essere ricoverato obbligatoriamente in centri di recupero pubblici e privati. Qualcosa di analogo ai TSO (trattamenti sanitari obbligatori) previsti dall’art. 34 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 per i malati mentali.

I condannati per reati comuni, dipendenti dalla droga, dopo il primo grado di giudizio potrebbero essere obbligati a loro volta a scontare la pena inflitta in un apposito centro che preveda un trattamento di recupero sanitario e sociale.

Si migliorerebbe così la situazione anche per i tossici e le loro famiglie? Credo di sì, ma la riprova si avrebbe solo provando in concreto. Sarebbe accettabile una soluzione del genere dal punto di vista etico? Non lo so, ma non credo che neanche l’attuale soluzione sia eticamente perfetta. Dico solo che se oltre un terzo dei nostri carcerati è detenuta per motivi di droga, la legge proibizionista oggi non funziona.

Sarei curioso di sentire cosa pensano i lettori.

Dario Culot

 

[1] In effetti, la civiltà dei nativi indiani americani è stata distrutta dal flagello dell’alcolismo, nel quale moltissimi sono caduti nel momento in cui hanno visto finire il mondo che essi conoscevano e in cui essi vivevano prima dell’arrivo dell’uomo bianco. Per i nativi indiani l’arrivo dei bianchi è stata la fine del (loro) mondo.

[2] Il problema della responsabilizzazione vale in tutti i settori. Non molto tempo fa, in Italia, visti i numerosi incidenti in montagna, qualcuno aveva perfino lanciato l’idea di imporre divieti o di chiedere una patente prima di poter affrontare determinati percorsi. È stato correttamente replicato che il problema non si risolve con divieti e sanzioni che tutto possono produrre fuorché cultura della montagna. Non è con i divieti che si evitano gli incidenti, ma con la prevenzione: la montagna è e deve rimanere uno spazio di libertà e non di coercizione, di educazione e di crescita che comporta un senso elevato di responsabilità e ha bisogno di processi di maturazione (Carre F., No ai divieti, sì alla prevenzione, “Lo Scarpone”, maggio 2010, 23).

[3] Si pensi solo all’uso massiccio, negli Stati Uniti, del famoso Ritalin che calma i ragazzi iperattivi: ma c’è stato uno studio approfondito degli effetti collaterali? C’è chi ha fatto presente che tutti quegli adolescenti che hanno commesso stragi di studenti e professori in varie scuole americane erano da tempo in cura col Ritalin. Non ho trovato però dati ufficiali in proposito.

[4] Spesso i drogati compiono piccoli reati, ma qualche volta anche rapinano le persone. Sicuramente la rapina crea maggior allarme sociale che il furto di un’autoradio. Ma tutto è relativo. Come diceva Bertolt Brecht (ne L'opera da due soldi) “Che cos'è una rapina in banca paragonata alla fondazione di una banca?” Volenti o nolenti, si deve riconoscere che i crack finanziari delle varie banche in Italia, in questi ultimi anni, hanno danneggiato molte più persone e molto più gravemente delle poche rapine messe a segno dai tossici in strada. Eppure coloro che hanno causato tutti questi gravi danni alla società sono normalmente ancora liberi di circolare.

[5] Nella rivista Scienza 2001, n.2/1996, 1ss.