La traduzione delle Scritture

Bibbia svedese con occhiali, foto di Jonund, tratta da commons.wikimedia.org

La Chiesa cattolica ha a lungo proibito di leggere copie della Bibbia prive del suo imprimatur, perché altrimenti si correva il rischio di farsi idee sbagliate di fronte a traduzioni errate. Tutti i fedeli dovevano fare affidamento sul fatto che solo Essa sapeva tradurre fedelmente, mentre alla prova dei fatti è dimostrato che anche la Chiesa cattolica non scherza in fatto di traduzioni errate.

Alcuni errori sono di poco conto, ma altri possono avere implicazioni notevoli, ancor di più quando sorge il sospetto che la traduzione sia stata volutamente sbagliata, al solo scopo di rafforzare una propria tesi dottrinale.

Vediamo allora solo qualcuno di questi casi:

(1) Alla fine del capitolo 2 di Matteo, si legge che Gesù “sarebbe stato chiamato nazareno”. Ma la parola usata è in realtà nazoreo. Qualcuno dirà che nazareno è termine che tutti intendono (Gesù era di Nazaret), mentre nazoreo non dice nulla. 

È vero, però il termine ebraico virgulto si dice nezer ed ecco allora l’origine probabile del termine nazoreo. Secondo una traduzione più puntuale, perciò, l’evangelista voleva affermare che in Gesù si compiva la profezia di Isaia diventando il virgulto sul quale si poserà lo Spirito del Signore. Dal tronco di Iesse germoglierà un virgulto (Is 11, 1) dice la Scrittura, cioè nascerà un uomo dal ceppo davidico, perché Iesse è il padre di Davide (Mt 1, 6). E allora il collegamento fra Gesù e nazoreo è una conferma che egli è venuto al mondo come discendente di Davide (Mt 1, 1-17; At 2, 30).

(2) Abbiamo già visto nell’articolo Penitenza di marzo (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-548---15-marzo-2020/penitenza), come siano spariti i termini digiuno e penitenza (Mc 1, 15; 9, 29 e in Mt 17, 20). L’invito di Gesù era a credere nel suo messaggio e a convertirsi, cioè cambiare il proprio comportamento verso gli altri (metanoia in greco), mentre il termine ‘conversione’, è stato a lungo erroneamente tradotto con fare penitenza: “se non fate penitenza, non entrate nel regno di Dio”.

Nel rinviare all’articolo che si trova nel n. 548 di questo giornale, voglio aggiungere qualche ulteriore considerazione.

È vero che in molte vecchie traduzioni Giovanni Battista sembra predicare un battesimo di penitenza per il perdono dei peccati [1] (Mc 1, 4) e poi anche Gesù dopo la resurrezione invitava a predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati [2] (Lc 24, 47). Ma queste traduzioni derivano dalla Vulgata latina, mentre il testo greco porta in entrambi i passi le parole μετάνοια (conversione) al posto di penitenza, ed εὶς (per) al posto di <e>, sì che non c’è nessuna penitenza da fare, e il perdono non è separato dalla conversione. Gesù sta dicendo in realtà che nel nome del Cristo Risuscitato sarà predicato un cambiamento. Abbiamo già visto che la parola greca metanoia (cambiamento) significa orientare diversamente la propria vita: se fino ad ora hai vissuto per te, ora vivi per gli altri. Questo cambiamento è di per sé solo sufficiente per (εὶς) il perdono, per la cancellazione dei peccati. Quando uno cambia vita, quando non pensa più solo a sé stesso, ma orienta la propria vita per gli altri, il passato ingiusto, il passato peccatore gli viene automaticamente e completamente cancellato. Invece è chiaro che, se peniténtiam et remissionem peccatorum restano separate dalla congiunzione <e> si dà adito alla tesi che occorre andare a confessarsi in chiesa e fare la penitenza assegnata dalla chiesa prima di ottenere il perdono [3].

Benché poi i vangeli collochino questo cambio di condotta in un contesto teologico (per il perdono dei peccati), questa scelta di vita non ha necessariamente bisogno di una motivazione teologica [4], potendo avere diverse motivazioni, in primo luogo quella della solidarietà umana che ben può appartenere anche al mondo laico e perfino a quello ateo. Ecco l’universalità del Vangelo.

(3) In Giovanni, all’invito a chiarire chi è, Gesù risponde col famoso “io sono”, e il magistero ci ha insegnato che “io sono” indica la natura divina di Gesù.

Sarà anche vero che l’“Io sono”, se collegato all’episodio del roveto (Es 3, 14) può indicare la condizione divina. Ma perché ‘Io sono’ non potrebbe significare semplicemente “Io sono autenticamente me stesso” e non ‘Io sono preesistente dall’eternità’? In questo senso il rabbino Sussja aveva esclamato, in punto di morte: «Nel mondo futuro non mi si chiederà “Perché non sei stato Mosè?”; mi si chiederà invece: “Perché non sei stato Sussja?”» [5], cioè autenticamente sé stesso. 

Ma soprattutto, non va dimenticato che anche il cieco nato, dopo aver riacquistato la vista, usa la stessa formula: “Io sono” (Gv 9, 9). Si può dire che anche lui è Dio? No di certo, tant’è che nessuno si sogna di dire che il cieco viene equiparato a Dio per la sua condizione divina [6]. Non sono queste frasi, dunque, a spiegarci con chiarezza, al di là di ogni dubbio, che Gesù è Dio. Per tagliare la testa al toro sarebbe bastato dire “Io sono Dio,” anziché “Io sono”. Ma questo, Gesù non l’ha mai detto.

C’è poi una cosa ancora più sospetta da segnalare: in tutti questi passi giovannei, il greco riporta sempre la stessa formula: ego eimì (letteralmente: ‘io sono’). Ora, mentre in Gv 8, 24.58 e 14,6 – quando parla Gesù - la traduzione in italiano è “io sono”, quando parla il cieco (Gv 9, 9) la traduzione diventa: “Sono io”. Come mai? Non è questo un modo per portare acqua al proprio mulino con una semplice inversione di parole, nel senso che si conferma letteralmente che mentre Gesù è Dio il cieco non lo è?

E il sospetto di malafede nella traduzione cresce ulteriormente quando si legge che in Gv 1, 30 e 8, 40 - per lungo tempo e in molte edizioni approvate dalla Chiesa -  è stata completamente cancellata la parola “uomo” con cui non solo Giovanni Battista, ma lo stesso Gesù aveva identificato sé stesso.

Vediamo. In greco (e l’originale del vangelo che abbiamo è in greco) si legge infatti letteralmente:

1. Giovanni Battista dice: “Questi è (colui) di cui io dissi: ‘Dietro di me viene un uomo (anér) che davanti a me è stato…” (Gv 1, 30);

2. In Gv 8, 40 è lo stesso Gesù che parla e dice ai capi: “Ora ma cercate me di uccidere, un uomo (ándropon) che la verità a voi ha detto”.

Anche nella Vulgata latina c’è la parola uomo (hominem). Invece, se leggiamo varie traduzioni italiane approvate dalla Chiesa, troviamo:

a) Nuovo Testamento interlineare, ed. san Paolo, Cinsello Balsamo, 2014:

1. Gv 1, 30 recita: “Questi è colui di cui ho detto: Colui che viene dopo di me ebbe la precedenza davanti a me”

2. Gv 8, 40 recita: “Ora invece cercate di uccidere me, uno che vi ho detto la verità”

b) Vangeli e Atti, ed. Elledici Leumann (TO) del 2011:

1. Gv 1, 30 recita: “Parlavo di lui quando dicevo: dopo di me viene uno che è più grande di me”;

2. Gv 8, 40 recita: “Invece ora cercate di uccidermi, perché vi ho detto la verità”.

c) La Bibbia interconfessionale, ed. Elledici Leumann (TO) del 2007:

1. Gv 1, 30 recita: “Parlavo di lui quando dicevo: dopo di me viene uno che è più grande di me”;

2. Gv 8, 40 recita: “Invece ora cercate di uccidermi, perché vi ho detto la verità”.

d) La Bibbia, testo integrale CEI, ed. Piemme, Casale Monferrato, 2005:

1. Gv 1, 30 recita: “Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti”;

2. Gv 8, 40 – è Gesù che parla, -  recita: “Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità”.

e) Vangelo e Atti, ed. Messaggero, Padova, 1973:

1. Gv 1, 30 recita: “Questi è colui del quale io ho detto: Dopo di me viene uno che sta avanti a me”;

2. Gv 8, 40 recita: “Ora invece cercate di uccidere me, chi vi ho detto la verità”.

f)  Il Vangelo, ed Cor Unum, Roma, 1962:

             1. Gv 1, 30 recita: “Questi è colui di cui ho detto: Dopo di me verrà uno…”.

             2.Gv 8, 40 recita: “Ora invece cercate di uccidermi, io, che vi ho detto la verità…”.

Finalmente l’ultima versione della CEI del 2008 ha riammesso a pieno titolo la parola “uomo”:

1. per cui in Gv 1, 30 ora si legge: “Egli è colui del quale ho detto: Dopo di me viene un uomo…”, come nell’originale greco e nella Vulgata latina;

2. e in Gv 8, 40 si legge: “Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità…” come nell’originale greco e nella Vulgata latina. Cioè Gesù, che sta parlando, si dichiara uomo.

Meglio tardi che mai, dirà qualcuno. Ma la vera domanda da porsi è: perché questi errori da parte di un’istituzione che professa di non fare errori? [7] Siccome, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato, ma normalmente s’azzecca, sorge il maligno dubbio che l’uso del “Io sono” riservato a Gesù, ma cambiato nel caso del cieco, serva a rafforzare la tesi della divinità di Gesù; allo stesso modo, l’omissione completa della parola ‘uomo’ quando Gesù parla di sé [8] toglie dall’imbarazzo chi si richiama ai dogmi che identificano Gesù innanzitutto come Dio. Che altro motivo c’era per addomesticare il testo del Vangelo?

In quest’ultimo caso, però, l’errore di traduzione appare ancora più grave perché si è saltata piè pari proprio la parola “uomo” che invece era presente nel testo originale [9], quindi non siamo a un livello di mera interpretazione come nel caso di “Io Sono” oppure “Sono io”.

(4) In ogni messa abbiamo sempre sentito ripetere: “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo” e questo uso del plurale ci ha ovviamente sempre fatto pensare che si parla dei peccati di tutti noi uomini; il che – a sua volta – si collega all’insegnamento del magistero secondo cui Gesù è morto per i peccati che ognuno di noi, singolarmente preso, ha commesso, perché Gesù, morendo per i nostri peccati, è l’Agnello che ha espiato le colpe di noi tutti: noi tutti, perciò, e non solo “i perfidi ebrei” [10], siamo colpevoli della sua morte.

Se però leggiamo il Vangelo di Giovanni, dal quale la frase è stata tratta (Gv 1, 30), si legge: «Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Singolare, non plurale.

Quello che suona piuttosto strano è che, mentre la Chiesa ci dice che questo passo pur di senso immediato e intuitivo deve essere interpretato come insegna il magistero, dandogli una portata diversa da quella che il suo tenore letterale suggerisce assai chiaramente, in altri casi pone il divieto assoluto di interpretare le parole del vangelo, sostenendo in questi altri casi che il significato letterale delle parole secondo la connessione di esse è sufficientemente chiaro: si pensi alla pericope che viene applicata al divorzio (Mc 10, 9: «l’uomo non separi ciò che Dio ha unito»); parimenti deve essere presa alla lettera senza poterla interpretare anche la pericope che parla del primato di Pietro (Mt 16, 18) [11].

Guarda caso, l’interpretazione ufficiale, che sia estensiva o riduttiva, va sempre a vantaggio della dottrina insegnata dalla Chiesa, nel senso che la Chiesa tenta di adattare il testo alla propria costruzione teologica. Onestà intellettuale richiederebbe che, se la propria teoria teologia viene smentita o messa in dubbio anche da una sola pericope, tutta la questione debba essere riesaminata dall’inizio.

Si è già detto altre volte che è stato Paolo a cominciare con l’annuncio che Cristo era morto per i nostri peccati (1Cor 15, 1-5), e quest’idea è piaciuta da impazzire, anche se Gesù in vita sua – almeno stando ai vangeli,- non ha mai affermato che doveva sacrificarsi e morire a causa dei nostri peccati. Ma la domanda che ci dobbiamo porre è: perché nel vangelo si parla di peccato del mondo, e non di peccati? Siccome nei vangeli nessuna parola è messa a casaccio, se è stato usato il singolare vuol dire che non si sta parlando dei peccati che noi tutti abbiamo commesso e/o commetteremo, ed artificiosa appare la spiegazione offerta dal n.408 del Catechismo secondo la quale il singolare va interpretato come fosse plurale, perché solo così si può affermare che le conseguenze del peccato originale e di tutti i peccati personali degli uomini conferiscono al mondo nel suo insieme una condizione peccaminosa che può essere definita con un termine singolare: il peccato del mondo. Ma se il peccato del mondo è dato dalla somma del peccato originale + i peccati di noi tutti, sarebbe stato assai più ovvio scrivere che l’Agnello di Dio toglie i peccati del mondo, come del resto si recita nella liturgia. Dunque, l’interpretazione ufficiale è un’arrampicata sugli specchi, e soprattutto oltraggia l’evangelista, come se questi fosse di un livello culturale così basso da non sapere la differenza fra singolare e plurale.

Cosa è allora questo peccato del mondo? Una convincente spiegazione, che qui mi permetto di sintetizzare, l’ho trovata fra i teologi spagnoli. Il peccato del mondo, di cui parla Giovanni, è antecedente alla venuta di Gesù e riguarda l’umanità intera: Gesù ha la missione di eliminarlo, non di espiarlo. Per Giovanni questo peccato è una scelta dell’uomo che frustra il progetto di Dio nei confronti dell’uomo, progetto che consiste nel dargli una pienezza di vita. Il progetto di Dio sull’umanità è che l’uomo raggiunga la condizione divina. Gesù lo ha realizzato e questa sua realizzazione non la tiene come un tesoro esclusivo per sé, ma la comunica a tutti quanti lo accolgono e gli danno piena adesione. E allora, il peccato del mondo (Gv 1, 29) consiste nel reprimere o impedire la pienezza della vita umana alla quale siamo destinati; è il rifiuto volontario della luce e l’accettazione volontaria delle tenebre (Gv 3,19-20). Si sa che gli oppressori reprimono la vita; ma ancor più grave è quando l’oppresso la reprime da sé, facendo propria l’ideologia di ambizione e di potere degli oppressori, e rinunciando da sé alla propria libertà. Togliere il peccato del mondo, allora, fa sì che gli uomini finalmente rifiutino le categorie dei sistemi ingiusti e la sottomissione a questi, spogliandosi della bramosia del dominio [12]. Gesù mostra all’uomo la possibilità di uscire da questo stato di oppressione, smettendo di accettare l’ideologia che giustifica il dominio e lo sfruttamento degli altri, modificando innanzitutto l’immagine di Dio, e cambiando al tempo stesso la relazione dell’uomo con sé stesso e col resto del mondo, che – tramite lo Spirito che gli è stato comunicato – vede ora come oggetto dell’amore del Padre. Per questo, però, non basta un’adesione intellettuale al messaggio di Gesù, ma occorre attivarsi per il bene degli uomini, rompendo col sistema di ingiustizia pregresso e praticando l’amore in conformità col messaggio (Gv 8, 23-31)[13]. Come ben si può intendere, l’impostazione di vita proposta da Gesù è rivoluzionaria, perché rovescia il “Credo” prevalente: l’uomo normalmente non vuole essere al servizio di niente e di nessuno, anzi vorrebbe che tutto e tutti siano al suo servizio. Ovvio allora che per i potenti la rivelazione di Gesù fu, e continua ad essere, un intollerabile atto eversivo. È evidente che per la classe al potere Gesù non è venuto a portare la pace, ma il disordine, la divisione, la spada, la ribellione. E siccome anche la religione cerca di cementare l’ordine sociale, mentre la spiritualità cerca di sfuggirgli e sfida le credenze religiose [14], ovvio che anche la classe sacerdotale fosse contro Gesù.

Nei vangeli sinottici, invece che del mondo, si parla degli uomini, ma anche in questo caso il messaggio resta lo stesso: sono qualificati come peccatori quegli uomini ai quali il Figlio dell’Uomo, che ha offerto la pienezza di vita, è stato consegnato. Gli uomini che si oppongono al Figlio dell’Uomo mancano del suo amore universale in favore degli altri, e con la sua cattura mostrano di non auspicare affatto lo sviluppo umano che porta fino alla condizione divina, per cui cercano di impedire che Gesù lo porti avanti [15].

Una spiegazione analoga la offre il biblista Maggi [16], il quale osserva come il peccato del mondo, che preesiste alla venuta di Gesù, è quel velo che impedisce agli uomini di scorgere l’amore del Padre. Qual era l’impedimento? La legge contrabbandata per divina e la tradizione religiosa che faceva sentire tutti sempre in colpa, sempre in peccato. Se ci si sente sempre in colpa, sempre peccatori, è impossibile sperimentare l’amore di Dio, col che si rifiuta quella pienezza di vita che Dio vuole comunicare a tutti gli uomini. Gesù nel vangelo toglie questa cappa pesante della legge opprimente, frutto dell’insegnamento dell’istituzione religiosa, che ha bloccato il rapporto con Dio.

La legge imposta dall’alto, anche quando le si obbedisce, non tocca minimamente il cuore dell’uomo, né lo trasforma, per cui risulta scontato che, prima o poi, l’uomo continui a peccare [17]. Allora è chiaro: o la legge e la religione oppure il vangelo e Dio, non c’è possibilità di compromesso. Se solo Cristo ci salva, e non la legge, la mera obbedienza alla legge e al magistero non ci rende seguaci di Cristo. Idee eretiche? Non proprio, perché le aveva già chiaramente espresse san Paolo (Gal 3, 23-26): “prima che venisse la fede noi eravamo prigionieri della legge, in attesa che questa fede fosse rivelata”.

Lo sforzo di Gesù è teso a liberarci da un rapporto con Dio che impediva alla gente di scorgere l’amore di Dio: ecco cosa significa che Gesù ci salva dal peccato del mondo come dice Giovanni (Gv 1, 29). Salvare significa immettere vita, far uscire dalla condizione di morte. Gesù è salvatore non perché ci libera dai nostri peccati, ma perché ha cercato di spiegarci come il rapporto con Dio non è più basato sull’osservanza della Legge divina, bensì sull’accoglienza del suo amore, tant’è che – come si è detto altre volte - nel più antico Vangelo (quello di Marco) il termine “legge” proprio non viene usato. Questa è la novità portata da Gesù e questa è quella che gli evangelisti hanno chiamato “la buona notizia”. Peccato che, dopo duemila anni, il messaggio non sia stato ancora recepito.

In conclusione, Gesù non espia un bel niente: tant’è vero che Gesù viene indicato come il togliente (ὸ αἲρων) (Gv 1, 29), esattamente lo stesso termine usato quando, davanti a Pilato, la folla urla di toglierlo di mezzo (αἲρε) (Lc 23, 18). Dunque Gesù toglie, elimina il peccato del mondo che era precedente alla sua venuta; non espia, in sostituzione degli uomini, i peccati da loro commessi. Come si può pensare che la morte di un innocente liberi tutti noi dai peccati che noi abbiamo commesso?

E invece come fa Gesù a togliere questo peccato che portava gli uomini, che si consideravano colpevoli e indegni, a rifiutare quella pienezza di vita capace di trasformarci tutti in figli di Dio? Razionalmente sembra impossibile che l’uomo possa rifiutare l’offerta di migliorare la sua condizione, di raggiungere la condizione divina; ma la religione è riuscita a creare un sistema per cui l’uomo si sente sempre colpevole, sempre indegno, sempre peccatore, e quindi sempre lontanissimo da Dio; e proprio in questo abisso di spazio che separa l’uomo da Dio, creato artificiosamente dalla religione, si è inserita l’istituzione religiosa, con i suoi sacerdoti, con i suoi riti, con il suo culto, e soprattutto con la sua Legge da osservare. La religione ci indica i doveri che dobbiamo adempiere per essere a posto con Dio e con i comandamenti della Chiesa. Questi comandamenti ci dicono cosa dobbiamo fare, e se non lo facciamo, allora Dio ci può castigare. È stato facile per la Chiesa convincere la gente che queste erano le inevitabili conclusioni.

Invece Gesù dimostra che la sola accoglienza di Dio è sufficiente a purificare l’uomo, per cui toglie il peccato del mondo battezzando in Spirito santo (Mc 1,8; Mt 3,11), cioè comunicando, a chi accetta, il suo spirito vitale, effondendo la sua stessa forza vitale e il suo stesso amore a tutti gli uomini che si mettono sulla strada della sua sequela. Gesù ci libera dal peccato del mondo, cioè da tutto ciò che intralcia la felice realizzazione degli uomini sulla terra [18].

Ma, obietterà il ferreo tradizionalista, lo stesso Giovanni si è in seguito corretto affermando che Gesù «si è manifestato per togliere i peccati» (1Gv 3, 5), per cui se la liturgia ha introdotto il plurale, non ha fatto che riprendere questo rimando di Giovanni e non quello del vangelo. Sempre nella stessa lettera si legge che il «sangue di Gesù Cristo, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato» (1Gv 1, 7).

Non è proprio così, perché la liturgia si richiama espressamente all’agnello, e nel vangelo l’abbinamento è solo fra l’agnello ed il peccato al singolare. Invece nella sua lettera Giovanni non parla affatto del peccato del mondo, ma del peccato in genere che chiunque può commettere, e va ricordato che - nelle traduzioni del passato – peccato significava “violazione di legge” (1Gv 3, 4). Sennonché si è ormai spiegato [19] che anche questa traduzione era errata, tant’è che oggi si traduce che ogni peccato equivale a iniquità. Quindi ben si può dire che Gesù è venuto a togliere ogni iniquità, e si sottolinea di nuovo la parola “togliere”, non espiare.

Insomma, vedete bene, anche in questo caso, come basta una traduzione leggermente diversa (peccato-peccati; violazione di legge-iniquità) per arrivare a interpretazioni che portano su binari distinti che vanno in direzioni ben separate.

 

Dario Culot

 

[1] Ad es. Nuovo testamento Interlineare, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2014.

[2] Ad es. La Bibbia – Nuovo Testamento, a cura dei Gesuiti di “La Civiltà Cattolica”, Roma-Milano, 1988, vol. 3.

[3] Vedi quanto detto nell’articolo sulla Confessione, al n. 547 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-547---8-marzo-2020/confessione.

[4] Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 256.

[5] Riportato in Buber M., Il cammino dell’uomo, ed. Qiqajon, Magnago (BI), 1990, 27 s.

[6] A dire il vero si potrebbe ritenere che, avendo il cieco accolto l’invito di Gesù, in lui si è manifestata l’opera di Dio, per cui anche lui è stato plasmato come uomo nuovo, e quindi anche lui ha raggiunto la condizione divina (Maggi A., Commento a Gv 9, 1ss.). Ovviamente questo non lo trasforma in Dio, ma in figlio di Dio, come possiamo diventare tutti noi.

[7] Cfr. n. 23 del Dictatus Papae di Papa Gregorio VII, del 1075: “la Chiesa Romana non ha mai errato; né, secondo la testimonianza delle Scritture, mai errerà per l'eternità”. I 27 punti, che oggi penseremmo per lo più farneticanti, sono leggibili, anche in latino, suhttps://it.cathopedia.org/wiki/Dictatus_papae; oppure su questo altro sito: www.storialibera.it/epoca-medioevale/X_XI_secolo/gregorio, nonché su vari altri siti internet.

Gesù si conosce attraverso la Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura, e solo il magistero della Chiesa cattolica è legittimato ad interpretarle (nn.97-100 Catechismo).

[8] Perché è chiaro che, nel Vangeli, Gesù non ha mai detto di essere Dio, ma ha espressamente detto di essere uomo.

[9] Tanto che nel testo spagnolo Santa Biblia, versione Reina-Valera del 1969 la parola è correttamente presente. La parola “uomo” si trova correttamente anche nella versione inglese The Holy Bible, Ignatius Press, san Francisco (USA) del 2006.

[10] Si pensi al fatto che per i cristiani i Giudei sono stati considerati “perfidi” fino a che papa Giovanni XXIII, appena nel 1959, decise di cancellare dalle preghiere pasquali l’odioso termine (Fumagalli PF., Roma e Gerusalemme, La Chiesa cattolica e il Popolo di Israele, ed. Mondadori, Milano, 2007, 248 ss.), collegato alla favola nefasta del deicidio ad opera degli ebrei, alimentata per secoli e secoli dalla Chiesa, formalmente confermata da papa Paolo IV, istitutore del ghetto ebraico a Roma nel 1555, nella bolla Cum nimis absurdum (in http://dl.icar.beniculturali.it/biblio/pdf/bolTau/tomo_06/05a_T06_489_528.pdf), ove si illustra la teoria della responsabilità di tutto il popolo ebraico, passato, presente e futuro, nella morte di Gesù. Nello stesso senso, ancora non molto prima del concilio Vaticano II, Parente P., L’Io di Cristo, ed. Morcelliana, Brescia, 1951, 25.

Per confutare la possibilità di attribuire all’intero popolo ebraico la colpa della morte di Gesù mi sembrano più che sufficienti queste poche righe che mi hanno convinto già molti anni addietro: ammessa l’esattezza storica del racconto evangelico (Mt 27, 22-25), secondo cui la folla innanzi a Pilato gridava crucifige e ancor più sfrontatamente che il suo sangue ricadesse pure su di lei e sulla sua discendenza, il delitto di cui è poi stato accusato tutto il popolo ebraico si riduce a questo: che un gruppo di essi gridò che si mettesse a morte Gesù. Quanti furono? Cento? Mille? Ammettiamo diecimila. Erano ebrei, ma avrebbero potuto essere benissimo mischiati con romani o siriaci, perché la folla non ama mai i perdenti, e Gesù era ormai uno che davanti alla folla aveva fallito. In ogni caso gli ebrei erano già allora alcuni milioni, e vivevano sparpagliati in tutto il mondo romano, per cui come si può parlare di deicidio quando l’infinita maggioranza di essi non solo non prese parte a quella pubblica manifestazione, ma non ne seppe niente? (Guerriero A., Quaesivi et non inveni, ed. Mondadori, Milano, 1973, 11 ss.). Sta di fatto che per secoli, in base al Vangelo di Matteo, l’intero popolo ebraico venne indicato dalla Chiesa cattolica come il mandante dell’uccisione di Gesù. Fu solo il Concilio Vaticano II, con la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane - Nostra aetate n.4 – del 28.10.1965, a dire che quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato indistintamente a tutti gli ebrei, e in seguito papa Benedetto XVI (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II parte, ed. Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 2011, 209) ha riconosciuto che Matteo non esprime un fatto storico perché in quel momento e in quel luogo non poteva essere presente tutto il popolo. Questo però significa che la verità di Papa Paolo IV non era affatto garantita da Dio, anche se lui era sicuro del contrario. E se si sbaglia una volta….

[11] Vedasi ancora abbastanza recentemente: Benedetto XVI, La gioia della fede, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2012, 99.

[12] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 1989, 114 s., e 158.

[13] Mateos J, L’utopia di Gesù, ed. Cittadella, Assisi, 1991, 126.

[14] Harari Y.N., Homo Deus, Bompiani, Milano, 2017, 286.

[15] Mateos J. e Camacho F., Il Figlio dell’Uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 324s.

[16] Maggi A., La follia di Dio, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 30s.

[17] Mateos J. e Camacho F., Il Figlio dell’Uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 299.

[18] Da Spinetoli O., Il Vangelo di Natale, ed. Borla, Roma, 1996, 113.

[19] Cfr. l’articolo al n. 471 di questo giornale: Il peccato non è violazione della legge divina,  https://sites.google.com/site/agostosettembre2018rodafa/numero-471---23-settembre-2018/il-peccato-non-e-violazione-della-legge-divina.