La morte

Un maschio di farfalla Aporia crataegi, posato su una orchidea palustre Dactylorhiza incarnata 

-Area Protetta di Tagamõisa, Saaremaa, Estonia - foto tratta da commons.wikimedia.org

 

Paura del coronavirus. Paura di cosa? Di morire? [1] Anche se non abbiamo visto morire nessuno vicino a noi siamo rimasti comunque colpiti dalle file di quei camion militari che di notte portavano via decine di bare, e a differenza degli anni passati in cui anche l’influenza normale faceva tanti morti, questo coronavirus ha falcidiato anche i ranghi sanitari. Forse uno dei pochi meriti del coronavirus è stato quello di costringerci a riparlare della morte.

È che, fino a ieri, abbiamo cercato perfino di evitare di parlare di questo disturbante argomento; in molti hanno proprio paura di parlarne; abbiamo nascosto la morte sotto il tappeto di casa: abbiamo portato i nostri vecchi nelle RSA, gli ammalati a morire in ospedale, nelle case di cura, lontano da casa e dagli occhi di tutti.

C’è chi odia la morte, la maledice, la respinge col pensiero, pensando che se l’accettasse sarebbe lui un assassino: “Disprezzo coloro che hanno equiparato morte e nascita, come se la prima potesse essere risarcita dalla seconda, mentre apprezzo coloro che odiano la morte, che si pongono con coraggio davanti ad essa e le sputano in faccia, la maledicono” [2]. L’unica cosa certa per l’ateo [3], e che sfiora anche il credente quando pensa alla morte, è il tremendo pensiero della possibile sparizione nel nulla [4]. Ma se si viene dal nulla, se si torna al nulla, allora perché – come giustamente si chiedeva il filosofo  Friedrich Schelling,- c’è l’Essere e non il Nulla? Cioè la sequenza Nulla - Essere – Nulla è meno logica di Nulla - Nulla – Nulla.  E poi, visto che la morte riguarda proprio tutti, può essere veramente un male? [5]

I cristiani credono che la morte sia una nuova nascita, una nuova vita e questa volta per sempre. Se Gesù ha vinto la morte, anche a noi succederà lo stesso.

“Certo, questo secondo atteggiamento è molto più rasserenante!” ha detto quel giovane dubbioso al prete. “Ma se per ipotesi Dio non esistesse e tu avessi comunque seguito questa Buona Novella, la tua vita di prete che significato avrebbe, che esistenza ‘a vuoto’ risulterebbe essere stata la tua?”

“Anche se fosse come dici tu,” ha risposto quel prete “non si vive in ogni caso meglio credendo in Lui, nella sua amicizia, nel suo amore e condividere questi sentimenti con altri?” [6] O in altri termini, non è forse vero che per ogni persona normale, la vita dà il meglio di sé quando si sceglie la via dell’amore, dell’armonia, della speranza, e che quando s’immette nella propria vita questo senso ci si sente meglio? Non si vive meglio pensando che dopo la morte ci aspetta ancora una grande avventura?

La nostra società occidentale è fondata su due grandi testimoni della non violenza: Socrate e Gesù: entrambi vittime della ricerca della Verità, entrambi giustiziati dal potere. Però se confrontiamo l’atteggiamento di Socrate (Platone, Fedone, LXV s.) e l’atteggiamento di Gesù di fronte alla morte, sicuramente è più realistico il racconto evangelico (Lc 22, 39-45), perché Gesù non è sicuramente morto come un vero eroe. Socrate è morto in letizia, e ha parlato della sua morte con sublime serenità e filosofico distacco [7]. Gesù è morto nell’angoscia più totale, senza nascondere il suo turbamento. Socrate, come vuole l’ideale greco, mantiene il totale dominio di sé. Socrate è l’eroe, l’eccezione, non ogni uomo. Gesù nel Getsemani, invece, è come ogni uomo. Socrate muore come si vorrebbe morire [8]. Gesù muore come veramente si muore.

Razionalmente capiamo che la morte fa parte del ciclo vitale e dobbiamo pur lasciare a chi viene dopo di noi lo spazio e le risorse sufficienti per crescere e vivere, come abbiamo potuto fare noi. Non solo: Calipso, nell’Odissea, invidia il mortale Ulisse proprio perché il suo tempo è limitato e ciò che fa con esso rappresenta una scelta vera. Saper di dover vivere per sempre potrebbe essere perfino spaventoso. Noi vogliamo soprattutto una vita più felice, più piena, non più lunga ma noiosamente uguale.

Sicuramente, anche il non credente, ogni tanto qualche domanda se la porrà: “E dopo la morte, cosa? C’è qualcosa o non c’è niente? E se c’è qualcosa, cosa? Per il credente, invece, la morte significa l’incontro diretto con Dio: per immergerci in Dio occorre morire. Morire è soltanto uscire dal tempo umano [9]. 

Bella frase che, però, non ci dice molto, perché in realtà non sappiamo nulla della morte, visto che nessuno dall’aldilà è mai venuto a raccontarci come le cose stanno veramente. Ma se non sappiamo nulla della morte, come si fa a parlare della morte? Se è difficile parlare della morte con un adulto, come si fa a parlare della morte a un bambino? [10]

Se vogliamo affrontare il problema più razionalmente, anche qui è indispensabile rovesciare il discorso, e dire che il senso della morte lo si dà vivendo, ovvero – in altri termini - che la morte deve diventare il criterio della nostra vita.

Non è importate pensare tanto alla morte. Dobbiamo pensare a quello che stiamo facendo ora che siamo vivi, ma in base ai criteri che la morte stessa ci indica, perché solo questi criteri ci consentiranno di vivere veramente, e non di vivacchiare. Dobbiamo diventare capaci di attraversare la morte vivendo.

La morte sarà sicuramente la fine del nostro sviluppo biologico, ma deve essere il compimento del nostro sviluppo personale spirituale.

Pensiamo per un attimo al feto che deve nascere. Come diceva don Carlo Molari, il feto cresce, sviluppa organi che fra poco gli serviranno, si prepara alla nascita accavallando le ossa del cranio perché altrimenti non passerebbe; tutto in vista di uscire dopo nove mesi da quella situazione provvisoria che è la vita nell’utero materno. Noi erroneamente opponiamo la vita alla morte. Ma è sbagliato. È la nascita in opposizione alla morte ed entrambe sono aspetti della vita. C’è una vita che ha un inizio con la nascita. Nessuno di noi vorrebbe nascere. Dentro la madre si sta bene: è il mondo che si conosce. Nessuno ha intenzione di venire fuori, eppure se si vuol continuare a vivere, bisogna uscire. Ed è un’uscita traumatica, drammatica; ma soltanto uscendo, quell’amore della mamma che si era potuto già percepire, viene rivelato in pienezza: ora l’amore della mamma e del papà lo si può palpare. Ebbene, arriva un momento dell’esistenza in cui, se si vuol continuare a vivere, c’è bisogno di una nuova nascita. Ed è soltanto attraverso la morte, che gli antichi giustamente chiamavano il giorno della nuova nascita, che si rinasce definitivamente. Quel Dio che adesso riusciamo a conoscere a frammenti finalmente ci si rivelerà nella sua pienezza [11]. Dunque, nella prospettiva della fede, siamo in una situazione analoga a quella del feto: sappiamo che dovremo uscire (= morire), ma non sappiamo quando. Noi siamo qui in questo mondo, ci alimentiamo, respiriamo [12], e dobbiamo renderci conto di essere attraversati e sostenuti da forze più grandi di noi (pensiamo alla forza elettromagnetica, nucleare, gravitazionale, ecc., tutte necessarie alla nostra vita [13]). Dal punto di vista della psiche, però, noi siamo certamente sostenuti dalla forza dell’amore, che ci viene dagli altri [14]. In pratica, riceviamo la vita da questi altri: in primo luogo dalla mamma. E da questo inizio che cominciamo ad acquisire la nostra identità definitiva, anche se la nostra dimensione spirituale (come quella corporale) aumenta giorno dopo giorno. Noi siamo in continuo sviluppo, senza fermarci mai, e quanto più sappiano aprirci alla forza arcana [15] spirituale, tanto prima acquisiamo la nostra identità definitiva. Del resto, solo il pensiero della morte fa capire ai vivi quali sono le cose che valgono e quali quelle che non valgono, per cui solo questo pensiero può suggerire come comportarsi in questa vita [16]. Non per niente, dopo aver rasentato la morte (una grave malattia, un incidente aereo), si guarda in altro modo alla vita e alle cose che veramente contano.

E allora come ha ben spiegato sempre il teologo Carlo Molari, i criteri di vita che la morte ci indica si possono riassumere in questo modo [17]:

1) Identità definitiva. Alla fine, al momento del giudizio, non ci verrà chiesto che cosa abbiamo fatto da vivi; se abbiamo conquistato il mondo o meno; se siamo andati a messa tutte le domeniche o se abbiamo fatto la comunione tutti i giorni, o se abbiamo obbedito al magistero ecclesiastico. Ci verrà chiesto semplicemente chi siamo diventati. “Chi sei?” questa sarà la domanda cruciale che ci verrà posta [18].  Dio ci dirà: “Non ti ho creato per credere, ma ti ho creato per essere [19]. Dovevi diventare farfalla: sei farfalla o sei rimasto ancora crisalide, anche se preghi tutto il giorno?

Non importa più che lavoro abbiamo fatto nella nostra vita. Se siamo stati uno stimato professionista, un eremita o una prostituta fa ormai parte del passato. Non ci verrà chiesto chi siamo stati, ma chi siamo in quel momento, quando abbiamo dato addio al nostro corpo. Il problema è cosa siamo diventati attraverso la nostra vita, attraverso le nostre esperienze: ecco perché noi – compiaciuti dall’applauso del mondo – facciamo ancora fatica a capire che le prostitute ci precederanno nel Regno dei cieli, perché non ci fermiamo mai a pensare che, attraverso la sofferenza di una vita di sfruttamento e umiliazioni sulla strada, la prostituta può aver raggiunto una dimensione spirituale molto più matura, molto più sensibile e aperta nei confronti degli altri, rispetto al riverito professionista, che magari è rimasto un pescecane affamato di denaro, e in realtà se n’è sempre infischiato del prossimo.

Noi diventiamo attraverso quello che facciamo. Se uno getta uno sguardo alla nostra vita può immaginarla metaforicamente come se gettasse uno sguardo in un caleidoscopio. All’inizio tutto è ancora possibile, in movimento; siamo astrattamente aperti a tutte le possibilità; da piccolissimi possiamo essere tutto: un santo, un bandito, un premio Nobel per la chimica, un idraulico, un giudice, un barbone. Poi, con la scuola già ci siamo preclusi tutta una serie di possibilità. Via via continuiamo ad eliminare altre possibilità: ‘Ah! Se avessi studiato di più!’ Ma ormai è troppo tardi, e non si può tornare indietro. Anche quando ci sposiamo eliminiamo tante altre possibilità della nostra identità che fino a quel momento erano ancora possibili. Le tessere si dispongono via via in maniera fissa, ed il buco centrale dove all’inizio tutto si muoveva si restringe sempre di più, sempre di più.

Noi diventiamo i pensieri che portiamo. Se ci siamo trascinati in pensieri negativi per tutta la vita, alla fine saremo noi stessi diventati negativi, persone che si piangono addosso, acide nei confronti degli altri, del tutto incapaci di far fiorire la vita attorno a noi. 

Ciò che siamo veramente diventati di dentro, a mano a mano negli anni, lo conduciamo poi fino alla soglia finale della nostra vita. Essere stato, invece, un erudito teologo o un profondo conoscitore del diritto, un bravo meccanico o un eremita non serve più a niente. Ma il “chi sei?” resta invece per sempre, anche se sei arrivato a quello che realmente sei da ammalato, paralizzato in un letto. Sotto questo aspetto, la morte è positiva, perché è il compimento di una fase che ci permette di giungere a un’identità definitiva, che resta per sempre.[20]

2) Distacco. La morte ci chiederà ovviamente di abbandonare tutto. Il Faraone nell’antichità veniva sepolto assieme ai suoi gioielli preziosi, ai propri utensili. Ma a cosa sono servite quelle cose? A far depredare le tombe dai tombaroli, o a far felici gli archeologi che oggi possono far esporre quegli oggetti nei musei. Partendo, non possiamo portarci dietro nulla [21]. 

Anche il feto che esce dal grembo deve rompere il cordone ombelicale che fino ad allora lo teneva in vita, ma che nella nuova vita gli porterebbe solo l’infezione e la malattia. Nudi si arriva in questo mondo, nudi si parte. Siamo nati senza niente. Moriamo senza niente. Quindi, sotto questo aspetto, non perdiamo niente.

3) Interiorizzazione degli altri nei rapporti. Portare dentro di sé gli altri è una qualità dell’amore. Il bambino è incapace di staccarsi dalla madre, piange se non l’ha sempre vicina.  Poi comincia a crescere e quando va a scuola comincia a interiorizzare il genitore: sapendo che lo troverà a casa al suo ritorno, riesce ad affrontare le ore del distacco. Ma l’amore adolescenziale è ancora spesso possessivo: il ragazzo deve restare appiccicato alla sua ragazza. E quante volte anche l’adulto biologico continua a strumentalizzare il partner, a dominarlo? Il vero adulto, invece, sta bene anche da solo, non costringe l’altro a stargli accanto, perché è riuscito ad interiorizzare l’altro, ad averlo con sé, dentro di sé, anche se l’altro non è presente. Solo se abbiamo interiorizzato l’altro non abbiamo più paura di restare soli, e soli dovremo affrontare il passaggio finale.

La morte ci chiederà di essere così maturi e pieni di vita da essere in grado di partire senza trascinare l’altro per mano dietro di noi. E chi resta deve essere così maturo da non trattenere a forza, ma da lasciar andare chi ormai deve andarsene.

4) Oblatività. Il bambino appena nato inizia il suo percorso succhiando la vita degli altri. Non solo quando si attacca al seno della madre, ma quando non la fa dormire di notte, quando si acquieta solo se viene preso in braccio: la schiavizza. Il neonato già s’impone ai genitori con barbara vitalità; è un mafioso in erba – come diceva non ricordo quale psicologo infantile – perché dopo tre giorni sa già ricattare i genitori. Crescendo, però, dobbiamo essere in grado di donare noi la vita. E quando arriva la morte, dovremmo aver imparato così bene, da saper mettere in circolo tutto, da saper donare tutto, anche il nostro corpo, come diceva il cardinal Martini.

Ovviamente tutte queste cose non s’imparano in un giorno, in una settimana: questo dono non è una realtà scontata o facile da raggiungere. Occorre vivere in questa prospettiva per essere preparati. La morte è un precipizio nel nulla, è perdere ogni appoggio su cui fondare il proprio esistere, e Gesù sperimenta anche la perdita dell’appoggio del Padre; ma proprio per questo, un amare a fondo perduto, sulla pura fede nella forza e nella verità dell’amore, fa dire nel Vangelo di Giovanni: “Per questo il Padre mi manifesta il suo amore, perché io consegno la mia vita e così la recupero” (Gv 10, 17), e ci dà col Vangelo di Luca la ‘legge’ dell’esistenza della persona: “Chi perde la sua vita la troverà” (Lc 9, 25) [22].

5) Fiducia. Fiducia totale, come ha detto il cardinal Martini, e se non ci fosse la morte non riusciremmo mai a fare un atto totale di affidamento a Dio della nostra vita. Dunque, occorre fidarci tanto da saper perdere la vita [24].

Ma, a pensarci bene, siamo anche nati con un atto di fiducia. Se pensiamo sempre al feto, per uscire alla vita anch’egli deve pur essere stato capace di fidarsi ad uscire.

Questo fidarsi dell’amore di Dio subisce qui la prova del nove: occorre saper perdere la vita per riacquistarla; occorre fidarsi così tanto di Dio per raggiungere quella forma nostra definitiva, dopo aver perso la nostra forma attuale.

Ecco, se per tutta la vita ci siamo allenati a morire [25], quel giorno non sarà un giorno di terrore, di angoscia, non combatteremo contro la morte [26], ma sarà un giorno pieno di ricchezza nuova, di una vita nuova [27]. Uno scrittore ha poeticamente detto che la morte “è il momento di tornare a casa, di risalire alle tue origini. E quelle, sappi, sono divine perché sulla scala del tempo noi discendiamo dalla scimmia, ma sulla scala dell’essere noi veniamo da Dio. Tornare indietro significa reclamare la nostra discendenza divina” [28].

Belle parole! Si può però obiettare che possono andare bene per un vecchio, per uno che ha vissuto tutta la vita ed ha avuto il tempo per maturare. Ma cosa si deve dire quando muore un bambino piccolo, che non ha avuto assolutamente il tempo per allenarsi a morire? Che non sa ancora chi è, e non ha nulla da reclamare?

E non è scritto nella Genesi che l’uomo muore perché ha peccato mangiando il frutto proibito (Gn 3, 22)? In effetti ci è stato insegnato che il peccato è entrato nel mondo a causa di un solo uomo e il peccato ha portato con sé la morte (Rm 5, 12; 1Cor 15, 56).

In realtà non è così, perché già nella Bibbia si racconta che muoiono molte forme di vita che non hanno commesso alcun peccato: muoiono i fiori, i frutti, i semi, gli animali, che pur non hanno colpa alcuna, e sono nati e morti già da prima della venuta dell’uomo. E allora, che c’entra il peccato originale con la morte nel mondo? Tutte queste idee sembrano spropositi della teologia del passato che si fondava sull’idea secondo la quale il racconto di Adamo ed Eva è un racconto “storico”, mentre in realtà oggi si sa che si tratta di un mito molto antico, il quale solo cerca di spiegare l’origine del male nel mondo. Ci è stato insegnato che il male viene dall’uomo, dal primo uomo. Ma non è stato l’uomo a creare il serpente, e se l’uomo è stato tentato dal serpente, il male non può essere originariamente stato causato da Adamo ed Eva, sì che neanche l’armonia asseritamente vigente nell’Eden non può essere stata distrutta dai primi due uomini, ma ben prima del loro peccato. Il dogma del peccato originale sembra perciò rimandare a un peccato ancora più a monte, ancora più originale.

Ha detto in proposito un profondo conoscitore delle scritture [29] che Gesù ha rovesciato questa radicata concezione biblica (arrivata nonostante tutto fino a noi attraverso l’insegnamento del magistero), dicendo che se non si muore non si può vivere. Occorre morire ogni giorno al proprio pensiero e ai propri sentimenti per raggiungere un altro pensiero o altri sentimenti; occorre morire di continuo a tutte le definizioni per raggiungere altre definizioni più vere. E solo in questo continuo movimento alternato di morte e di vita si vive il mistero cristiano, ed il pensiero, anziché cristallizzarsi, diventa vivente. Quando l’uomo prende coscienza che la vita è questo continuo passaggio da morte a vita, da vita a morte, allora vive del frutto dell’albero della vita. Quando si prende coscienza che la vita è un continuo peregrinare, un continuo andare avanti, si diventa capaci di creare ma poi anche disfare ogni struttura, senza restare legati ad una visione, imprigionati in una ideologia. Chiaro che chi si è costruito una certa struttura e da lì non si muove più, resta bloccato, prigioniero della struttura che lui stesso si è creato. Domani, invece, devo essere diverso e devo saper creare forme nuove; e dopodomani di nuovo così, il che richiede continuo impegno e fatica.

Quanto alla morte di un piccolo bambino non so trovare una valida risposta. Forse si può solo pensare che la creazione è ancora disordinata, e che ci sono sicuramente tante situazioni ingiuste. Non è vero che nel mondo non si muove foglia che Dio non voglia, come sostiene l’Islam [30], per cui Dio ha voluto chiamare a sé quel bambino o quel giovane, per un suo disegno imperscrutabile: è che le leggi della natura hanno operato in quel modo. Nemmeno è vera l’idea, piuttosto comune, secondo cui l'uomo è uscito perfetto dalle mani di Dio [31]: si tratta di un mito da intendersi come simbolo della chiamata divina ad un futuro diverso, non come descrizione di una condizione del passato. La mitica età dell’oro non è mai esistita: è una vocazione per il futuro dell'uomo. Il progetto di pace che avvertiamo urgente non è un ritorno a forme primordiali perfette di esistenza umana, ma è una novità assoluta che ci è affidata come sfida dalla storia [32]. E allora accade spesso in questo mondo che qualcosa avvenga anche contro quello che Dio vorrebbe, e questo accade perché – come si è detto altre volte - le creature non sono state in grado di accogliere tutta la forza di vita che la creazione conteneva. Siamo e restiamo minuscoli frammenti, con scarsa capacità di ricevere e accogliere. Anche se Dio si offre tutto, noi non siamo in grado di accogliere che piccoli frammenti per volta, perché siamo limitati, sì che il male resta una componente essenziale del nostro processo terreno. Insomma, l’uomo è un essere incompiuto, non una natura già bell’e fatta, e solo alla fine il male sparirà e saremo interamente in Dio. Solo alla fine l’uomo potrà assaggiare veramente il frutto dell’albero del bene, dove il bene è da intendersi come la forma perfetta [33], come il frutto perfetto, mentre il male è la dissoluzione di questa forma perfetta.

Allora non piangiamo per i nostri morti. Inutile andare tutti i giorni sulla loro tomba e pensare al passato. Lasciamo invece che i nostri morti vadano serenamente nell’abbraccio di Dio, perché li stiamo affidando alla Vita!

 

Dario Culot

 

 

[1] Ma forse, ciò che fa più paura è la sofferenza prima della morte. Non solo quelle fisiche (perché oggi si possono lenire con la terapia del dolore), ma quelle che colpiscono la dignità e te la tolgono.

[2] Canetti E., Il libro contro la morte, Adelphi, Milano, 2017, 167, 240, 231, 259, 288.

[3] L’ateo ritiene che non vi sia nulla di superiore all’immane potere della morte (Mancuso V., L’anima e il suo destino, ed. Raffaello Cortina, Milano, 2007, 1).

[4] Osserva giustamente un autore credente (Chimirri G., Libertà dell’ateo e libertà del credente, ed. Coop Fede&Cultura, Verona, 2007, 129) che gli uomini i quali non credono alla sopravvivenza dell’io e non credono in Dio, non dovrebbero avere paura della morte. Ma, contraddittoriamente, anche gli increduli temono la morte, ossia – in contrasto con la loro razionalità – hanno paura di nulla per nulla! La verità è che, più del nulla in generale, hanno paura dell’annullamento di sé (cioè non vogliono scomparire dalla terra). Vogliono rimanere attaccati a sé stessi e alla vita anche se per loro questa vita galleggia fra due “nulla.” Ma una cosa  appesa tra due nulla, è nulla anch’essa, e allora non si capisce perché dovrebbe essere vissuta. Coloro che giudicano la vita priva di senso, vivono in realtà come fossero già morti, giacché vivono come animali nelle mani dell’evoluzione cosmica!

[5] Schiller, citato da Canetti E., Il libro contro la morte, Adelphi, Milano, 2017, 223.

[6] Vatta M., Rubrica - Trieste volti e storie, Il Piccolo 18.12.2011, 40.

[7] Ma ecco che è l’ora di andare: io a morire, e voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti fuori che a Dio (Platone, Apologia di Socrate, XXXIII a).

[8] Basta guardare al suo ragionamento altamente filosofico che non fa una grinza dal punto di vista logico: “Invero della morte nessuno sa s’ella non sia per avventura il maggiore di tutti i beni che possono capitare all’uomo; e tuttavia la temono come sapessero ch’ella è il maggiore dei mali. E non è ignoranza codesta, ma la più vituperevole ignoranza, credere di sapere ciò che uno non sa” (Platone, Apologia di Socrate, XVII a-b). Quale condannato a morte pensa veramente così?

“Ora, se il morire equivale a non avere più sensazione alcuna, ed è come un sonno quando uno dormendo non vede più niente neppure in sogno, ha da essere un guadagno meraviglioso… anche perché l’eternità stessa della morte non appare affatto più lunga di un’unica notte” (Platone, Apologia di Socrate, XXXII d-e).

Nessun uomo appena normale, di fronte alla morte, riesce a mantenere questo distacco razionale e filosofico, perché prevale l'emotività.

[9] Tor C., C’è vita e vita, ed. EMI, Bologna, 2000, p.113.

[10] Il modo più semplice e bello di descrivere la morte a un bambino l’ho trovato in De Henzel M., La morte amica, ed. Rizzoli, Milano, 1996, 96: al nipotino che chiede alla nonna ammalata se non potrà più vederla quando lei se ne sarà andata, la nonna risponde: “La morte è come una nave che si allontana verso l’orizzonte. C’è un momento in cui sparisce. Ma non credere che non esista più, solo perché non la vediamo.”

[11] Maggi A., Dio e la gallina, relazione tenuta ad Assisi nel 2007, 72.

[12] Qui è bene ricordare la storia di quel vecchietto americano che, a causa del coronavirus, è stato in ospedale col respiratore artificiale: “Qui, per avermi fatto respirare qualche giorno mi presentate un conto di 10.000 dollari. Solo adesso mi rendo conto che per ottant’anni ho respirato ogni giorno gratis, e non ho mai pensato di ringraziare Dio per questo”.

[13] Samek Lodovici G., L’esistenza di Dio, ed. Art I quaderni del Timone, Novara, 2004, 46.

[14] È interessante ricordare l’esperimento che fece Federico di Svevia: alcuni neonati vennero affidati a delle donne che dovevano dar loro da mangiare e bere, ma non dovevano assolutamente coccolarli, parlare con loro, amarli. In pochissimo tempo tutti questi bambini erano morti.

[15] Così n. 2 della Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane – Nostra aetate – del 28.10.1965.

[16] Turoldo D.M., “Avvenire”, 7.2.1992, 17.

[17]] Vedasi, con maggior dettaglio, Molari C., Per una spiritualità adulta, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 110ss.

[18] Il rabbino Sussja esclamò, in punto di morte: “Nel mondo futuro non mi si chiederà “Perché non sei stato Mosé?”; mi si chiederà invece: “Perché non sei stato Sussja?”” (in Buber M., Il cammino dell’uomo, ed. Qiqajon, Magnago (BI), 1990, 27 s.).

[19] Politi M., La Chiesa del no, ed. Mondadori, Milano, 2009, 280 (intervista con Mancuso V.).

[20] Molari C., nell’intervista di Sandri L. su Giovanni Vannucci, testimone della luce, 27.1.2005, a cura del Centro interconfessionale per la pace – Cipax.

[21] Dice un proverbio indiano: Tutto ciò che potrai serrare nelle tue mani morte sarà quanto avrai donato con mani vive.

[22] Coda P., Dio, libertà dell’uomo, ed. Città nuova, Roma, 1992, p.118.

[23] Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle “uscite di sicurezza.” Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio (Martini C.M., “Vita Nuova,” n.4431/08, 2).

Come sappiamo se amiamo Dio con tutto il cuore? Se siamo pronti ad andargli incontro lasciando questa vita. Il mondo guarda alla morte di solito come l’ultimo grande fallimento. Ma è un fallimento solo se dopo c’è il nulla. Se però la morte è l’unico modo per iniziare la nuova e definitiva avventura, non dovremmo aver paura della morte, ma abbracciarla (Rothan M.W., 61 minutes, ed Author House, Bloomington (IN), 2008, 160).

[24] Chi pensa soltanto a salvare la propria vita la perderà; chi invece è pronto a sacrificare la propria vita per me e il Vangelo la salverà (Mc 8, 35, e l’analogo Gv 12, 25).

[25] Diceva Charles de Foucauld: vivi come se dovessi morire oggi.

[26] Esprime poeticamente questo concetto anche un racconto giudaico: E Abramo disse: “Signore, hai mai visto un amico desiderare la morte dell’amico?” E il Signore rispose: “Abramo, hai mai visto un’amante rifiutare l’incontro con l’amato?” Allora Abramo disse: “Angelo della morte, prendimi!”

[27] La morte è il giorno natale, il giorno della rinascita a nuova vita. Come si potrebbe “passare a miglior vita (come si dice) senza lasciare questa vita? Dobbiamo necessariamente morire e oltrepassare questa vita (Chimirri G., Libertà dell’ateo e libertà del cristiano, ed. Coop. Fede&Cultura, Verona, 2007,132).

[28] Terzani T., Un altro giro di giostra, Longanesi, Milano, 2004, 533.

[29] Vannucci G., Il richiamo dell’infinito, ed. Comunità di Romena, Pratovecchio (AR), 2006, 208 ss.

[30] Tor C., C’è vita e vita, ed. EMI, Bologna, 2000, 93.

[31] Da piccolo mi avevano invece insegnato che è stato proprio il peccato di Adamo a distruggere il bene di cui originariamente aveva potuto godere (Parente P., L’Io di Cristo, ed. Morcelliana, Brescia, 1951, 230), essendo la creazione nata perfetta; per cui se non ci fosse stato Adamo non ci sarebbe il male.

[32] Molari C., Quando la violenza comincia dalla teologia, in Religione e scuola, 1984, n.6, 272.

[33] L’uomo viene creato incompleto, immaturo, per cui non può toccare l’albero del bene e del male, cioè l’albero della figura completa e della sua distruzione, perché altrimenti cadrebbe nella morte senza risurrezione: infatti, il dissolvimento di una struttura per crearne un’altra più perfetta è una morte con risurrezione. L’uomo potrà afferrare il frutto solo quando avrà raggiunto la sua maturità perfetta. Il frutto non ancora maturo è immangiabile. Al momento l’uomo è un germe in continuo divenire: la sua immagine non è stata formulata una volta per sempre come quella dell’ape che opera da quando è stata creata sempre nello stesso modo, ma è protesa al perfezionamento di sé stessa e alla scoperta del suo compimento nella perfezione (Vannucci G., Il richiamo dell’infinito, ed. Comunità di Romena, Pratovecchio (AR), 2006, 146 ss.). In questi termini mi spiego perché Gesù, una volta risorto, non venne riconosciuto: chi ha conosciuto la crisalide, difficilmente l’identifica con la farfalla.

Solo per acquistare coscienza di sé sono dovuti passare millenni, perché è assai probabile che inizialmente l’uomo fosse impegnato solo a difendersi da tutto e a spendere tutto sé stesso per sopravvivere: non c’era tempo per la sua auto-coscienza. A un certo punto l’uomo si è scoperto come persona. Solo quando Cristo ha rivelato il volto di Dio, chiamandolo Padre, l’uomo ha scoperto sé stesso non solo come persona, ma come figlio di Dio (Molari C., L’Io di Cristo, in L’Uomo-Dio (a cura di Arrighi G.), ed. Coletti, Roma, 1965, 63 s.). Ciononostante, l’uomo perfetto non è ancora apparso in noi, eppure può esistere in noi. Il germe di Adamo è inserito in un vortice di intensa creatività, che non gli permette di fossilizzarsi mai, che lo sollecita ad andare sempre oltre, sempre più avanti. Il giardino di Dio è collocato nell’Eden, che non vuol dire “in oriente,” ma va tradotto con “in avanti.” Quindi non abbiamo il paradiso alle spalle, abbiamo il paradiso davanti a noi (Vannucci G., Il richiamo dell’infinito, ed. Comunità di Romena, Pratovecchio (AR), 2006, 146 ss.). Mentre il primo Adamo segna l’era della dualizzazione e della paura (Dio-uomo, uomo-donna, giusto-ingiusto), Cristo, il secondo Adamo, abolisce le separazioni, e crea l’era dell’amore, della riconciliazione. Dunque, per il cristiano, non si tratta di invocare il nome di Gesù, ma di vivere la nuova realtà compiuta da Gesù, il quale ha riunificato tutto ciò che nell’esistenza era diviso; il cristiano incontra nella sua vita una “deviazione” che si chiama Gesù, per cui l’io individuale si salda in un noi trascendentale e se noi tutti fossimo persuasi che ognuno di noi porta in sé una luce, un suono, un nome irripetibile, staremmo attenti a cogliere quel suono, quell’armonia, a percepire il profumo divino che ogni uomo porta in sé (Vannucci G., Il richiamo dell’infinito, ed. Comunità di Romena, Pratovecchio (AR), 2006, 188 s.). Quello che Dio vuole è la fraternità fra di noi: a quel punto saremo uomini perfetti.