Senza chierici, dopo 75 anni

Ernesto Balducci, foto scattata a Cagliari nel 1992, autore Matzuyagi,

e

Pagina dei Vangeli del Monastero etiopico di Gunda Gunde, anno 1540 ca 

- tratte entrambe da commons.wikimedia.org

È un 25 aprile vissuto in quarantena, appendendo il tricolore alle finestre per attestare che si è vivi, per testimoniarlo a se stessi più che agli altri, dal momento che nessuno, o quasi, passa ancora per strada.

Un 25 aprile in cui si canta con le lacrime agli occhi “Bella ciao” e “Fischia il vento” dai balconi – se si riesce, emotivamente soprattutto -, come capita a me d’udire in questo momento nel rione in cui vivo.

In discussione non appare tanto un’impossibile analogia tra liberazione dal nazifascismo e liberazione dall’epidemia, quanto l’effettiva esistenza, oppure no, di un senso di comunità che pensavamo smarrito. No, non è perduto, non è dimenticato, non è stato abbandonato.

La Resistenza, che tramite la lotta partigiana portò all’Italia della nostra Costituzione, è memoria e non ricordo perché la presunta affermazione di sempiterni “valori assoluti” – anzi, con le maiuscole, Valori Assoluti –, adagio tipico dei regimi dittatoriali forgiati da una precisa attitudine a vedere assicurati, con la violenza e con il potere, ordine, disciplina e rispetto di principi antidemocratici ritenuti salvifici, quel tentativo di creare un dio fatto Stato fu mostruoso esonero, invece, dal pensiero e dalla passione, dall’intelligenza e dall’amore. Tutto era atto, tutto era concretezza, immediatezza, maschia, virile, volizione. Una religione civile, benedicente il potere criminale. Una perversione.

Il nazifascismo non è assimilabile ad alcun’altra pagina della nostra Storia e tuttavia l’attuale crisi sanitaria – non bellica -, che stiamo vivendo in questi giorni, è la più grave dal Dopoguerra. Né il terrorismo, né lo stragismo, né i disastri naturali più o meno riconducibili ad opera d’uomo hanno avuto dimensioni “globali” per l’intero Paese come oggi il flagello del Covid-19.

Eppure il venir meno, per necessità di reazione al contagio, di ogni contatto fisico ha, per contraccolpo, messo in drammatica luce la correlata necessità, anch’essa vitale, che abbiamo e sentiamo tutti e tutte, di abbracciarci, di stringerci le mani, di parlarci all’orecchio, di baciarci, di sentire reciprocamente i nostri corpi, di guardarci nel viso non coperto da mascherine. E ancora non sappiamo quando sarà possibile, come accadrà, ma è il nostro più lacerante (e lacerato) desiderio. Molto più che poter andare a correre.

Nella comunità ecclesiale, cattolica, romana, quel medesimo desiderio assume i connotati di una tensione nuova, rinnovata, dimentica di passati anche recenti, ad una fraternità effettiva che abolisca distinzioni di stato – laici, chierici – e saldi la vita al culto, l’esistenza alla liturgia.

Con somma sorpresa, con destabilizzante sorpresa, si scopre che questo sta avvenendo, avviene, e che potrebbe consolidarsi definitivamente.

I presbiteri che non possono celebrare con l’assemblea subiscono – per così dire (ma neanche troppo per sola similitudine) – una reale “perdita di stato clericale” che li accomuna a tutti i battezzati. Restano segnati dal sacramento dell’Ordine che hanno ricevuto, ma un simile dono di Grazia non li trasferisce altrove rispetto alle case, non li “aliena” in una condizione di vita diversa da quella di ognuna ed ognuno di noi. Si ritrovano ad essere preti ma non più chierici. Si ritrovano “preti laici”, così realizzando, a livello diffuso e non più solo per qualche coraggiosa opzione personale, la profetica testimonianza del presbiterato, “sacerdozio” per capirci - ma sarebbe meglio non ricorrere a tal sostantivo -, che fu propria di Ernesto Balducci, prete scolopio morto il 25 aprile di 28 anni fa.

È come se l’intero corpo presbiterale italiano si fosse venuto improvvisamente a trovare “in condizioni balducciane” e, per coincidenza in apparenza casuale - ma non è dato penetrare in eventuali ulteriori significati storici -, proprio a 75 anni dal 25 aprile 1945.

La storia del clero italiano ha conosciuto la crisi del pre e post concilio ma non ha mai dovuto registrare una massiva, repentina, pressoché immediata, “laicizzazione” d’emblée, necessitata, paradossalmente, dall’urgenza di salvare la vita del prossimo.

È qualcosa che appare persino scandaloso secondo un approccio di ermeneutica ecclesiale. Nessuno, è ovvio, ha tolto ai preti la loro abilitazione a guidare e presiedere le comunità – e dunque anche le celebrazioni liturgiche -, ma, venendo meno l’assemblea, il loro status è ridivenuto, per appunto, “solo” comunitario, presbiterale precisamente, ed ha radicalmente perso la sua configurazione clericale.

Codice di diritto canonico, can. 290. “La sacra ordinazione, una volta validamente ricevuta, non diviene mai nulla. Tuttavia il chierico perde lo stato clericale:

1) per sentenza giudiziaria o decreto amministrativo con cui si dichiara l'invalidità della sacra ordinazione;

2) mediante la pena di dimissione irrogata legittimamente;

3) per rescritto della Sede Apostolica; tale rescritto viene concesso dalla Sede Apostolica ai diaconi soltanto per gravi cause, ai presbiteri per cause gravissime.”

La condizione che stiamo tutti vivendo sembra avere surrettiziamente, eppure realmente, inserito un quarto caso: per quarantena da epidemia.

Può sembrare una provocazione, e certamente in parte lo è. Ma le giornate che si vivono nelle prassi pastorali delle comunità, benché a distanza, vanno esattamente in questa direzione, di una distinzione tra battezzati in ragione del ministero e non dello stato di vita.

Il canone 290 è stato così “riscritto”, con una quarta ipotesi, non però in ragione di un assoggettamento ad indebite costrizioni di poteri extraecclesiali, bensì in ragione della fede.

È venuto il momento, cioè, in cui non è più possibile sentir annunciare i parroci dai pulpiti che “coronavirus o non coronavirus” sarà comunque fatto questo e quello, perché quella messa tra parentesi di una drammatica condizione che ci affratella – l’attuale pandemia - è il risucchio clericale nel quale non sarà più pensabile ripiombare e dal quale ormai si desidera d’essere liberati per sempre. “Coronavirus o non coronavirus” fa ormai la differenza per la vita di tutti, non solo di alcuni.

Le chiese sono accessibili ma non comunitariamente, le assemblee sono impossibili. Non per questo si dissolvono le comunità, perché, se questo fosse davvero il timore, grave sarebbe l’affronto verso la confessione di fede. La Parola di Dio non è assente, non potrebbe, non sarebbe tale, anche se un preoccupante silenzio attornia la sua frequentazione proprio in queste settimane. Una Chiesa che non parla della Parola non è possibile quanto una Chiesa priva di sacramenti.

Ci sta davanti un’effettività ecclesiale che non potrà più essere come prima, come se niente fosse accaduto, lieti della chiusura di una incresciosa parentesi per poter finalmente tornare ai riti noti. Ci sta davanti una Chiesa divenuta ormai reciprocità affettiva profondissima, luogo e spazio non più collocabile in luoghi e spazi da riservare in esclusiva al sacro.

Siamo divenuti tutti, tutte, - ogni vita, ogni casa, ogni nome e cognome -, “periferia esistenziale”.

Ma anche un certo Gesù venne dalla periferia. Anche il Monte Amiata era periferia. Anche la Resistenza si organizzò in periferia per poi liberare le città.

Ci attende un domani senza più chierici, ma con presbiteri e ministri, e ministre, d’ogni possibile configurazione, dove sarà solo l’amore, intelligente, entusiasta, pervicace, ad indicare la strada verso la risurrezione.

Un domani, già iniziato, che vedrà “farsi eucaristia in ogni dove”.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro