Sofferenza

Sofferenza, Parco Storico di Monte Sole, foto di Roberto Ferrari 

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La ricostruzione che ancora oggi la Chiesa segue, in punto sofferenza-croce-morte di Gesù, viene da Paolo, il quale basandosi su tradizioni religiose assai antiche, accettate da Israele che interpretava la morte della vittima come «morte espiatoria» mettendola in relazione col «perdono dei peccati», ha applicato la teologia del sacrificio[1] anche a Gesù. Per Paolo è indubbiamente Dio che ha inchiodato Gesù sulla croce (Col 2, 14). Perché? Perché se non si sparge sangue non è possibile la remissione dei peccati (Eb 9, 22; Col 1, 19s.) e non è neanche possibile la salvezza per gli uomini, incapaci di placare Dio offeso da propri peccati. Secondo Paolo, cioè, Dio non ha perdonato nemmeno il proprio Figlio e lo ha consegnato a morte per tutti noi. Secondo il vescovo di Trieste, questa di san Paolo è una “mirabile prospettiva” [2]. Personalmente, invece, trovo semplicemente ripugnante che Dio abbia bisogno della sofferenza e della morte per perdonare e salvare, ma per onestà intellettuale occorre dire che effettivamente in alcuni passi dei vangeli emergono elementi che possono far pensare a una decisione divina: al momento della istituzione dell’eucaristia, il Vangelo di Matteo mette in bocca a Gesù la parole sul sangue «versato per tutti per il perdono dei peccati» (Mt 26, 28). Nella preghiera del Getsemani, Gesù chiede al Padre di sfuggire alla morte, aggiungendo però «non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 39). E in Giovanni, al momento dell’arresto, Gesù ferma Pietro che aggredisce con la spada un servo del sommo sacerdote, dicendogli: «non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» (Gv 18, 11). Questi passi possono effettivamente dar adito alla tesi che la decisione della morte in croce era, per Gesù, un ordine del Padre al quale egli si vedeva obbligato a sottomettersi. Se così fosse, dovendo noi ‘imitare’ Gesù (1Ts 1, 6), ci verrebbe ovviamente chiesta una costante sottomissione. Se cioè Gesù è stato obbediente fino alla morte, vogliamo non esserlo anche noi?

Il professor Castillo ha ben sintetizzato la spiegazione teologica proveniente dal magistero:

1) il male supremo e decisivo che soffre l’essere umano è il peccato;

2) a causa del peccato l’essere umano ha bisogno di essere salvato;

3) la salvezza dal peccato si può ottenere solo mediante la sofferenza.

O, come diceva Paul Ricoeur, il peccato è il male commesso, la sofferenza è il male subito [3]. Quindi c’è come una specie di compensazione fra i due mali.

Ma come mai Paolo ha elaborato una teologia interpretando la storia di Gesù in modo che, alla fin fine e per quanto si cerchi di mascherare l’immagine più cupa e feroce di questa dottrina, siamo obbligati a credere che Dio è, sì, un Padre, ma è un Padre che offre salvezza ‘facendo soffrire’? La risposta è semplice: per la società di allora chi moriva in croce era un maledetto da Dio (Dt 21, 22-23); quindi, con quella morte era palese a tutti che, alle spalle di Gesù, non ci poteva essere Dio. Allora Paolo, per far accettare questa situazione altrimenti inaccettabile, ha sostenuto che si trattava di un piano voluto da Dio (cfr. l’articolo La crocifissione, al n. 499 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-499---7-aprile-2019-1/numero-499---7-aprile-2019). Di più, faceva parte della tradizione biblica affermare che il sangue purificava praticamente tutto. Perciò Paolo, che essendo stato fariseo (Fil 3, 5) queste cose le sapeva bene, aggiunge nella lettera agli ebrei che «senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Eb 9, 22).

Spaventoso! È spaventoso riconoscere che per stare vicini a Dio sia indispensabile passare attraverso la sofferenza, e questa dottrina mi fa provare un istintivo rigetto, anche se può trovare agganci nei vangeli, anche se molti ci credono. Ancora in tanti non riescono ad annunciare il vangelo della gioia, e restano ancorati al vangelo della paura, insegnatoci in passato. Ma se il Vangelo deve essere una lieta notizia, nessuna persona normale può sentirsi felice con insegnamenti che creano paura. Anzi, sentir dire che Dio, per amare, ha bisogno di sangue sofferenza e morte, dovrebbe far rizzare i capelli in testa e farci scappare a gambe levate da Lui. Come si può contemporaneamente difendere l’idea che il Dio in cui crediamo è un «Dio vampiro», assetato di sangue, e al tempo stesso è il massimo dell’amore? Questo Padre è, sì, buono come il pane, ma è anche offesissimo e incapace di perdonare i peccati degli uomini [4] per cui vuole vendicarsi e in maniera truculenta. È evidente che le due figure (Dio vendicativo e Dio amore) sono inconciliabili; o si accetta un Dio o si accetta l’altro, perché insieme non possono stare, proprio come aveva fatto notare Nietzsche.

La Chiesa, invece, aveva messo Nietzsche subito all’indice, perché per essa le due figure erano perfettamente conciliabili; anzi, il magistero ha parteggiato di più per il Dio irascibile e vampiro, ha accettato lo schema proposto da Paolo insegnando che Gesù, Figlio di Dio, è venuto al mondo perché così volle il Padre affinché, mediante il dolore e il fallimento della sua passione e morte, salvasse noi uomini, condannati alla perdizione eterna a causa dei peccati. Quindi ha cercato di convincerci che anche il cammino di salvezza di tutti noi deve passare attraverso la nostra sofferenza [5], il dolore, le privazioni, la sopportazione, la rinuncia ad ogni piacere [6]. La felicità umana è così rimasta ai margini del cristianesimo. Tant’è vero che i più pii, se volevano dimostrare davanti agli altri di essere veri credenti cristiani, non avevano altra strada che abolire dalla loro vita allegria e felicità, e progettare il loro futuro su mille rinunce, sacrifici, sofferenze.

Per secoli ci è stato insegnato che la sofferenza avvicina a Dio, che il vero carattere di un cristiano sta proprio nel soffrire, come sosteneva nel ‘600 il predicatore Godeau, il quale si sarebbe ovviamente stupito della gaiezza di san Francesco (per fortuna ci sono sempre stati nel cristianesimo dei personaggi che cantavano fuori del coro). Per secoli l’unico divertimento concesso era partecipare al santo sacrificio della messa e al massimo ad una santa conversazione con persone pie; e di fronte all’evidente scoramento dell’uditorio in chiesa che ascoltava simili omelie, il predicatore Leonardo da Porto Maurizio, a metà del Settecento, non aveva meglio da dire a giustificazione di questa cupezza che pochi si sarebbero effettivamente salvati. È prevalsa cioè l’idea di sant’Agostino, di cui si può dire tutto tranne che fosse un allegrone [7]. Ancora di recente ci giunge la notizia di ferventi cattolici i quali pensano proprio come quella responsabile del settore adulti di un oratorio, la quale ha fatto sedere i bambini sotto il sole impedendo loro di andare a bere perché devono soffrire, visto che “la sofferenza avvicina a Dio” [8].

Ma se guardiamo ai vangeli nel loro insieme, il Dio di cui parlava Gesù voleva invece proprio ciò che la Chiesa cattolica teme più di ogni altra cosa: una vita umana libera, felice e piena, senza le costrizioni di una teologia cupa che impone sacrifici e sofferenze.

Diciamocelo pure: se oggi ci dicono di credere in un Dio che è Padre, ma poi viene fuori che è un Padre che offre salvezza solo facendo soffrire, è difficile credere in questo dio (così Castillo J. M., ed io mi associo pienamente a questo teologo). Non posso cioè credere a una ‘lieta novella’ secondo cui la salvezza si ottiene mediante la sofferenza, come dimostra la morte in croce di Gesù. Dio ci ha creati imperfetti, peccatori, e poi per questa imperfezione addebitabile a Lui stesso ci condanna, quando per di più poteva fare con tutti come ha fatto con la Madonna, resa esente dal peccato, compreso quello originale.

Se si accetta una simile idea cupa su Dio dovremmo anche rispondere a molte domande: è lecito che la morte di un altro ci liberi dal peccato? [9] Come potrebbe Dio imputare a Gesù peccati che egli non ha commesso? E come possiamo accettare di essere salvati col sangue di un innocente? Se Dio avesse voluto il sangue di un innocente, non sarebbe distrutta la sua immagine dataci da Gesù, e non saremmo davanti a un Dio-Padre padrone, a un Dio orientaleggiante incapace di dominare il proprio altissimo senso dell’onore e l’impulso alla vendetta, a un Dio creditore feroce e implacabile? [10] E poi, questa dottrina non suona come una specie di aggiustamento di conti fra Dio e Dio, un dramma divino di cui noi beneficiamo, però a costo della suprema crudeltà che sfocia nella suprema bontà? E se la morte di Gesù è stata decisa e organizzata da Dio, che razza di uomo libero ne viene fuori? Un Gesù così sottomesso e obbediente non poteva essere libero. E ancora, se il ruolo di Gesù in questo mondo è stato quello del sacrificio espiatorio e della soddisfazione vicaria, allora Gesù non è sceso in terra per amore, ma solo perché Dio era incavolato con noi, sì che la sua missione terrena non era destinata a cambiare in meglio questo mondo: tutta la storia dell’umanizzare questa vita, del migliorare la convivenza, dell’alleviare la sofferenza, non rientrava nei progetti di Dio. Ciò significa che neanche a Gesù importava gran che quello che succedeva quaggiù, ma il suo sguardo era rivolto sempre in alto, lassù verso il Padre. Gesù sarebbe cioè passato per questo mondo, ma quello che ha detto e ha fatto è di minima importanza. Tanto valeva essere ammazzato subito.

Ribadisce chi accetta con convinzione la tradizionale spiegazione sadica su Dio che, dopo tutto, lo stesso Gesù ha ammonito: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo». Ma cosa vuol dire esattamente che ognuno deve portare la sua croce? Finché la s’intende come sofferenza e ancora sofferenza, non è il caso quanto meno di domandarci se, con simile interpretazione dottrinale, non abbiamo invece svuotato la croce del suo vero contenuto?

È vero che ancora oggi si trovano molti cristiani che pensano che la sequela del Crocifisso consista nel cercare continue mortificazioni, rinunciare a piaceri legittimi, per arrivare attraverso la sofferenza a una comunione più profonda con Cristo. Tutti dovremmo indossare il cilicio e flagellarci. Ma sappiamo dai vangeli che Gesù non ha mai fatto nulla di questo, non era affatto un asceta, né viveva in cerca di mortificazioni [11]; anzi era additato come un crapulone, che mangiava e beveva con la feccia della società.

Per alcuni «portare la croce» significa semplicemente accettare remissivamente, come volute da Dio, le disgrazie o le avversità della vita; sono sicuri che tutte le avversità (dalla malattia personale a quella collettiva, tipo coronavirus; dai terremoti all’incidente d’auto) siano tutte mandate da Dio per punirci dei nostri peccati. Eppure i vangeli non collegano mai i nostri peccati con le nostre sofferenze: quando gli apostoli, alla vista del cieco, domandano a Gesù se ha peccato lui o i suoi genitori (Gv 9, 2), Gesù esclude ogni relazione fra malattia e peccato. E analogamente Gesù chiarisce anche che il crollo della torre in testa a un gruppo di uomini non è avvenuto perché Dio li ha voluti punire per i loro peccati (Lc 13, 5). Quindi, neanche nella sofferenza c’è il castigo di Dio, per cui Dio non effettua alcuna compensazione fra il male fatto da noi (peccato) e il male subito da noi (sofferenza). Permettete allora che, alla luce di questi dati, al dio vampiro e vendicativo preferisca il Dio misericordioso di Gesù [12].

Inoltre si può dare tranquillamente un diverso significato al ‘sollevare la croce’, ricordando innanzitutto che «portare la croce» faceva parte dell’inizio del rituale dell'esecuzione: il reo era obbligato ad attraversare la città portando il patibulum (la parte orizzontale della croce; era impossibile portare tutta la croce come si vede spesso nei dipinti) e, un cartello su cui appariva descritto il suo delitto. In questo modo si mostrava colpevole davanti alla società, veniva insultato e dileggiato dagli spettatori che partecipavano al rito, e in questa perdita di dignità veniva additato come indegno di continuare a vivere in quella società. È stata questa la vera croce di Gesù. Vedersi rifiutato a causa della sua fedeltà al Padre e al di lui progetto. La sua crocifissione è stata in realtà la conseguenza del suo comportamento di adesione al progetto del Padre sfociato nello scontro frontale con i capi della religione e della politica, che si sono dimostrati più forti di lui. Gesù non è corso incontro alla morte felice di obbedire al Padre e salvare così l’umanità. Sono state le persone più pie e religiose a crocifiggerlo [13], andando contro il volere di Dio [14] perché Dio ha mandato Gesù non per espiare i nostri peccati, ma per mostrarci come si può vivere meglio da fratelli su questa terra. Questo era il progetto di Dio: dare agli uomini una pienezza di vita. La sofferenza di Gesù dunque non è una necessità divina [15]. Ma per esprimere con la sua vita questo progetto, senza tradirlo, ormai alla fine a Gesù non restava altro che dare la sua vita, che offrire la sua morte. Qualcuno potrebbe dire che se l’è andata a cercare, perché quando ha capito che le cose si mettevano male ben poteva ritirarsi in buon ordine. Ma se voleva restare fedele al progetto fino alla fine, non c’era per lui un piano di riserva che potesse evitargli lo scontro con le persone al potere, le quali invece non potevano accettare il suo progetto se volevano conservare il loro potere. Non ci si può tirare indietro se si vuol contribuire alla realizzazione del regno di Dio [16]. Ripeto quanto detto la scorsa settimana: quando una fa una cosa che gli può costare la vita evidentemente è perché è convinto che quella cosa sia assai importante, e non gli interessa di finire ammazzato per essa.

Però con la croce cambia il rapporto tra uomo e Dio, cambia la religione, perché si passa dal Dio onnipotente che impedisce la sconfitta al Dio che ci rivela che l’unica sconfitta è non essere capaci di amare; dal Dio che garantisce la vita tranquilla, senza esporsi mai, al Dio che ci dice che non è vita un’esistenza non inquietata dall’amore [17] occupandosi degli altri, soprattutto dei più bisognosi e bistrattati. Questa strada che Gesù propone di seguire con fiducia, nella consapevolezza che non sta realizzando un progetto suo, ma che sta perseguendo il progetto del Padre, è ovviamente molto più difficile, e non ha nulla a che spartire con l’accettazione di dottrine o di dogmi, come sembra essere oggi il cristianesimo. Non per niente continuano a vivere, in mezzo a noi, soprattutto fra coloro che si credono credenti, quelle immagini vecchie e logore di un dio che ci sta accanto per aiutarci a realizzare le nostre ambizioni, che è onnipotente e vince sempre [18], che castiga i nemici e i cattivi ma premia ed esaudisce i buoni [19]. Se invece guardiamo al comportamento del Gesù terreno, non si è limitato a parlare della misericordia di Dio attraverso le parabole, ma ha continuamente curato ogni malattia e sofferenza del popolo (Mt 4, 23; Mc 1, 39; Lc 16, 18; At 10, 38): dunque il Dio che ci presenta Gesù è il Dio di coloro che soffrono [20], non il Dio dei benestanti; il Dio di Gesù è un Dio che guarisce, non il Dio guerriero della Bibbia (Es 15, 3), non il Dio sadico che gode della sofferenza del proprio figlio e degli uomini. È il Dio al quale interessa ovviare alla sofferenza degli uomini anche a costo di violare la legge divina, perché solo il bene degli uomini giudica la validità della legge (Mc 3, 4) [22]. In quest’ottica sembra logico e coerente sostenere che se Dio non è un nemico dell’umanità; ciò che ci chiede è semplicemente di essere ogni giorno più umani e collaborare al suo progetto [23]. Perciò dobbiamo concludere che Dio non può volere la sofferenza. Se questa capita, è perché la lotta contro la sofferenza degli altri, che fa parte della costruzione del regno, non la si può purtroppo portare avanti se non mediante la decisione di essere disposti anche a soffrire, e molto. L'unica sofferenza che Dio accetta è quella che deriva dalla lotta contro la sofferenza. La formula chiave che deve orientare la spiritualità è organizzare la vita in funzione della felicità degli altri; ciò implica sapersi privare di tutto ciò che può creare sofferenza o disagio agli altri, e fare tutto ciò che può creare un buon ambiente [24].

Qui sta la chiave della spiegazione della sofferenza di Gesù sulla croce. La croce non fu decisione di Dio, ma di uomini disumani. E la morte di Gesù è la dimostrazione più valida di come solo lottando per umanizzare questo mondo, contro tutte le sofferenze e le umiliazioni che patiscono gli uomini, gli si può apportare un po’ di salvezza.

Fino alla fine Gesù allevia sofferenze degli emarginati: a Gerico, prima di salire a Gerusalemme dove incontrerà la morte, ci vengono raccontate la guarigione del cieco (Lc 18, 35-43) e l’incontro con Zaccheo (Lc 19, 1-10). Questo doppio incontro con il male fisico ed il male morale è stato definito come “il vangelo degli esclusi” (T.W. Manson). Gesù mantiene la relazione con “i cattivi” fino all’ultimo, e fin all’ultimo – seguendo il progetto del Padre,- svolge il suo programma con i peccatori. Cioè fino all’ultimo il programma di Gesù non si basa sull’insegnamento dottrinale o sull’imposizione normativa, fatta poi propria dalla Chiesa.

Il programma di Gesù era un programma pastorale, non dottrinale, e con la sua esistenza concreta (la vita che ha condotto fino alla fine) ha cambiato la religione. Sperimentate questo nuovo modo di vivere, e vivrete tutti meglio. Col che, Gesù mette fine al culto. Per trovare Dio non è più necessario il culto rituale, quello che si offriva nei templi, ma il culto esistenziale, che è la propria vita (cfr. l’episodio della samaritana al pozzo: Gv 4, 4ss.). E così viene necessariamente cambiata anche la nostra concezione di Dio e di qualunque progetto religioso tradizionale.

Gesù andava per le strade, i villaggi, i paesi, andava a casa degli ammalati, se lo si vedeva nella sinagoga non era mai per pregare, non per adorare Yhwh, non per dispensare verità vincolanti, ma per parlare alla gente. E di frequente, parlava in maniera da irritare l’uditorio, scandalizzare gli osservanti, suscitare ammirazione o rabbia. In ogni caso, non lasciava indifferenti quelli che lo ascoltavano. Gesù, però, non scandalizza mai l’emarginato, l’ammalato. Gesù parla con queste persone, le tocca, comunica forza, trasmette fiducia. Questi esclusi non si sentono più soli e si aprono con fiducia al Dio dei poveri. La fede nella bontà di Dio appartiene al processo stesso di guarigione [25]. Dunque Gesù alleviava le sofferenze, non invitava a soffrire per avvicinarsi a Dio; accoglieva quelli che nessuno voleva, parlava di Dio come di un Padre che ama tutti, accoglie tutti, non rifiuta mai nessuno.

Per Gesù, l’amore, non la legge [26], è l’unica norma da seguire; e se diviene chiaro che le leggi sono state fatte per servire gli interessi del legislatore e non il benessere di tutti, se non aiutano a guadagnare in dignità e non aiutano a liberarsi dalla sofferenza, l'obbligo di osservare la legge cessa. Gesù ci fa capire che se non ci importa la sofferenza umana, non ci importa neanche Dio. Pertanto, Dio non lo troviamo studiando teologia o aderendo a dei dogmi dottrinali, sobbarcandoci infinte mortificazioni o sofferenze per avvicinarsi a lui per dimostrare quanto gli vogliamo bene, bensì vivendo come è vissuto lui, che ci ha insegnato che non è possibile amare Dio e disinteressarsi del fratello. Non è possibile adorare Dio in chiesa e vivere dimenticando coloro che soffrono [27].

Va anche detto che alla sofferenza non si rimedia dall’alto, ma dal basso, dalla medesima posizione che occupa il bisognoso, fondendosi con il suo dolore, la sua umiliazione. Nella lettera agli Ebrei si afferma che Gesù faceva proprio questo (Eb 2, 18: proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova). Quindi, Gesù, sommo sacerdote (sui generis), è venuto in terra non per celebrare funzioni sacre nel tempio, non per salvarci dall’ira di Dio, ma mostrare come si può rimediare alla sofferenza umana [28].

Invece da noi, fin da subito, è stato il peccato ad occupare il centro dell’insegnamento religioso. Perché? Perché – come ormai detto più volte - in allora un condannato a morte sulla croce era inaccettabile. Solo i ribelli politici, i sovversivi rivoluzionari finivano in croce con i romani. Il morto in croce non poteva essere accettato dalla cultura di allora come Salvatore. Ecco allora la soluzione escogitata da Paolo: la crocifissione fu un piano divino voluto da Dio (interpretazione teologica del fatto storico): sacrificio ed espiazione [29] erano termini ben conosciuti da Israele, e quindi accettabili in quella cultura. Sant’Anselmo ha aggiunto secoli dopo la teologia della soddisfazione [30]. Il problema è che, con la teologia della redenzione e del peccato, Giovanni Battista e san Paolo sono diventati nel cristianesimo assai più determinanti del Gesù terreno. La stessa morale è stata elaborata nel cristianesimo a partire dal peccato e in funzione del peccato, non a partire dalla sofferenza e per liberare dalla sofferenza [31], terreno su cui si era invece mosso Gesù.

Che cosa fare allora di fronte alla sofferenza? Prima o poi, a tutti tocca soffrire, e se non ci siamo mossi di fronte alle sofferenze degli altri, le nostre ci obbligano a prendere posizione davanti alla sofferenza. Che fare? Sicuramente il cristiano non ama né cerca la sofferenza, non la vuole né per gli altri né per se stesso. Seguendo le orme di Gesù lotta con tutte le sue forze per sradicarla dalla vita. Ma, quando è inevitabile, sa “portare la propria croce” in comunione con il Crocifisso. Non se la va a cercare, ma non demorde se gli arriva addosso, anche se la sofferenza continua a essere un male. Vissuta così, però, la croce diventa la cosa più opposta al peccato che ci sia. Perché? Perché peccare significa ricercare egoisticamente la propria felicità rompendo con Dio e con gli altri. «Portare la croce» in comunione con il Crocifisso è esattamente il contrario: solidarizzare con i fratelli, anche a costo di pagarla cara in proprio aprendosi con fiducia al Padre.

La grande rivoluzione religiosa compiuta da Gesù è quella di aver aperto un’altra via di accesso a Dio, diversa da quella del sacro: l’aiuto al fratello bisognoso [32], anche se questo ci costa fatica e sofferenza.

Come ha detto padre Ernesto Balducci, il mistero del Vangelo sta tutto in una specie di rovesciamento che ci obbliga a verificare la nostra fede non già su un Dio che non vediamo e che può, perciò, essere anche un luogo di inganno o di auto-inganno, ma sull’uomo.

Già, ma se sto soffrendo io, non ho tempo di pensare agli altri. Sbagliato! Come diceva il Manzoni si deve pensare più a fare bene che a stare bene, e anche la mia sofferenza diminuisce se, anziché concentrarmi su di me, continuo ad occuparmi degli altri.

 

Dario Culot

 

[1] Non basta offrire preghiere, non basta offrire denaro: il sacrificio religioso richiede simbolicamente che una vita continui a costo di un'altra vita che deve finire, seguendo un preciso rituale.

[2] Crepaldi G., Di Cristo, non del mondo – Messaggio per la Quaresima 2020, 12, all. a “Vita Nuova”.

[3] Ricoeur P., Il male, ed. Morcelliana, Brescia, 1993, 13.

[4] Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 393.

[5] È sempre difficile dare delle definizioni, e anche il termine sofferenza può assumere significati diversi’ per cui dovremmo prima trovarci d’accordo sul senso delle parole che usiamo. Ad es., in un Paese povero viene chiesto: “Dimmi cosa è la sofferenza?” “Facile. La sofferenza è fame, no?  Avere fame di qualcosa significa soffrire. Niente fame, niente sofferenza. Lo sanno tutti” (Roberts G.D.  Shantaram, ed. Neri Pozza, Vicenza, 2005, 376 s.). Per noi, che la fame non l’abbiamo mai patita, la sofferenza è qualcosa d’altro.

[6] Il primato della sofferenza è entrato a pieno diritto nella religione cattolica, diventando un punto fermo della dottrina: “La sofferenza deve essere dolce e saporosa per amore di Cristo…la sola strada che porta alla vita è quella della santa croce e della mortificazione quotidiana…Gesù è morto in croce per te…se davvero vuoi amare il Signore e servirlo, ti resta soltanto il patire…” (De imitatione Christi, Libro II, Cap.XII). “A imitazione di Cristo che ha saputo patire per tutta la vita, è giusto che io, misero peccatore, sappia sopportare le miserie di questo mondo…occorre passare oltre ad ogni creatura, tralasciare pienamente sé stessi, perché chi non è libero da ogni creatura non può attendere liberamente a ciò che è divino…” (De imitatione Christi, Libro III, Capp. XVIII e XXXI.).

[7] Delumeau J., Il peccato e la paura, ed. Il Mulino, Bologna, 1987, 824.

[8] Vedasi “Famiglia Cristiana”, n.33/2012, 9.

[9] Canetti E., Il libro contro la morte, Adelphi, Milano, 2017, 213. Gesù ha mostrato un percorso, ma non ha pagato i debiti di nessuno perché i debiti vanno pagati da chi li ha contratti. Non ha potuto cancellare le colpe degli uomini perché non era nella sua possibilità convertirsi in loro vece (Ortensio da Spinetoli, Bibbia e catechismo, ed. Paideia, Brescia, 1999,137 e 149).

[10] Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 492.

[11] Cfr. quanto detto in proposito nell’articolo sulla Penitenza, del mese scorso, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-548---15-marzo-2020/penitenza.

[12] Due cose si devono tener presenti leggendo i vangeli: la prima è che le cose che raccontano i vangeli sono cose che lì vengono raccontate per me, per noi, per il nostro gruppo. La seconda è che le cose che raccontano i vangeli sono sempre un Lieto Annunzio. In altre parole, in ciascuna storia e in ogni parola di Gesù ci viene offerto sempre una Buona Novella. Pertanto, se un prete si mette a spiegare i vangeli e poi la gente esce dalla messa con la faccia triste, indignata o perfino incavolata, allora è successo che quel prete non ha spiegato il Vangelo, il Lieto Annunzio, bensì ha spiegato altre cose (Castillo J.M., Teología Popular (I), ed. Desclée De Brouwer, Bilbao (E), 2012, 46).

[13] Erano le autorità che volevano ammazzare Gesù, perché faceva cose che erano proibite dalla legge religiosa ebraica (ad esempio lasciava che i suoi discepoli violassero la legge: Mc 2, 23; oppure lui stesso violava la legge, toccando un lebbroso (Mc 1, 41), curando di sabato ammalati che non erano in pericolo di vita (Mc 1, 29-31; 3, 1-5; 31-6; Lc 13, 10-17; 14, 1-6), toccando i morti (Mc 5, 41; Lc 7, 14), annullando il privilegio che gli uomini avevano nel potere di ripudiare la moglie concesso da Mosè (Mt 19, 1-9) (Castillo J.M., Teología Popular (I), ed. Desclée De Brouwer, Bilbao (E), 2012, 74).

[14] Da quanto fin qui detto appare anche errato attribuire la morte di Gesù al volere divino, come momento di un progetto salvifico. Sarebbe errato vedervi una necessità intrinseca alla storia della salvezza. Si tratta infatti di una necessità storica determinata dall’ostinato rifiuto della proposta che Gesù andava facendo. Dio è certamente coinvolto nell’avventura di Gesù, ma la sua fine tragica è decisa dagli uomini. Gesù perciò ha vissuto la sua morte come un’ingiustizia e, come tale, contraria al volere di Dio (Molari C., Quei tanti Gesù. Approcci recenti in cristologia e soteriologia, in internet più siti: digitare Carlo Molari approcci recenti).

[15] Schilebeeckx E., Per amore del Vangelo, ed. Cittadella, Assisi, 1993, 169.

[16] Molte cose si possono fare per collaborare: introdurre nel mondo la compassione di Dio, orientare l’umanità a guardare verso gli ultimi; costruire un mondo più giusto, cominciando dai più dimenticati; seminare gesti di bontà per alleviare la sofferenza; insegnare a vivere confidando in Dio Padre, che vuole una vita felice per i suoi figli (Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 537).

[17] Chiesa S., Gesù il Salvatore, riflessioni per la Quaresima 1997, nella parrocchia di Madonna di Campagna (VB).

[18] Prv 16, 3: affida al Signore i tuoi cammini e così i tuoi piani si realizzeranno. Non è vero, nessuno ci crede più.

[19] I buoni sono ovviamente coloro che agiscono rispettando ciò che è comandato dalle leggi divine e dal magistero, i cattivi sono coloro che fanno ciò che è proibito dalle leggi divine e dal magistero.

[20] Bonhoeffer (riportato in Robinson J.A.T., Dio non è così, ed. Vallecchi, Firenze, 1965, 108) ha distinto cristiani e pagani non a seconda che si seguano o non si seguano certe liturgie, certe preghiere, certi dogmi, ma a seconda che ci si schieri o meno con Dio nella sofferenza, come domandò appunto Gesù nel Getsemani: “Non potete dunque vegliare un’ora con me?” (Mt 26, 38; Mc 14, 34). Il culto, il gesto religioso, lo stesso annuncio del Vangelo – che per i non credenti già non hanno alcun particolare significato - di per sé soli non fanno comunque di un credente un cristiano; soltanto la partecipazione alla sofferenza di Dio nella vita del mondo fa di un uomo un cristiano.

[21] Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 175.

[22] Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 58.

[23] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, ed. Cittadella, Assisi,1989, 60: il regno di Dio necessita la collaborazione dell’uomo. L’impegno di dedizione verso gli altri mette l’uomo in sintonia con Dio.

[24] Castillo J.M., Vittime del peccato, ed. Fazi, Roma, 2012, 252.

[25] Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 187ss.

[26] Ricordo che fino all’ultimo concilio il peccato veniva definito come violazione della legge.

[27] Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 286.

[28] Castillo J.M., Vittime del peccato, ed. Fazi, Roma, 2012, 141-143.

[29] La teologia dell’espiazione considerava la sofferenza di Gesù o come castigo di Dio (teoria dell’espiazione vendicativa), o come la giusta pena del peccato umano (espiazione penale). Finalmente ci si è accorti che l’espiazione biblica significava qualcosa di diverso: consisteva nell’azione con cui Dio misericordioso purificava l’uomo dal peccato (Is 6, 5-7) rendendolo capace di crescere come figlio suo. Questa convinzione, comune alla stragrande maggioranza degli esegeti, è ora comune anche tra i teologi, che sempre di più abbandonano i modelli dell’espiazione penale e della soddisfazione per utilizzare la dottrina biblica dell’espiazione (Molari C., Quei tanti Gesù. Approcci recenti in cristologia e soteriologia, in internet in più siti: digitare Carlo Molari approcci recenti).

[30] Oggi abbandonata: cfr. l’articolo Teoria della soddisfazione al n. 529 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-529---2-novembre-2019/teoria-della-soddisfazione.

[31] Castillo J.M., Vittime del peccato, ed. Fazi, Roma, 2012, 146.

[32] Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 216s.