Nessuno tocchi Bose nel suo Enzo Bianchi

Monastero, disegno originale di Rodafà Sosteno

Lo scorso 26 agosto, tre giorni prima della ricorrenza dei quarant’anni dalla morte di Franco Basaglia, è comparso su “Repubblica” un importante articolo dello psicanalista Massimo Recalcati, intitolato Nessuno tocchi Enzo Bianchi nella sua Bose (http://www.farodiroma.it/nessuno-tocchi-enzo-bianchi-di-massimo-recalcati/). Ci permettiamo qui di parafrasare, per così dire,  quel titolo, capovolgendolo e dunque rendendo complemento oggetto dell’imperativo biblico la celebre comunità monastica del biellese e complemento di luogo figurato il suo fondatore, nel senso cioè che – almeno a parere del qui scrivente – il provvedimento canonico nei confronti di Enzo Bianchi, che senza ombra di dubbio alla storia e all’esperienza di Bose appartiene interamente non solo a motivo della sua costituzione, non può essere occasione per indebolire, in qualunque modo, l’originalità stessa di quella storia e di quella esperienza.

Il nostro giornale ha costantemente seguito la vicenda di Bose, nel tentativo però, non sappiamo quanto riuscito, di evitare sia una specie di damnatio memoriae di Enzo Bianchi (merita osservare che ogni sera ai Vespri, nella chiesa monastica, il priore Luciano Manicardi prega pubblicamente per lui e non è lecito ad alcuno, salvo sia in mala fede, dubitare della verità e dell’intensità di quella preghiera) sia una specie di ostracismo affettivo e spirituale verso quella Comunità monastica rea di non si sa bene quale gravissimo illecito se non un parricidio che, da un lato mi pare proprio il fondatore della psicanalisi reputi simbolicamente – totemicamente - necessario e dall’altro, nel caso specifico, apparirebbe quanto meno bizzarro.

Al riguardo il nome di Franco Basaglia risulta in effetti tutt’altro che ingombrante e citabile a sproposito.

Riflettiamo un attimo: mentre si nota attorno a Bose - ad un semplice osservatore esterno – un preoccupante affollarsi di considerazioni, analisi, elucubrazioni di ogni tipo e misura, financo innervate a volte di rischio di mitomania protagonistica o di sforzi di vicinanza concludentesi però con martellanti inviti a tacere, a fare silenzio, a non parlare, di cosa c’è davvero bisogno per superare l’impasse? C’è bisogno di una prospettiva completamente nuova e diversa. Di un altro angolo visuale, “radicalmente” altro. E che vuol dire?

Lo struggente, e fondamentale, documentario di Sergio Zavoli del 1968 sulla riforma basagliana, tramesso ieri sera da Rai Storia, si intitola “I giardini di Abele” (https://www.rainews.it/dl/rainews/media/I-giardini-di-Abele-Sergio-Zavoli-nel-manicomio-di-Gorizia-f059e43d-e324-40a7-8ae7-81cad653bdb8.html).

Abele è l’innocente, colui che viene altroché se “toccato”, anzi “ucciso”. Caino lo ha ucciso, è il colpevole, ma il capitolo 4 del Libro della Genesi riporta il comando divino di non uccidere lui, tale colpevole ed esattamente benché colpevole.

Invocare allora la necessità che nessuno tocchi qualcuno, significa – sempre a parere del qui scrivente – far pensare che una qualche “colpa”, cioè una qualche “responsabilità”, ci sia, non sia collocabile tra misteriose parentesi esistenziali da segretare al riparo da occhi indiscreti, ed in effetti Recalcati, nel suo articolo, si fa domande serie, sulle quali già i commentatori della prima ora hanno ritenuto di poter sorvolare: «Ogni fondatore vive il rischio di confondere la responsabilità del suo atto di fondazione con un diritto illimitato di proprietà sulla sua creatura. È accaduto anche per fratello Enzo? Ha confuso la sua comunità con una cosa propria? Non l’ha lasciata crescere? L’ha soffocata? Le sue dimissioni, date pubblicamente nel gennaio 2017, sono state solo formali poiché, di fatto, ha continuato ad esercitare un governo ombra sulla vita della comunità misconoscendo l’autorità del nuovo priore? Potrebbe essere e non sarebbe certamente la prima volta che questo accade nella storia delle istituzioni, non solo religiose. Il fondatore può fare valere (consciamente o inconsciamente) un diritto di proprietà su ciò che ha fondato che mortifica fatalmente il suo sviluppo rendendo impossibile una trasmissione effettiva della sua eredità. Soprattutto, come nel caso di Bose, quando il carisma del fondatore si è rivelato essenziale per la vita stessa dell’istituzione.»

Ma l’accostamento a Basaglia permette, soprattutto, di interrogarsi su come “aprire” ciò che è rimasto “chiuso” con ciò generando al suo interno un male che non è una malattia da curare, bensì – al contrario - la sua esorcizzazione antiterapeutica in nome di quel “sorvegliare e punire” su cui Michel Foucault ci ha magistralmente avvertiti tutti e tutte e che certo implica dimensioni molto più vaste del semplice riferimento a luoghi deputati come carceri e manicomi. Detto più semplicemente: la nostra stessa vita presenta aperture e chiusure, smanie di autocontrollo e aneliti di libertà estroversa, fissazioni autoritarie verso noi stessi e desiderio che qualcuno ci salvi. E presunti esorcisti quasi sempre fanno al riguardo assai male invece che bene.

Nell’approccio ai fatti di Bose – del tutto a prescindere da dettagli specifici su eventuali precisi accadimenti che abbiano portato il Papa a conferire la sua approvazione in forma specifica ad un decreto di per sé amministrativo – sembra manchi una sintesi tra quattro elementi, che invece la biografia stessa di Basaglia presenta.

Primo elemento: una capacità narrativa, che si potrebbe anche chiamare “giornalistica”, sganciata da qualunque ricerca di sensazionalismo e da qualunque timore di parlare che cozza in modo violento con la continua esortazione alla parresía.

Secondo elemento: una competenza giuridica e canonistica che abbassi la temperatura dell’incertezza sul da farsi e rimetta, diciamo “professionalmente”, ogni cosa al suo posto senza rivoli d’altro tipo.

Terzo: una competenza teologico-pastorale, capace di comprendere che cosa Bose sia e che cosa rappresenti per la Chiesa, non solo italiana. Il fastidio di alcuni perché sarebbe in corso un’esagerata e unilaterale sopravvalutazione di quella esperienza corre il rischio di appalesare una sostanziale ignoranza quanto ai percorsi ecclesiali del post-concilio, quando non un tentativo, neanche troppo celato, di semplicemente amalgamarli tutti.

Quarto elemento: può sembrare assurdo, contraddittorio, forse – ecco, appunto – addirittura folle, ma c’è assoluto bisogno che chi si sente “toccato” da quanto sta accadendo in quel singolare villaggio monastico della Serra morenica d’Ivrea (non tutti naturalmente lo sono, com’è ben giusto che accada) sia capace di coinvolgimento emotivo ed affettivo e non risulti invece quasi cinicamente distaccato. Il blocco affettivo, od anche la semplice indifferenza affettiva che riduce gli eventi a mera cronaca, danneggia irrimediabilmente la possibilità di capire, di capire in profondità e non in superficie.

Gli elementi sono tutti e quattro singolarmente – va riconosciuto – sparsi qua e là, anche in assoluta perfetta buona fede, ma è la loro sintesi inestricabile a rendersi ora necessaria.

L’esperienza di Basaglia fu prima di tutto “narrata” – primo elemento – da giornalisti come Zavoli infatti; portò alla legge 180 – secondo elemento -; si inseriva in un quadro di intensa riflessione filosofica (è consigliabile non semplicemente la lettura bensì lo studio del volume di Pier Aldo Rovatti Restituire la soggettività. Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia, Alpha & Beta 2013) – terzo elemento – e – quarto elemento - scuoteva interiormente oltre che esteriormente, facendo mettere in moto una partecipazione solidale tradotta anche in impegno politico ma che traeva forza da una intensa condivisione affettiva ed emotiva, in grado di far splendere la razionalità anziché deprimerla, come qualche avversario delle ragioni del cuore potrebbe ritenere sbagliando.

Dunque: nessuno tocchi Bose nel suo Enzo Bianchi.

Bene.

Ma poi?

Poi è necessario lo sforzo di sintesi dei quattro elementi.

Ad esempio: può essere ricondotta l’attualità di Bose ad uno dei modelli di vita religiosa che il vigente codice di diritto canonico presenta o sarebbe il caso di pensare a qualcosa di totalmente inedito e nuovo? E se viene quasi spontaneo pensare ad una possibile novità anche istituzionale, di cosa dovrebbe trattarsi?

Siamo in un momento in cui è bene che si formulino tutte le domande prima di pensare alle risposte, ma domande che postulino, esigano, presuppongano già, in risposta, quella capacità di sintesi.

Si può tuttavia almeno abbozzare una pista nel segno di tale novità? Forse sì, anche se può generare, forse, molta delusione.

La pista abbozzabile va nel segno della valorizzazione del silenzio monastico, per nulla equivalente al silenzio che tace su ciò che è necessario sapere, accertare, condividere, lumeggiare o di cui è comunque necessario parlare, bensì campo proprio, terreno elettivo, di chi fa – come monaci e monache, ma non solo come loro – del silenzio una dimensione sacramentale, una pienezza di Parola talmente densa da diventare inesplicabile se non a gesti d’amore. La valorizzazione di un simile “silenzio sacramentale” può portare a sorprendenti configurazioni istituzionali del tutto nuove.

Il “pensare secondo Dio e non secondo gli uomini”, di cui al passo del Vangelo di Matteo che oggi la liturgia romana proclama, è un pensare eccedente, eccessivo, fuori misura, persino – nessuno si scandalizzi – indecente secondo i canoni del perbenismo composto. Un pensare eversivo, non controllabile e normalizzabile, perché sta fuori d’ogni calcolo e riesce solo ad amare ma nella responsabilità consapevole di ogni scelta, ogni minuto, ogni giornata. “Prudenti come serpenti e semplici come colombe” non è appunto di Machiavelli, ma insegnamento evangelico, sempre da Matteo.

Narrazione, diritto, teologia pastorale e grandezza di cuore sono gli ingredienti di qualcosa che il forno di Bose saprà e potrà forgiare con fragranza da emozionarsi, tanto sarà buono. Ed anche Enzo Bianchi lo troverà prelibato come il pane di ieri.

Vogliamo crederci, “nonostante qualunque cosa in contrario”.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro