2 agosto

Casal di Zoldo, Via della Fontana 

- foto del direttore

Il 2 agosto di quaranta anni fa la strage della Stazione di Bologna.

Il 2 agosto di sedici anni fa viene alla luce un bambino, nell’ospedale pediatrico di Trieste.

Il 2 agosto il calendario liturgico dell’Ordine Francescano, di ogni denominazione, celebra la Solennità di Santa Maria degli Angeli alla Porziuncola.

Che cosa è stata l’eversione di destra che sentenze passate in giudicato hanno dichiarato essere coinvolta nella carneficina del 2 agosto 1980? Dentro quale disegno si può iscrivere una mostruosità simile? È sufficiente riferirsi storicamente all’epoca della strategia della tensione?

Perché qualcuno ha potuto ritenere che la violenza consentisse un consolidamento di un diverso assetto di potere? E quale assetto? Finalizzato a che cosa?

Troppo facilmente si sorvola sui presupposti culturali di fascismo e neofascismo, come se si trattasse di un semplice impazzimento delle logiche politiche liquidabile con una sua ascrizione a fenomeno criminale.

Il cosiddetto “spontaneismo armato”, dentro il quale vengono collocati anche i NAR, l’organizzazione terroristica che fu riconosciuta dalla magistratura come implicata nella strage di Bologna, partiva da un’opzione di tipo antagonista. L’antagonismo veniva eletto a sistema di appartenenza identitaria. Le armi – con tutto il loro simbolismo, non soltanto corrispondente al fatto che fossero strumenti di morte, bensì capaci di suscitare consenso intorno all’etica dell’aggressione, all’imperiosa necessità morale di dimostrare come una forza superiore possa debellarne una inferiore – presero il posto del pensiero, dell’arte, della poesia. Ma ciò che ancora appare più tragico è che la violenza della destra neofascista o anti-anti-fascista, come Fioravanti ebbe a precisare, ritenne di poter divenire collante di valori, di tradizioni, di principi, di un ordine da ricostituire e rifondare.

Il peso specifico della parola, del ragionamento, della sottile argomentazione critica veniva falciato dal piombo della pallottole e dall’esplosivo micidiale delle bombe. Di più: l’amore sprofondava in un’alternativa che o lo riduceva a mero rapporto tra individui, del tutto privato, depotenziato in sé di capacità interlocutorie esterne alla coppia, oppure lo sbeffeggiava come cedimento all’inanità dei sentimenti, funzionali – come ha detto qualcuno di recente - a “sfoghi” di natura biologica, elevando così il biologismo a termine di confronto in ogni caso necessario dentro la costruzione e lo sviluppo della propria vita. Si fa l’amore come si mangia e si beve.

Come si pose la comunità cattolica italiana davanti all’eversione di destra? Vi era indulgenza verso una reazione (benché terribilmente violenta) al satanico Sessantotto che, incitando alla “fantasia al potere”, poteva destabilizzare ogni senso del sacro, o vi fu una strategia di rilancio delle ragioni utopiche, poetiche, profetiche di un amore tutt’altro che biologicamente necessitato bensì dislocato nelle zone del parlare non volgare, non corrivo, non figlio della forza ma madre e padre della tenerezza leggera e premurosa?

Michel Foucault ci ha insegnato che la microfisica degli stessi nostri comportamenti somatici sta dentro una vera e propria biopolitica, cioè dentro un’attitudine che disciplina, organizza, giuridicizza la nostra vita lungo alcuni percorsi precisi e non lungo altri. L’antagonismo eretto a sistema, quando è passione per l’affermazione di principi ritenuti etici costi quel che costi, da che parte si situa? È l’alternativa alla biopolitica vincente o ne è la sua conferma?

Chi scrive queste righe crede che l’alternativa ai NAR sia fiorita altrove e precisamente dentro la comunità cristiana ma senza particolari riconoscimenti istituzionali, sancendo, in tale direzione – di un mancato riconoscimento istituzionale per appunto -, una carenza che si sconta, si patisce, ancor oggi.

I principi di patria, di famiglia, di ordine sociale, di conservazione delle tradizioni per fobia di smarrire la stessa coscienza di ciò che siamo avevano bisogno di un ripensamento rovesciante, di un ribaltamento interpretativo, che proprio la cultura critica del Sessantotto e proprio il postconcilio in Italia cercarono di attuare. La riflessione teologica della seconda metà degli anni Sessanta e degli anni Settanta del Novecento portò a riconsiderare completamente le “gerarchie di verità” ritenute secolari ed immutabili.

Sarebbe meglio probabilmente non esemplificare ma basta il nome di Franco Basaglia per dire di un approccio rivoluzionario – esso sì davvero rivoluzionario – al mondo, sino ad allora pressoché del tutto sconosciuto a livello di cultura diffusa, della malattia mentale.

Il manicomio conteneva in sé una traduzione repressiva del diverso, dell’altro, che senza dubbio l’ordine costituito aveva assoluta necessità di mantenere e rinforzare.

Ma l’attenzione alle parole è sintomo, a tratti difficile da avvertire, di una cura per la storia e la vita concreta delle persone che richiede di essere verificata ogni istante, alla luce, di nuovo, dell’amore. Qui un esempio può forse essere utile: mutuare dalla fenomenologia epidemica, in cui siamo purtroppo ancora immersi, un uso che si vorrebbe alternativo del termine “contagio” – il contagio della bontà, il contagio pure dell’amore – porta ad una messa tra parentesi del significato non letterale ma esistenziale che tale termine ha assunto per la sofferenza di migliaia di persone. Così come sarebbe improprio parlare di “strage dei peccati”, risulta altrettanto fuorviante ricorrere ad espressioni come “contagio della bontà”. Gli Scolastici, che erano interpreti assai raffinati delle più diverse condizioni esistenziali, parlavano di “bonum diffusivum sui”. La diffusione del bene non è diffusione di un contagio e non si possono usare indifferentemente espressioni che segnano le vite di tante e tanti.

Ma è solo un esempio.

Francesco d’Assisi, morto sulla nuda terra della Porziuncola, chiamava “sorella” anche la morte, però non invertiva i vocaboli, e la sororità, il rapporto tenero ed innamorato con le sorelle, non diveniva sovrapponibile alla morte.

Esiste una retorica cattolica di stampo familista che, con un sostanziale paradosso, non riflette mai sull’evento della nascita nella sua carnalità, sul dolore della mamma che partorisce, su quel piccolo corpo che si fa spazio, sull’emozione prossima allo stordimento del padre presente in sala parto che non sa che fare. Simile retorica familista comporta, infatti, per presumibile strenua fedeltà agli obblighi celibatari dello stato clericale, che nessun ministro ordinato sia presente al momento in cui si odono, contemporaneamente, un urlo di dolore e un primo pianto di inizio vita. Ma questa assenza dice molto di una lontananza dalla concretezza effettiva, reale, carnale, proprio della vita.

Il pensiero va all’alternativa che monache e monaci, dopo il Vaticano II, alla scuola del Vaticano II, in diversi casi preparando il Vaticano II (se si pensa - sempre per fare esempi probabilmente non richiesti - a Camaldoli), hanno, con fatica molto simile a quella di un parto, disegnato e sostenuto. Delle vicende di Bose, altro esempio, il nostro giornale si è occupato (e continuerò a farlo nel rispetto delle storie, delle sensibilità e delle complessità) proprio assumendo tale prospettiva.

Il 2 agosto fa da spartiacque.

Da una parte la violenza, l’odio, la contrapposizione, la forza, ma mettiamoci pure il parlare volgare, la tracotanza, il sentirsi superiori, anche il poter legare nelle dipendenze affettive chi ama e che proprio perché ama ha diritto d’essere preservato e non esposto all’accettazione di ruoli secondari, residuali.

Dall’altra il silenzio, il corpo, il suo abbandono, la meraviglia, l’interrogazione, il dubbio, la poesia, la scrittura, l’ascolto di grilli e cicale la sera in montagna, l’arrampicata sulle vette che diventa carezza alla materialità di ciò che siamo, la cura, il rispetto di sé e degli altri, la riconciliazione, l’entusiasmo, il canto, l’arte.

2 agosto.

Forse alba di un nuovo monachesimo da assurgere semplicemente come simbolo dell’alternativa, dentro e fuori le sale parto, dentro e fuori i baci sulla labbra che il Cantico dei Cantici esalta ma che la solitudine spesso impedisce.

Il 2 agosto è domenica, quest’anno.

Dies Domini. Ma di quale Signore?

La memoria non è ricordo, è coscienza.

Buona settimana.

 

Stefano Sodaro