Il celibato di Casaldáliga

San Romero de América, opera di Carolina Bautista, 24 marzo 2005,

titolo ispirato al poema di Pedro Casàldaliga “A San Romero de América”

- immagine tratta da commons.wikimedia.org

Con la morte di Pedro Casaldáliga molte e molti di noi avvertono di trovarsi di fronte alla narrazione della propria vita, perché il vescovo brasiliano di São Félix do Araguaia – forse avvertendo in realtà tale suo coinvolgimento planetario – ha fatto effettivamente parte delle nostre esistenze, ha segnato le nostre stagioni non solo di Chiesa, i nostri entusiasmi ed interrogativi giovanili, le nostre ansie di voler cambiare il mondo perché potessimo essere felici solo insieme agli altri, ai più poveri, alle più povere, e non da soli.

Ma il fatto che Casaldáliga fosse un vescovo cattolico ci ha fatto pure innamorare di un sogno propriamente ecclesiale che poi abbiamo immaginato fosse prossimo a realizzarsi con Francesco Vescovo di Roma e che ora intuiamo come abbisogni però di altre evoluzioni ed altre prospettive, perché siamo cambiate, e cambiati, noi ed è cambiato proprio quel mondo che volevamo “rifondare” all’insegna della giustizia per i più deboli ed oppressi e della fraternità con gli ultimi della Terra.

La teologia della liberazione degli anni venti del Duemila non può essere – ce ne rendiamo ben conto – la teologia della liberazione degli anni settanta del Novecento.

Ritornano ad affacciarsi quattro urgenze che a tutt’ora risultano abbastanza drammaticamente inevase: la realtà degli abusi, di qualunque abuso si tratti ma senza dubbio con una preminenza da tragedia alle condotte sessualmente abusanti; la realtà delle donne, la cui presenza nella Chiesa sembra, nonostante ogni pronunciamento di eccelsa dignità, non poter mai consentire alcun accesso ad uno dei sacramenti (con una esclusione per ciò solo abbastanza problematica dal momento che pensare a 6 sacramenti, e non a 7, riguardanti le donne crea qualche imbarazzo dogmatico di non poco momento); la realtà giuridico-istituzionale, dal momento che non pare, da un lato, più possibile confidare nel mero strumento della codificazione canonica, ma, dall’altro, sembra pressoché del tutto assente un ceto di canonisti in grado di misurarsi non con le istanze del passato, bensì con quelle del futuro ed infine, ma per nulla ultima per importanza, anzi in cima ad ogni emergenza pastorale, la questione delle soggettività, intesa come acquisizione di coscienza postmoderna di quale sia lo statuto proprio di ogni esistenza umana che si ponga criticamente alla ricerca di luoghi comuni culturali spesso solo funzionali a dispositivi di potere e scandagli, nello stesso momento, una sempre più sensibile acquisizione di diritti civili che le comunità statali debbano riconoscere e garantire.

Eppure, nonostante queste quattro urgenze – almeno a parere del sottoscritto -, permane un appello, un interrogativo, forse anche un dubbio, che scompagina ogni altra riflessione in ambito ecclesiale. Mettiamola così: chi se la sente di affermare che la dimensione “sacerdotale” (“episcopale” in realtà, ma qui interessa mettere in evidenza il potenziale simbolico dei ruoli ministeriali nella Chiesa) del vescovo Casaldáliga sia stato qualcosa di indifferente, di secondario o di separato e clericale? E chi, allo stesso tempo, se la sente di dire che il suo celibato “monastico” – Casaldáliga era infatti un religioso claretiano (cioè della Congregazione dei Missionari figli del Cuore Immacolato di Maria, fondati nel 1849 in Spagna da Antonio María Claret) – sia stato sintomo di una incompiutezza umana, di una frattura non ricomposta, di una parzialità paralizzante?

Il riconoscimento è unanime, crediamo: Pedro Casaldáliga era incarnazione di un amore talmente appassionato, talmente intenso, talmente coinvolto con la sua gente, da essere davvero matrimonio di popolo di un vescovo con la sua Chiesa, realtà di dedizione ministeriale completa, ben rappresentata dall’anello nuziale che ogni vescovo porta al dito e che, ad esempio, Tonino Bello portò sfilandolo amorosamente alla madre, facendo diventare quel medesimo oggetto, da fede matrimoniale, segno episcopale.

Casaldáliga non era – come certa retorica spiritualista ci ha costantemente bombardato con riferimento al celibato ecclesiastico o religioso – “sposato a Dio”, bensì “sposato al popolo”, non diversamente dalla realtà matrimoniale che Dio stesso ha scelto di concretizzare nella carne di Gesù di Nazaret.

Il vescovo brasiliano morto ieri era più “sposo” di infiniti stuoli di ottimi mariti perbene che tuttavia non riescono a trascendere il cerchio della coppia o della famiglia che hanno formato.

Che cosa importa nel Regno di Dio, assai più vasto dei confini della Chiesa: essere celibi, essere sposati, o amare?

Sorprende constatare che vi sono celibi più nuzialmente coinvolti con la nostra quotidiana realtà di tantissimi sposati e tantissime sposate e che vi sono sposate e sposati assai più monasticamente impegnati per la causa degli altri e delle altre di infinite schiere di preti, suore, monaci e monache.

Sopra le quattro urgenze, che ci si è permessi di annotare prima, permane dunque il discrimine dell’amore effettivo. Al cui cospetto le logiche morali, debitrici di incasellamenti metafisici per nulla rispondenti alle nostre istanze più vitali, si frantumano subito con facilità.

Se ciò che conta è amare, è abbastanza semplice accorgersi di chi ama e di chi no.

Chi ama soffre e gioisce, chi non ama resta indifferente.

Chi ama non esclude ma “elegge”, sceglie di aprire il cuore ed il corpo a chi sa meritevole di ogni fiducia. Perché chi ama supera persino il pudore nell’abbandono. Chi ama ospita, mentre chi non ama chiude bene la porta per non accogliere.

E tuttavia l’accoglienza, che sostanzia di nuzialità qualunque scelta di vita, non è appannaggio né di religiosi celibi né di laici sposati: è sacramento fontale dell’immergersi e del lasciarsi mangiare. Battesimo ed Eucarestia, come la Riforma protestante attesta ed insegna.

Il 26 agosto prossimo faremo memoria dei 10 anni dalla morte di Raimon Panikkar, anch’egli nato in Catalogna – proprio a Barcellona – come Casaldáliga (nato a Balsareny il 16 febbraio 1928).

La teologia della liberazione non è archiviabile, non si è assurdamente estinta, perché la liberazione è caratteristica propria dell’amore. Se l’amore non libera, non è amore. Così come la religione (si veda la riflessione proprio di Panikkar al link https://www.youtube.com/watch?v=yV5mW611m1A).

Allora si può forse rivelare che decenni e decenni fa, alla poesia di Casaldáliga che cantava (https://twitter.com/Casaldaliga1/status/1174725148475297793):

Niña precoz,

hermana primogénita

de la Liberación

que se conquista.

 

Niña novia del Día prometido,

bautizada en la sangre,

grávida de esperanza.

 

Quiero abrazarte, América,

por tu cintura ardiente,

¡Centroamérica nuestra!

 

qualcuno (tale Italo Joven), nella foga dei suoi vent’anni, rispose:

Quiero abrazar contigo,

amigo obispo,

Centroamérica nuestra,

y, como soy pobre

de corazón

y de vista,

quiero también

que sea

una novia verdadera.

 

Le due traduzioni sono semplici:

Ragazza/bambina precoce,

sorella primogenita

della liberazione

che si conquista.

 

Sposa del giorno promesso,

battezzata nel sangue,

incinta di speranza.

 

Voglio abbracciarti America

per la tua vita ardente,

la nostra Centro America!

 

-         Voglio abbracciare con te,

-         amico vescovo,

-         Centroamerica nostra,

-         ma poiché sono povero

-         di cuore e di vista

-         desidero anche che sia

-         una fidanzata in carne ed ossa.

Casaldáliga ci indica la strada di desideri innamorati e concretissimi, gli unici che ci salvano.

Abbiamo appena iniziato a percorrerli. Chissà dove ci porteranno.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro