Il dio bifronte

Giano bifronte, Maestro dei mesi (Gennaio), particolare, 1225-1230, 

Ferrara, Museo della Cattedrale - immagine tratta da commons.wikimedia.org

Dai nostri studi di storia romana ricordiamo tutti il dio Giano bifronte: una faccia veniva vista in tempo di pace, un’altra in tempo di guerra. Abbiamo trovato la cosa abbastanza singolare, eppure non abbiamo trovato altrettanto strano che anche il nostro Dio ci venisse presentato come un Giano bifronte, a momenti con una faccia estremamente violenta a momenti con una faccia amorevole. Eppure questa contraddizione fra amore e violenza era stata notata fra i cristiani fin dagli inizi. Diciamolo chiaramente: l’amore può essere solo offerto, e già se viene imposto (con le buone o con le cattive) non si tratta più di amore, ma di violenza.

Fin dal secondo secolo Marcione, inorridito dal Dio violento della Bibbia [1], inconciliabile col Dio amorevole del Vangelo, aveva spiegato che si era di fronte a due divinità opposte (appunto come il nostro Giano bifronte), il malvagio Dio creatore nella Bibbia e il buon Dio redentore nel Nuovo Testamento, ed i cristiani dovevano liberarsi immediatamente e senza problemi del primo per accettare solo il secondo [2]. Ma questa spiegazione rendeva difficile mantenere il monoteismo, per cui immediatamente Tertulliano [3] gli aveva replicato che un Dio privo di energia, incapace di applicare severamente la giustizia era questi un Dio inaccettabile. Da allora la Chiesa ci ha fatto trangugiare questo Dio violento ma anche amorevole come fosse la cosa più logica di questo mondo.

Sappiamo che la lettera di Giovanni è l’unica, in tutto il Nuovo Testamento, a dare una definizione di Dio: Dio è amore (1Gv 4, 8.16b). L’autore vuol dire che colui che non ama l’altro non ha idea di Dio «perché Dio è amore» (1Gv 4, 8), e non aggiunge altro: non dice che «Dio è amore eterosessuale», né che «Dio è amore platonico», né che Dio usa ‘severamente la giustizia’ prima di propagare il suo amore. Simile definizione inoltre non è e non può essere una definizione metafisica [4], perché l’amore non è una verità di carattere ontologico, bensì un’esperienza pratica che si può solo sperimentare nella vita.

Anche la violenza si sperimenta, e le cose si complicano proprio quando, anche nel Nuovo Testamento, si scopre la violenza di Dio. San Paolo, infatti, ha presentato la morte di Cristo come il «sacrificio espiatorio» di cui Dio ha avuto bisogno per perdonare i nostri peccati (Rm 3, 25-26; 4, 25; 1Cor 15, 3-5), nel senso che Gesù è morto a causa dei nostri peccati (Rm 5, 6-8; 8, 32; 14, 15; 1Cor 1, 13; 8, 11; 2Cor 5, 14; Gal 1, 4; 2, 21; Ef 5, 2), cioè è morto per colpa nostra. Ma ciò che in realtà Paolo afferma è che Dio, per perdonare i nostri peccati, ha bisogno di sangue, come viene confermato del resto della Lettera agli Ebrei secondo la quale «senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Eb 9, 22), e dalla lettera ai Romani in cui si dice Dio «non perdonò» neanche il proprio Figlio, bensì lo diede per tutti noi (Rm 8, 32). La croce associa così necessariamente Dio alla violenza.

Nonostante papa Benedetto XVI abbia cercato di convincerci che Gesù si è offerto in sacrificio per noi [5] (ma da nessun vangelo risulta che Gesù abbia mai detto di essersi sacrificato per noi) e che la croce è la massima espressione di amore [6], penso che la maggior parte delle persone veda la croce – presentata in questo modo, come obbedienza al volere di Dio, -  come un assurdo sacrificio sado-maso: un patibolo messo al centro della fede per dare soddisfazione a un Dio permaloso e offeso da insignificanti esseri umani.

Per di più il rapporto con Dio viene normalmente espresso nella Bibbia mediante categorie giuridiche, nel senso che Dio fa un contratto, un patto, un’alleanza con il suo popolo prediletto, mentre sappiamo che l’amore non può esprimersi con categorie giuridiche. Essendo poi Dio il più forte, necessariamente nella Bibbia è Lui che stabilisce le regole. E gli ebrei sapevano perfettamente cosa significa stringere un patto con un soggetto più forte, avendolo sperimentato sulla propria pelle con gli Assiri. Ecco che l’alleanza con Dio ricalcava il patto con gli Assiri.

Era infatti accaduto che gli assiri, dopo aver sgominato i piccoli regni limitrofi, avevano rivolto le loro attenzioni verso la Palestina. Nel 748 a. C. avevano attaccato il regno del Nord, e nel 722 tutta la Samaria, la parte più ricca di Israele, era ormai occupata. La politica degli assiri era stata quella di deportare e sparpagliare le popolazioni conquistate per cancellarne l’identità [7]. Isaia dà una chiara immagine della devastazione che ha subito Israele: «Così la figlia di Sion è rimasta come un capanno in una vigna, come una capanna in un campo di cocomeri» (Is 1,8): quando finisce la stagione del raccolto, i campi sono squallidamente spogli e la capanna è desolatamente abbandonata. Insomma, gli Assiri hanno fatto sparire nel secolo e mezzo abbondante di dominazione il 90% degli ebrei (che non torneranno mai più), cancellando il Regno del Nord, devastando il Regno di Giuda e risparmiando solo la sua capitale (Gerusalemme). Oggi, questi fatti li giudicheremmo più gravi della Shoah da parte dei nazisti. La politica imperialista degli Assiri portava a dei trattati bilaterali che, rapportati alla nostra cultura, potremmo chiamare di vassallaggio: il padrone assiro, che imponeva il trattato, prometteva di proteggere il vassallo da attacchi esterni; in cambio pretendeva oro, argento, giovani maschi da mandare in servizio obbligatorio di leva nel proprio esercito, giovani femmine per rendere più ricchi i propri harem; inoltre il padrone pretendeva che i propri dèi trovassero posto nei templi del vassallo, e che fossero adorati al pari degli dèi o del dio del vassallo (cosa invece mai richiesta dai romani). I firmatari del trattato lo concludevano invocando ciascuno i propri dèi per ricevere ogni tipo di maledizione in caso avessero avuto l’idea malsana di infrangere il trattato, o di benedizioni in caso di osservanza dell’alleanza [8]. Fra Assiria ed Israele questo durò per quasi due secoli, e ovviamente solo gli assiri avevano interesse a mantenere il trattato, perché erano essi che l’avevano imposto in quanto più forti. Ecco da dove nasce nella Bibbia l’idea di alleanza: tutti gli israeliti sapevano benissimo cosa significava un trattato.

Ecco anche da dove nasce nella Bibbia l’idea del peccato di idolatria, ovviamente con uno sguardo a posteriori: crollata la potenza degli assiri, quando la Bibbia viene scritta a Gerusalemme è facile, a quel punto, criticare l’empio Manasse, idolatra; ma ci si dimentica che, barcamenandosi, quel re era riuscito a far vivere in una certa tranquillità il suo popolo per un’intera generazione. Facile dire che avrebbe dovuto cacciare dal sacro Tempio gli dèi degli altri (quelli degli assiri), come ha fatto in seguito Giosia: ma Giosia l’aveva potuto fare perché ormai gli assiri si stavano logorando in una guerra con l’Egitto, e non avevano più né il tempo, né le energie sufficienti per occuparsi d’Israele. Ecco da dove il Deuteronomio prende l’idea delle benedizioni e soprattutto delle maledizioni che puniscono chi infrange il trattato (vedasi Dt 28).

Osea, invece, ha introdotto un elemento nuovo che sarà apprezzatissimo e seguitissimo: vede la rottura dell’alleanza (con Dio) come la rottura di un matrimonio [9]; la rottura è allora aggravata dall’adulterio della sposa infedele (Israele), perché questa – a differenza di quella solo politica con gli Assiri – doveva essere un’alleanza basata sull’amore (Os 2). E in Os 11,9 leggiamo conseguentemente questa promessa divina, proprio in virtù del fatto che Dio ama il suo popolo: «Non darò sfogo all'ardore della mia ira» [10]. Per amore, Dio accantona la violenza.

Questo Dio dal volto benevolo appare nella Bibbia anche in altre occasioni: ad esempio, quando Giona, dopo aver portato obtorto collo il messaggio divino agli Assiri di Ninive, resta sdegnato perché Dio nella sua misericordia ha rinunciato a castigare quei pagani miscredenti che si sono convertiti e che troppo a lungo avevano vessato gli israeliti per cui, offeso, gli volta le spalle senza rispondergli (Gio 4, 1-5); ma ecco che Dio si muove e passa Lui all’azione. Nella traduzione italiana si perde molto quando si traduce (Gio 4, 6) che il Signore fece crescere una pianta, (Gio 4, 7) mandò un verme, (Gio 4, 8) fece soffiare un vento afoso: in ebraico si usa per tre volte lo stesso verbo “provvide” (la divina provvidenza), ed emerge così chiaramente un Dio che si dà da fare concretamente nel mondo terreno per cercar di portare Giona dalla sua con azioni concrete, lasciando perdere le parole. Non è un Dio seduto sul suo alto trono, lontano, immobile, in attesa che sia l’uomo a muoversi verso di Lui. Nella traduzione italiana si perde molto anche quando si traduce che Dio s’impietosì (Gio 3, 10), mentre l’ebraico usa proprio il verbo “convertirsi,” cioè il muoversi facendo una conversione a “U”. Giona, all’opposto, impersona quel fedele israelita che si è costruito l'immagine di un Dio dalla duplice faccia, benigna verso Israele, ma sempre punitrice verso i pagani. La supplica a Yhwh perché gli tolga la vita, essendo per lui preferibile morire che vivere (4,3), esprime proprio la sua incapacità a convivere con l’idea di un Dio che invece di condannare i ‘cattivi’ fa di tutto per recuperarli e salvarli [11].

Però la storia di Giona ci dice anche qualcosa d’altro: non c’è salvezza automatica senza collaborazione dell’uomo e suo impegno personale (Lc 11, 30): come ai tempi di Giona, anche per noi la salvezza dipende dal ravvedersi, e se non si cambia si resta sulla strada sbagliata. Non esiste un Dio onnipotente, ma anche arbitrario, che sistema tutto prescindendo dalle disposizioni individuali, né che impone le proprie decisioni passando al di sopra della libertà individuale [12]. La scelta di convertirsi spetta a ciascuno singolarmente, e ognuno resta completamente libero di scegliere.

Anche il Nuovo Testamento è erede della Bibbia ebraica ed è nato in quella cultura, per cui era difficile immaginare altra via atta a conseguire la giustizia se non con metodi sbrigativi e violenti [13]. Questo Dio, visto come giusto ma severo fino alla violenza, lascia precise tracce anche nel Vangelo: pensiamo ad esempio alla distruzione di Gerusalemme, come fosse un giudizio divino di condanna (Lc 21, 20-22: «giorni di vendetta»): l’attribuire a Dio l’azione vendicativa ha come conseguenza il sottrarla all’iniziativa umana [14]. 

Insomma, in quella cultura era mentalità corrente credere in un Dio «di parte», che doveva per forza essere monopolizzato dai giusti come legittimatore della loro superiorità e del disprezzo per gli altri. Altro riscontro di questa mentalità si ha nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14): il fariseo, persona pia e religiosa, sa di essere benvoluto da Dio perché osserva le sue leggi (e fa anche qualcosa di più), e sa anche che Dio disprezza il pubblicano peccatore, e quindi alla fine lo punirà. E questa mentalità è giunta fino ai nostri giorni se papa Benedetto XVI rimarca che solo chi non vuole la giustizia può opporsi all’idea che alla fine l’uomo sarà giudicato [15], ovviamente sulla base del nostro metro di giustizia (cioè sarà premiato se meritevole, punito se non meritevole).

Invece sembra proprio che Gesù non la pensi così, perché Gesù pranza allegramente con i pubblici peccatori Levi e Zaccheo (autoinvitandosi a pranzo Mc 2, 16; Lc 19, 7); porta l’esempio del buon samaritano (Lc 10, 25ss.) considerato un eretico dai benpensanti, in quanto inosservante della Legge e quindi pure lui peccatore, ecc. Anche l'atteggiamento del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo (Lc 15, 25ss.) riflette questa mentalità corrente, perché il padre avrebbe dovuto trattare il figlio immeritevole tornato a casa come l’ultimo dei suoi servi. E diciamocelo francamente: anche noi - duemila anni dopo -  abbiamo sempre pensato che il figlio maggiore fosse dalla parte della ragione. Facciamo fatica a cogliere ciò che l’evangelista cerca di dirci: che se alle nostre tavole, se nei nostri altari non c’è posto per gli ultimi, per i peccatori impuri che noi disprezziamo, Gesù non si siede in mezzo a noi, anche se continuiamo a credere di essere gli unici suoi invitati, e continuiamo a non volerci sedere dove si siedono quegli impuri inferiori a noi [16].

Analogamente nella parabola del grano e della zizzania (Mt1 3, 24-30) viene contrapposta l’improvvida impazienza dei contadini alla saggezza e pazienza del proprietario del campo, in cui con il grano era cresciuta anche la zizzania, seminata nottetempo da un nemico [17].  Pure la parabola del granello di senape (Mc 4,30-32) va in questa direzione: occorre avere tanta pazienza, perché solo alla fine Dio si manifesterà in tutta la sua grandezza. Ma noi non abbiamo pazienza, e facciamo fatica a capire che siamo ancora nella stagione della semina e della crescita, mentre vorremmo essere già al momento della mietitura, vedere subito i risultati, utilizzando ovviamente il nostro metro di giustizia.

Ma se Gesù non usa il metro meritevole-immeritevole, peccatore-non peccatore, allora come si spiega la storia del giudizio finale di Dio dove tutti i ‘cattivi’ subiranno la condanna al fuoco eterno? Forse anche questa è soltanto il retaggio di un comune modo di pensare della religiosità di quel tempo, perché – se si leggono i vangeli con attenzione -  il Dio raccontato da Gesù in effetti non coincide mai col Dio giudice severo pensato dalla maggior parte di noi, col Dio che reagisce in maniera simmetrica, punendo con violenza il violento, salvando i giusti e condannando gli ingiusti. Questa, per noi, è la giustizia divina.

Gesù, invece, ci presenta un Dio che si relaziona asimmetricamente con gli uomini [18], e non riusciamo a comprenderlo perché la sua logica non è in sintonia con la nostra logica. Siamo di fronte ad un’immagine di Dio diversa da quella che abbiamo sempre ben chiara nella nostra mente. Questo Dio, con Gesù, si è fatto vicino agli uomini ed è entrato effettivamente nella storia umana, ma in forma di presenza assai “povera”, perfino apparentemente insignificante; la sua presenza è spesso contrastata dalle forze del male che il più delle volte sembrano prevalere, con evidenti fallimenti da parte di Gesù (pensiamo a quante volte chi aveva iniziato a seguirlo lo abbandona, a come non riesce a convertire i farisei, gli scribi, ma neanche il giovane ricco; a come gli cadono le braccia davanti ad alcune città della Galilea, meno capaci di conversione delle città pagane di Tiro e di Sidone, e perfino di Sodoma). Ecco spiegato perché le grandiose attese sollecitate dalle parole e dalle azioni di Gesù, smentite però dalle sue realizzazioni «povere», generavano spesso una grande delusione. In tanti, infatti, lo hanno lasciato, perché nel suo insegnamento c’è qualcosa di sconvolgente che scuote le basi stesse dell’insegnamento religioso tradizionale, quello impartito da sempre: non ci credevano le persone pie e religiose di allora, non ci credono le persone pie e religiose di oggi. È difficile ancora oggi credere che Dio ami i peccatori anche se non si pentono e se non hanno fatto prima adeguata penitenza.

E poi teniamo presente che tutto il giudaismo fondava la sua religiosità sui prodigi, sul clamore di un Dio che doveva entrare in scena in modo esplicito e trionfale, com’era accaduto nell’esodo dall’Egitto (Ravasi G.,): se fa passare gli ebrei, e poi chiude il mare sull’esercito del faraone che li insegue, beh! ...: chi non crederebbe se vedesse di persona questi segni? Tutti chiedono dunque segni del potere, e aspettando un Dio di potere quasi nessuno riesce a vedere un Dio di amore; quelli che lo hanno sotto gli occhi sono quasi sempre incapaci di percepire i segni dell’amore, che sono deboli rispetto ai segni di forza e violenza. Gli stessi fratelli non credevano in questo Gesù, che si presentava come servitore e non come re potente; che mostrava un Dio capace solo di offrire amore e non d’imporre con pugno di ferro la sua legge e le sue regole. Gentilezza, mitezza sono considerati segni di debolezza e un Dio vero non può essere debole.

E pensiamo così ancora oggi anche noi. Tant’è vero che, non riuscendo ad accettare l’immagine di Dio offerta da Gesù, anche la nostra religione ha portato le opportune correzioni: se il progetto di Gesù si basava sulla comunione e sull’accoglienza di tutti, il progetto religioso presenta, come componente necessaria, la differenza: occorre ben distinguere prima di accogliere tutti [19]. E siccome questa impostazione è valida in tutte le religioni, tutte le religioni finiscono col separare, dividere, far scontrare credenti con altri credenti, e da questo nascono intolleranza e violenza. Al contrario, il Vangelo di Gesù unisce, supera le distanze e le diversità, smussa gli spigoli ed è sempre comprensivo e tollerante. Di modo che i «presunti cristiani» che non hanno agito (o non si comportano) così, sono chiaramente traditori del progetto di Gesù.

La “giustizia” divina (che non ha nulla a che vedere con la nostra) risplenderà alla fine? Gesù crede fermamente di sì, e questo finale che deve avvenire è stato in parte anticipato da lui: un anticipo precario, eppure reale, un piccolo germe attestante la fioritura finale [20]. Gesù ci presenta un Dio che non espelle mai l’uomo, preferendo farsi espellere dagli uomini. Gesù ha dimostrato con la sua vita di credere in un Dio che vince non uccidendo, ma facendosi uccidere; un Dio che non è stato capace di risparmiare neanche al figlio amatissimo la croce. Quello che Dio è riuscito alla fine a fare è stato però resuscitarlo, non permettendo che rimanesse rinchiuso per sempre nella tomba. Dio rende così giustizia al Gesù crocifisso innocente, senza colpire i crocifissori. La sua azione «vendicatrice» consiste soltanto nel dare sempre e solo vita al perseguitato senza infliggere la morte ai persecutori [21], perché resta sempre il Dio che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi. Gesù è stato con Dio mentre era in vita, Dio sta con Gesù nella morte. La vita di Gesù, allora, nonostante la sua morte raccapricciante, non certamente voluta da Dio ma opera di uomini, e in particolare di uomini molto religiosi [22]-  non è stata un fallimento, perché niente di esterno può togliere il senso della vita. La vita ha un senso perché è nelle mani di Dio, e nessuno – qualunque cosa ci facciano – può rubare questo senso. È questa la speranza da cogliere nel Vangelo [23].

Certo, accettare un Dio così richiede una fede piena di coraggio, una fiducia enorme, una speranza dura e inscalfibile nei confronti di Gesù, non una tronfia sicurezza tipica di militanti crociati [24]. Gesù ha fatto esperienza di un Dio presente, ma a noi quello stesso Dio appare invece piuttosto assente, perché non vince, non trionfa in maniera splendida come si addice a un vero dio [25].

Poi, è arrivato Paolo, e in palese contraddizione con questo quadro già debole che abbiamo appena visto, ha coinvolto Dio in un’operazione sanguinaria: questo Padre (Abba secondo Gesù), per ragioni che ci rimangono oscure, avrebbe chiesto al Figlio di sacrificarsi e il Figlio, per ragioni che rimangono altrettanto oscure, avrebbe obbedito a questa ingiunzione, degna degli dèi aztechi [26], di fronte ai quali i conquistadores spagnoli rimasero inorriditi (come si è visto nell’articolo sulla Spiritualità indiana del mese scorso, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20202/numero-565---12-luglio-2020/spiritualita-indiana).

È evidente che siamo ancora di fronte a un Giano bifronte, mentre dobbiamo accettare o un Dio o l’altro, perché le due immagini non possono stare assieme. Lo sforzo del magistero di tenere assieme il Dio violento e il Dio amore è destinato al fallimento. Inutilmente la Chiesa aveva messo all’indice Nietzsche, il quale razionalmente aveva sostenuto che l’idea di un Dio amorevole faceva a pugni con la teoria della espiazione e della soddisfazione, e anzi metteva in evidenza un Dio orientaleggiante, incapace di dominare il proprio altissimo senso dell’onore e l’impulso alla vendetta [27], capace di accettare l’umanità peccatrice solo quando gli era stato pagato un congruo contributo di sangue: insomma, un simile Dio cristiano è paragonabile a un terribile vampiro che ha bisogno del sangue umano (anche quello di suo figlio) per placarsi, in linea col Dio biblico che preferisce inebriarsi del sangue della carne dei sacrifici di Abele piuttosto che delle primizie vegetali offertegli da Caino. Altro che Abba! Logicamente allora questo filosofo tedesco ha affermato che il dio creato da Paolo - contrapposto nettamente al Dio-amore dei vangeli e a un Gesù ammazzato dalle persone piissime di allora, - è la negazione di Dio (deus, qualem Paulus creavit, dei negatio [28]).

Secondo il prof. Castillo, la radice del dilemma che ancora ci attanaglia sta nel fatto che la cristologia è stata elaborata attraverso concetti e categorie che non sono stati dedotti dal Vangelo, bensì dall’ontologia ellenistica. Mentre i vangeli parlano della storia dell’accadere, la dottrina seguita dalla Chiesa si fonda sull’ontologia dell’essere. Così la Chiesa ha finito per porre il nucleo centrale della cristologia in maniera tale che si può essere d’accordo con il dogma, con l’interpretazione paolina, ma allo stesso tempo essere in disaccordo con il Vangelo. In altre parole, si può vivere d’accordo con la Chiesa ed in disaccordo con il Vangelo, in maniera che entrambe le cose risultino perfettamente compatibili, al punto di vederle come una cosa normale [29]. Ma normale questo non è.

Si è ormai detto più volte che il modo in cui il cristianesimo ci è stato spiegato non è più accettabile. Se le chiese si vuotano, se molti laici che erano credenti sembrano scoraggiati dall’insegnamento tradizionale e si trovano ai margini della Chiesa mentre tanti vescovi sembrano non accorgersene, ed anzi si sentono offesi di fronte al fatto che le parole che usano, e soprattutto i comportamenti che tengono, non sono più significativi nel gregge che essi pretendono di condurre, forse è giunta l’ora di pensare (un po’ tutti assieme, perché tutti siamo Chiesa) in modo nuovo e assumerci (un po’ tutti) il compito di ripensare a come insegnare il cristianesimo affinché sia conforme alla Buona Notizia che deve annunciare.

 

Dario Culot

 

[1] Es 15, 3: Dio (Yhwh) è uomo (ish) di guerra. Sof 3,17: «Il Signore tuo Dio è in mezzo a te come un eroe, come un guerriero».  Es 32,33: “Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me”. Ez 20, 25s.: “Yhwh fece passare per il fuoco i loro primogeniti per terrorizzarli e contaminarli, perché gli erano stati disobbedienti”. Gdc 5, 31: «Così periscano tutti i tuoi nemici, Signore!». Dt 28, 63: «il Signore gioirà a vostro riguardo nel farvi perire e distruggervi». Dio parla direttamente in Dt 32,39: «Sono io che do la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco», e in Is 45, 7: «Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura». Gli esempi di violenza sono numerosissimi. La stessa liberazione è stata ottenuta in Egitto al prezzo di una vera carneficina e il Liberatore ha fatto ricorso a una violenza tanto più crudele perché a danno d'innocenti bambini (Barbaglio G., Dio violento?, Cittadella, Assisi, 1991, 71). Come Yhwh violento permette agli israeliti la conquista della terra promessa, così, a causa della loro infedeltà li castiga facendoli cadere sotto gli Assiri che deportano gli abitanti della Samaria (I Cron 5 ,25-26), e sotto i babilonesi che deportano quelli di Gerusalemme (2 Cron 36, 17). Ovvio il collegamento che ne consegue: fedeltà = vittoria; infedeltà = colpa = punizione.

La violenza maggiore è comunque rivolta ai nemici che impediscono di occupare la Palestina; per una città straniera che non si sottomette il trattamento sarà il seguente: «ne colpirai a fil di spada tutti i maschi», mentre il resto sarà bottino (Dt 20, 1 3-14); si cancella così attraverso uno sterminio sistematico la popolazione che già abitava la Palestina: in ogni città cananea «non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio» (Dt 20, 1 6- 17). Questo totale sterminio viene così attribuito alla volontà di Dio, che risulta dunque essere il primo autore di genocidi nella storia. Si tratta ovviamente di schemi mentali diffusi anche in altre regioni dell'antico Medio Oriente (Barbaglio op. cit., 81s. con citazione fonti; ad es., in Mesopotamia le guerre possono essere definite «guerre di Ishtar» o «guerre di Assur», dèi contrapposti a Yhwh).

[2] Kaestli J-D., Storia del canone del Nuovo testamento, in Introduzione al Nuovo Testamento a cura di Marguerat D., Claudiana, Torino, 2004, 488.

[3] Adversus Marcionem, l, 24, 7.

[4] Ancorché siano in molti a sostenere che senza metafisica la Chiesa muore: cfr. ad es. l’articolo del vescovo di Trieste Crepaldi in “Vita Nuova”, n. 4924/2018, 3, dove s’insiste sul fatto che l’uomo ha la capacità di conoscere tutto il reale, non solo i fatti oggetto di esperienza empirica, e che solo la conoscenza metafisica rende possibile all’uomo l’acquisizione di una vera ‘sapienza’. Cfr. anche § 81 dell’enciclica di Papa Giovanni Paolo II, Fides et ratio, del 1998.

[5] Benedetto XVI, La gioia della fede, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2012, 48 e 102.

[6] Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009,136.

[7] Per questo, vista la mescolanza di popolazioni e di religioni, gli abitanti della Samaria saranno visti come meticci ed eretici da parte dei puri giudei di Gerusalemme.

[8] Va notato che gli stessi Egiziani, distrutti da Yhwh mentre inseguivano gli Ebrei che hanno appena attraversato il Mar Rosso, sono vittoriosi in altre occasioni grazie all’intervento di un loro dio (Donadoni S., Storia della letteratura egiziana, Milano 1957,165). E sulla stele di Mesha il re canta vittoria sugli Israeliti grazie all’intervento del suo dio protettore (Rolla A., La Bibbia di fronte alle ultime scoperte, Paoline, Roma 1959, 12).

Quindi in tutte le nazioni ogni conquista avviene sulla base giuridica del volere del proprio dio: per Israele è stato Yhwh ad assegnare a Israele proprio la terra di Canaan, per cui gli abitanti che l’occupavano erano privi di qualsiasi titolo legittimante il loro possesso. Lo stesso va però detto per gli Assiri quando sottraggono la Samaria agli Ebrei.

[9] Monasta A., Matrimonio e divorzio nella Bibbia e nella prassi della chiesa, “Testimonianze”, 1969, 887.

[10] Alla voce orghé il «Grande Lessico del Nuovo Testamento», VIII, 1113 dice: «termini indicanti l'ira sono usati circa 375 volte per la collera divina e circa 80 per quella umana». Non mancano testi biblici che attestano l'ira divina come violenza incomprensibile e irrazionale, estranea al campo delle responsabilità dell'uomo. Cosi per esempio l'orante del Salmo 88. Oppure si legga l Cron 13, 10: l’uomo che tocca l’arca. 

Dunque per la credenza biblica non c’è connessione necessaria tra azione colpevole dell'uomo e reazione punitiva violenta di Dio, visto che questi risponde secondo altra logica.

[11] Barbaglio, op. cit., 162.

[12] Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 112.

[13] Barbaglio G., op. cit.,133s.

[14] Barbaglio G., op. cit., 12s.: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: “A me la vendetta, sono io che ricambierò”, dice il Signore» (Rm 12, 19).

[15] Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009, 136 s.

[16] Gallazzi S., Cap. 14 e 15 il tavolo al quale ci sediamo o no: in https://www.youtube.com/watch?v=zkNl2EX0iMk&feature=youtub

[17] Barbaglio G., op. cit., 202s.

[18] Jonas H., Il concetto di Dio dopo Auschwitz: Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1990, 35: «durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. I miracoli che accaddero furono unicamente opera di uomini: le azioni di quei giusti, appartenenti ad altri popoli che, in modo isolato e sovente sconosciuto, accettarono l'estremo sacrificio per salvare, alleviare, se non erano in grado di far altro, condividere la sorte di Israele... Ma Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non volle, ma perché non fu in condizione di farlo»; il Padre celeste, disvelato da Gesù, che fa sorgere il suo sole su buoni e cattivi e fa piovere su giusti e ingiusti, non reagisce simmetricamente alla violenza con la violenza. In breve, Dio non è onnipotente nella storia perché è non-violento, disarmato, asimmetrico.

[19] Basta vedere come la pensa questo domenicano di oggi: “Nella sua prima venuta Gesù si è proposto con mitezza e umiltà, apparendo perfino un debole. Ma nella venuta finale Gesù si proporrà con potenza, separerà i giusti dagli ingiusti e incatenerà questi ultimi all’inferno per l’eternità”; e già in questa vita, “la Scrittura ci esorta a star lontano dagli empi e dai nemici di Dio, per cui possiamo avvicinare i peccatori a patto che non rechino danno alla nostra anima, che si mostrino pentiti dei loro peccati, e che con essi possiamo accordarci nel conseguimento di qualche obiettivo giusto e onesto” (Cavalcoli G., L’inferno esiste, ed. Fede&Cultura, Verona, 2010, 27s. e 35).

[20] Mc 13, 28: “Imparate dal fico questa parabola. Quando i suoi rami diventano teneri e germogliano le foglie, voi sapete che l’estate è vicina”.

[21] G. Barbaglio, op. cit., 254ss.

[22] Cfr. l’articolo Chi ha causato la morte di Gesù al n. 446 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriarchiviati2/numeri-dal-26-al-68/1999992---aprile-2018/numero-446---1-aprile-2018/chi-ha-causato-la-morte-di-gesu.

[23] Tor C., C’è vita e vita, ed. EMI, Bologna, 2000, 39.

[24] Quanti ancora sognano di avere dalla propria parte un Dio potente e trionfante sui nemici e in genere sugli oppositori. La Bibbia è stata dominata da questa convinzione. Quanti ancora distinguono tra violenza ingiusta e violenza giusta e quest’ultima acquisisce un significato positivo perché non solo si ritiene giusto punire un colpevole, ma la punizione dovrebbe servire a scoraggiare anche gli altri che vorrebbero fare del male. In realtà rispondere alla violenza con violenza, sia pure per ragioni di giustizia, è oggi un’idea che appare contraddittoria perché significa che la giustizia si può fare solo attraverso la violenza, e si è dimostrato che neanche la pena di morte riesce a fermare altri omicidi.

[25] G. Barbaglio, Il vissuto spirituale di Gesù di Nazaret, in Storia della spiritualità. 2. Il Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna, 97.

[26] Per gli aztechi era il sacrificio che manteneva e sosteneva il mondo: il sole era nutrito dai sacrifici umani, e lo stesso debole ma buon dio Nanauatzin si precipitava nelle fiamme del forno degli dèi per il bene del mondo.

[27] Nietzsche F.W., Aforismi, a cura di Vannini M., ed. Tascabili economici Newton, Roma, 1993, 61.

[28] Nietzsche F., L’Anticristo, ed. Adelphi, Milano, 1987, 66.

[29] Castillo J.M., L’umanizzazione di Dio, EDB, Bologna, 2019, 413.