Prélude à l’après-midi d’un clerc

Casa di Rodafà, fotografia del direttore

C’è il sole che penetra ovunque il Sabato mattina. Arriva delicato, rispettoso, atteso, desiderato, in ogni casa, attraverso ogni finestra, ogni pertugio e fenditura che possa sbrecciare la solitudine.

E lì dove le case cittadine sono avvolte dal chiarore c’è il silenzio, completo, assoluto, inquietante, sorprendente, ammutolente, da paese sperduto di montagna, lassù dove la bellezza schiaccia ed eleva.

La vita si salda in un tutt’uno inestricabile, non si sa più cosa sia culto e cosa no. E bisognerebbe rinnovare la lode e la protesta, il gemito, il lamento di Giobbe. Bisognerebbe saper “piangere la peste”, come rifletteva Pietro Pisarra ricordando Unamuno in una diretta facebook organizzata dall’Azione Cattolica con la partecipazione di Giacomo Canobbio e Fulvio Ferrario proprio questo sabato.

Eppure, da taluni, si desidera invece, si brama, un culto che separi da tutto questo, che ridia benedizioni, incensi, candele, canti, quando non esorcismi e riparazioni, perché il contagio è nell’aria e tanto tepore primaverile appare traditore, tanta purezza infida e maligna. Il mondo è cattivo.

Statue sui camion, processioni individuali di preti alla Don Camillo che si reca al fiume. Con tutte le migliori intenzioni, sia chiaro, non c’è ironia: c’è constatazione di una storia del nostro Paese effettivamente fatta così.

C’è però anche qualche domanda – questa sì – su cosa sia religione e cosa fede, e su quanto sia fastidioso ma necessario dover distinguere, o “discernere”, come meglio si dice.

Intanto ancora scrosci d’acqua del ruscello vicino.

Un latrato di cane. Canti di passeri e merli.

E finalmente, da ieri 1° maggio – almeno per le orecchie del qui scrivente -, il zinzilulare delle rondini. Sono tornate, salutano, si organizzano, si rincorrono, si danno appuntamento, ci rallegrano, ci danno vita, speranza, ci vogliono affidare qualche messaggio.

Ma noi invece, raso terra, abbiamo altri pensieri. Lì, nei cieli popolati di uccelli, tra le strettoie delle viuzze precarsiche, tra le tapparelle che s’aprono e chiudono, si celebra una diuturna liturgia, ma per noi non è granché, anzi.

L’impossibile accesso comunitario nelle chiese ha fatto sorgere reazioni quasi da “disoccupazione religiosa”. Come se il virus fosse una congiura atea, laicizzatrice, anticlericale, insomma blasfema contro le ragioni della religione e delle sue legittime manifestazioni. Come se la pratica religiosa, che – anche qui senza ironia – esige i suoi “professionisti religiosi”, fosse ormai andata in frantumi, distrutta in mille pezzi, ferendo le mani, i cuori, le menti. Una sensazione di trovarsi, improvvisamente, tutto d’un colpo, “senza lavoro” in quelle chiese che pur ad un certo “lavoro” son destinate. 

Qualcuno forse ricorderà il volume Funzionari di Dio di Eugen Drewermann. Il “funzionariato di Dio” è sparito da un giorno all’altro e i “funzionari” di Dio cosa possono provare dunque?

In francese il sostantivo “clerc” designa ad un tempo l’ “intellettuale”, il “chierico”, ma pure l’ “impiegato” e il “cancelliere”.

La vita dovrebbe essere celebrata dalla fede e la fede dalla vita, senza soluzione di continuità. Invece, dopo le parole del Presidente del Consiglio dei Ministri la sera del 26 aprile scorso che dichiara di non potersi ancora consentire la ripresa delle celebrazioni comunitarie nelle chiese, compare un Comunicato della Conferenza Episcopale Italiana (https://comunicazionisociali.chiesacattolica.it/dpcm-la-posizione-della-cei/) dove testualmente si può leggere: «I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto.»

La salvaguardia della salute dei cittadini sarebbe stata strumentalizzata per – addirittura - compromettere l’esercizio della libertà di culto.

Va riconosciuto con chiarezza e senza tentativi di far finta che quella frase non sia stata scritta: mai nella storia dell’Italia del Dopoguerra si era arrivati ad uno scontro simile tra Chiesa Italiana e Stato. Mai. Chi ha scritto le parole contenute in quel Comunicato si è assunto una precisa responsabilità. Con le parole non si scherza.

Il Comunicato è rubricato “DPCM, la posizione della CEI”. E sottorubricato: “Il disaccordo dei Vescovi italiani, che non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto.”

Il Comunicato contiene infatti altre frasi dal contenuto gravissimo: «Ora, dopo queste settimane di negoziato che hanno visto la CEI presentare Orientamenti e Protocolli con cui affrontare una fase transitoria nel pieno rispetto di tutte le norme sanitarie, il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri varato questa sera esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo.»

La Presidenza del Consiglio dei Ministri, stando a simili parole, avrebbe commesso niente poco di meno che un arbitrio. Non so se ci si rende conto della portata di un’affermazione del genere. Ci si domanda: ma come possono i Vescovi della Chiesa Italiana ritrovarsi in tali conclusioni? Viene da rispondere - senza nulla sapere di preciso e di concreto peraltro - che no, non possono ritrovarvisi: vorrebbe dire contrapporsi frontalmente allo Stato, fino ad ipotizzare, se è vero che un arbitrio è stato commesso, possibili forme di impugnazione del Decreto.

E il giorno di sabato 2 maggio 2020 compare, nel quotidiano Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, la notizia che il Santo Padre ha ricevuto in udienza mattutina l’«Em.mo Card. Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve (Italia), Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.» (https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2020/05/02/0259/00567.html)

E la sera del medesimo sabato compare un altro Comunicato CEI, di ben diverso tenore, rubricato questa volta “Messe con il popolo: condivise le linee di un accordo”. E la sottorubrica ora riporta: “Cardinale Bassetti: avanti, senza abbassare la guardia.” (https://comunicazionisociali.chiesacattolica.it/messe-con-il-popolo-condivise-le-linee-di-un-accordo/)

Vi si legge che il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana esprime «la soddisfazione mia, dei vescovi e, più in generale, della comunità ecclesiale per essere arrivati a condividere le linee di un accordo, che consentirà - nelle prossime settimane, sulla base dell’evoluzione della curva epidemiologica - di riprendere la celebrazione delle Messe con il popolo».

Sia permessa una sola permanente, e duplice, domanda: la soddisfazione deriva dal fatto che per davvero si è ritenuto il Governo un contraddittore capace di pregiudicare i diritti di chi crede? Oppure la soddisfazione corrisponde alla possibilità – sempre senza alcuna vena, neppure minima, di ironia – di finalmente riprendere per appunto quel “lavoro religioso” interrottosi all’istante?

Quella interruzione, tuttavia, non è stata determinata da una volontà persecutoria, sbalordisce che qualcuno lo immagini anche solo in bozza. Quale sarebbe infatti la mira di simile volontà è impossibile da comprendere.

Quell’improvvisa sparizione di pratica religiosa comunitaria è stata necessitata dalla preoccupazione per la vita – pro life, yes – che è stata a lungo considerata valore non negoziabile proprio quale contenuto di un “progetto culturale cristianamente orientato.”

In Italia non si sono sentite esortazioni come quelle del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, il cui intervento viene così riportato dal SIR (https://www.agensir.it/quotidiano/2020/3/19/coronavirus-covid-19-appello-del-patriarca-bartolomeo-un-nemico-si-volge-contro-lumanita-rispettiamo-le-misure-e-restiamo-a-casa/) il 19 marzo 2020: «“Forse, alcuni di voi hanno avuto la sensazione che con queste misure drastiche si sottovaluti e si offenda la fede”, scrive il Patriarca facendo riferimento, pur non in maniera diretta, alle aspre discussioni nel mondo ortodosso greco circa le restrizioni volute dal governo che necessariamente hanno un impatto anche sulle celebrazioni delle liturgie e in particolare sulla distribuzione dell’Eucarestia. “Ciò che è in pericolo – sottolinea il Patriarca ecumenico – non è la fede, ma i fedeli, non è Cristo, ma noi cristiani, non è il Dio-Uomo, ma siamo noi uomini”.»

E nemmeno si sono sentite richieste esplicite come quelle del Patriarca russo-ortodosso Kirill, le cui parole pure sono riportate dal SIR in data 30 marzo 2020 con questa descrizione (https://www.agensir.it/quotidiano/2020/3/30/coronavirus-covid-19-patriarca-kirill-di-mosca-non-venite-in-chiesa-dio-ci-chiama-ora-a-seguire-la-sua-strada-nella-solitudine-degli-appartamenti/): «Nella sua omelia, pronunciata ieri nella Cattedrale di Cristo Salvatore, il patriarca Kirill di Mosca ha invitato i fedeli a non recarsi in chiesa ma a restare e pregare nelle case per proteggersi dal contagio del Coronavirus. “Vi chiedo, miei cari, di astenervi dal visitare le chiese nei prossimi giorni” e “se qualcuno vi dice qualcosa, ricordate loro l’esempio di Maria d’Egitto”.»

In Italia, invece, si è ritenuto – se si deve stare al tenore del primo Comunicato della CEI di cui sopra – di essere davanti alla violazione di un diritto ed ora si esprime soddisfazione per un raggiunto accordo che supera quel contrasto. È così? Se è così, la fede ne è interpellata con potenza e scuotimento.

Eppure, ascoltando ancora il silenzio della sera nei nostri rioni, nelle nostre strade, nelle nostre piazze, sui nostri bus, l’impossibilità – che ci strazia – di non celebrare assieme l’eucaristia nelle nostre chiese sarà superata dall’amore reciproco, non da un protocollo di intesa. Dalla certezza di non esporre a rischio i nostri cari e di non essere noi inconsapevoli occasioni di contagio e non dal sapere che un qualche rischio si può correre purché il culto venga officiato.

Perché sono “queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!”

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro