Vescovi, figlie, chiroteche e pinze eucaristiche

Il vescovo e la bambina, disegno di Rodafà Sosteno, 

comparso a pag. 10 del Settimanale Vita Nuova, il 17 aprile 2009, pag. 10, 

nella rubrica Liturgia del quotidiano

L’insigne medievalista, e monaco camaldolese, Claudio Ubaldo Cortoni riporta proprio all’inizio del suo volume – fortemente, decisamente, consigliato – Sono Chiesa anch’io. Il ruolo dei laici e il rinnovamento (Rubbettino Editore 2013), un’annotazione autobiografica di Yves Congar:

«Martedì 12 marzo 1963

Alle 8.30 visita di Alberigo, consigliere del cardinale Lercaro. Quest’ultimo non ha un seminario, non ha professori. Ha solo un Seminario generale, che non dipende da lui, ma dalla Congregazione. I suoi consiglieri sono i ricercatori del Centro storico.

Alberigo dice che i vescovi italiani sono sconcertati, inquieti. Al Concilio hanno visto mettere in discussine posizioni per loro classiche e sacre. Così sono sulla DIFENSIVA. Inoltre, sono riuniti in una conferenza presieduta dal cardinale Siri, le cui relazioni sono tutte negative: CONTRO questo, CONTRO quello. Gli dico che, a mio parere, il rinnovamento verrà dai laici. Su questo Alberigo non mi nasconde il suo pessimismo: non esistono né centri né strumenti (riviste) di ricerca; non vi sono iniziative o organismi (congressi, pubblicazioni) che permettono ai laici e clero di entrare in contatto fra loro, dialogare, collaborare.

Il cardinale Lercaro si sente un po’ isolato. Alberigo insiste perché io vada a Bologna.»

 

Se non fosse per le considerazioni relative all’assenza di istituti di formazione e di iniziative pubblicistiche quanto a diffusione e confronto di elaborazioni teologiche, la pagina sembrerebbe essere stata scritta esattamente in questi giorni della prima decina di maggio 2020.

Perché anche i dubbi sui laici ritornano, e appaiono, di particolare attualità.

Che succede, infatti, se il cosiddetto “laicato” – ammesso e non concesso che sia ancora possibile ricorrere a simile terminologia, che sconta una progressiva desuetudine dovuta a carenza strutturale di contenuto ecclesiologico, giacché i laici continuano ad essere “coloro che non”, pur con tutte le più ampie valorizzazioni di tale “non” -, che succede, dunque, se il laicato non appare capace di prospettive teologiche proprie, provenienti dall’area esterna al tempio e al presbiterio, che dovrebbe essere per appunto la sua, ma si focalizza piuttosto sulla necessità che ridiventi centrale, anche in presenza di un pericolo enorme come quello di una pandemia, il culto? Che succede se la carenza di una riflessione teologica autonoma - certo nella comunione ecclesiale - si appiattisce unicamente sulla preoccupazione di vedere in azione un officiante nella zona sacra con i suoi fedeli anche a costo di ricorrere a formalità rituali del tutto aliene al significato di quei gesti e quelle parole, fino a poter “snaturare” il senso del convenire assieme nella celebrazione e superando qualunque perplessità sul fatto che in tal modo si possa giungere, com’è stato osservato, ad un vero e proprio scempio della simbologia dell’evento liturgico?

Qualcuno, a seguito del Protocollo della Conferenza Episcopale Italiana, firmato assieme al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alla Ministra degli Interni (https://www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2020/05/07/Protocollo-per-la-ripresa-delle-celebrazioni-con-il-popolo-7-maggio-2020.pdf), sulla ripresa delle celebrazioni liturgiche “con il popolo” nelle chiese , ha ricordato l’utilità di antichi, singolari, strumenti, come le “pinze eucaristiche” e “le chiroteche”. Oppure anche dei “cucchiai da ostia”. Si può utilmente rinviare, per saperne di più, al link http://www.scuolaecclesiamater.org/2020/04/utensili-eucaristici-in-tempi-di-covid.html. Le chiroteche sono solenni e pregiati guanti episcopali (https://it.wikipedia.org/wiki/Chiroteche) che potrebbero – è lecito ritenerlo – conoscere una deroga alla riserva d’uso prelatizio per farsi così decisamente più popolari e diffusi.

Il n. 3.4 del menzionato Protocollo prevede espressamente: «La distribuzione della Comunione avvenga dopo che il celebrante e l’eventuale ministro straordinario avranno curato l’igiene delle loro mani e indossato guanti monouso; gli stessi - indossando la mascherina, avendo massima attenzione a coprirsi naso e bocca e mantenendo un’adeguata distanza di sicurezza - abbiano cura di offrire l’ostia senza venire a contatto con le mani dei fedeli.»

Ora, la domanda che un laico, una laica - continuando ad adoprare simile insufficiente linguaggio -, dovrebbero porsi, almeno ad avviso di chi qui scrive, è: ma questa, con mascherine, guanti e senza contatto alcuno, è davvero esperienza di comunione eucaristica? Che cosa sopravanza all’interno del minuzioso dettaglio di sicurezza sanitaria? La reciproca appartenenza comunitaria all’unica Chiesa o l’esperienza distintamente individuale del rito sacro a rischio di sembrare appagamento di golosità spirituale? Dovrebbe essere domanda tipica del laicato, se è vero – come purtroppo non è vero – che i laici e le laiche sono rappresentanti ufficiali, nella Chiesa, di istanze che il mondo pone, non il consenso, ed il consesso, religioso. Perché altrimenti il cortocircuito è perfetto. In altri termini: che cos’è l’eucaristia per chi non è e non fa il prete? Non è possibile affrettarsi a rispondere che è la stessa cosa, perché ne risulterebbe così depauperata a morte proprio la capacità teologica di chi è laica e laico, risulterebbe alla fine non seguito né sviluppato, bensì avvilito, “il fiuto del Santo Popolo Fedele di Dio”.

Eppure, se invece si partisse dalla comune identità battesimale del Popolo di Dio, si potrebbe valorizzare quanto insegna il Vaticano II, al n. 9 della Sacrosanctum Concilium – testuale: «La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa» - o al suo n. 12 – sempre testuale: «La vita spirituale tuttavia non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia». Fino a giungere al n. 34: «I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni.» Va da sé che il Protocollo richiede invece moltissime e accuratissime spiegazioni. E la domanda ritorna (in bocca ad un laico come il sottoscritto): questa è davvero memoria della Cena di Gesù di Nazaret? Con mascherina, guanti, o – in versione liturgica – pinze e chiroteche? In questo modo si applica fedelmente il Concilio? Solo domande, beninteso, ma che, personalmente, inquietano.

È morto giovedì scorso, 7 maggio 2020, il Vescovo Emerito di Trieste Mons. Eugenio Ravignani. La sua capacità di fare sintesi tra culto e vita traspare nel semplice gesto – di cui conserverò memoria, appunto, non ricordo, finché vivo – di voler allacciare le scarpe di mia figlia Sara, di 2 anni, al termine della messa crismale di un Giovedì Santo di undici anni fa, durante la solenne processione di chiusura, benedicendo il Popolo con mitria e pastorale ma consegnando quest’ultimo al cerimoniere nel momento in cui si inginocchiò davanti alla mia bambina per metterle a posto i lacci. Con ovvio sbalordimento di molti presenti.

Da poche ora sappiamo che Silvia Romano è stata liberata. Una volontaria della nostra “meglio gioventù”, che, a 23 anni, aveva scelto l’Africa come propria ragione di vita. Secondo una lettura sapienziale, di fede condivisa, questa liberazione è una Pasqua e le strumentalizzazioni pseudopolitiche sui silenzi (ovvii) dell’operazione che l’ha portata a salvezza corrispondono alle grida del “crucifige, crucifige”. Ma sapremo, noi Chiesa, celebrare questa laicissima Pasqua? Sapremo trovare le parole, i gesti, i momenti? Ci riguarda o no questo evento di vita civile? Se ci riguarda, come ci riguarda? Dentro lo spazio sacro o fuori, in piena periferia esistenziale? E se fuori, in chiesa che diremo, pur ostacolati da mascherine?

Non può esistere un’Eucarestia – rendimento di grazie comunitario – senza contatto fisico, senza coinvolgimento del corpo. Se il corpo viene sterilizzato, è il sacramento ad essere sterilizzato. Ma ricompare, potente, di nuovo l’interrogativo su cosa sia, per ciascuna e ciascun credente, un sacramento. Su guanti e chiroteche, auspicabilmente, non è implicata la necessaria autorità magisteriale, nessun dogma è in questione. Sono in però in questione le nostre vite, dislocate in latitudini non clericali per obbligo di stato – diciamo così – ben prima di qualunque discussione ecclesiologica o addirittura giuridica. In chiesa si celebra, ma fuori si vive e si muore. Forse allora anche fuori sarà possibile celebrare ed in chiesa sarà possibile vivere e morire. Li ricordiamo i letti sistemati nella Chiesa trasteverina di San Calisto, con grande scandalo di alcuni, non diverso dallo sbalordimento di un vescovo che si cura delle stringhe di una bambina.

Il passo dal capitolo 14 del Vangelo di Giovanni previsto oggi dalla liturgia romana riporta queste parole del Cristo: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi.”

In chiesa invece non ci saranno molti posti, che verranno anzi necessariamente limitati e rigidamente contingentati. Il posto che viene assicurato nel Vangelo di Giovanni esige comunità, richiede di essere in tanti. Il Cristo non vuole restare da solo nella casa del Padre. Noi in chiesa soli invece resteremo, ognuno ed ognuna da soli ben distanziati e non comunicanti.

Eppure consola pensare che un “io” permarrà, salvifico ed eterno, ma intrinsecamente, indistruttibilmente, comunitario: l’Io di Dio, dove saremo anche noi.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro