Se tornassimo a scuola congedandoci finalmente dal comune buon senso

Inquietudine, disegno di Rodafà Sosteno

Alla vigilia del ritorno a scuola in tempo di pandemia, avviene che, fuori dal contesto scolastico, nell’arena pubblica extrascolastica, vengano intervistati, ascoltati, invitati a scrivere, discettare, fornire indicazioni e consigli, esprimere valutazioni e formulare prescrizioni, sorridere, incoraggiare, fare i perplessi, o gli apologeti di un coraggio da sfoderare, tutti quanti, tranne gli studenti e le studentesse.

Dentro la scuola, invece, tutti sanno perfettamente che l’alleanza con studentesse e studenti costituisce l’architrave non solo di una costruzione efficiente in funzione anticontagio ma ai fini del semplice funzionamento efficace delle nostre istituzioni di formazione ed educazione culturale.

Schematizziamo, a volte può essere utile: da una parte troviamo la cultura, dall’altra il celebratissimo “buon senso”.

È possibile declinare anche in termini più marcatamente “filosofici”, diciamo così: da una parte i realisti, dall’altra gli utopisti.

Piegare ogni sforzo di uscita collettiva da una paralisi emergenziale al principio di realtà, ritenendo che nessun ragionamento critico – che cioè rinunci al primato di una presunta verità “delle cose in sé” – abbia significato, vuol dire avviarsi verso la soppressione definitiva della cultura.

Veniamo da lunghissime stagioni – iniziate alla fine degli anni Settanta dello scorso secolo – in cui la stessa nozione di complessità è stata gradualmente abolita.

La politica rampante di un potere che doveva giustificare se stesso e accreditare non una qualche ideologia ma l’occupazione strategica, e quanto più elegante e alla moda possibile, dei luoghi e momenti decisionali del Paese suscitava amplissimo consenso. Fu Craxi, ad esempio, a firmare il nuovo Concordato nel 1984, assicurando un rinnovato asse di intesa tra Stato e Santa Sede e, nel contempo – sempre a titolo di esempio -, il movimentismo interno al mondo cattolico applaudiva alle gerarchie mentre guardava con imbarazzo ai Tonino Bello, Ernesto Balducci e David Maria Turoldo che sembravano isole di un lago d’acque calmissime.

Da allora in poi, dalla fine degli anni Settanta del Secolo Ventesimo, la fessura tra cultura e senso comune divenne baratro, consentendo il trionfo di riduzionismi culturali per i quali l’io individuale si sarebbe ingigantito sino a divenire addirittura, per appunto, movimento dapprima di opinione e poi di aggregazione ed identità politica. Il buon senso comune coincideva con un io ipertrofico che si faceva beffe di tutto il filone più pensoso dell’azione e del pensiero sociali – giudicato rovinosamente “di sinistra” -.

La definizione di “populismo” dice male e dice assai poco. La questione è molto più profonda e molto meno tranquillizzante, perché interpella le scelte quotidiane di ognuna ed ognuno di noi.

Quanto ci importa degli altri? E quanto di noi stessi?

La cultura ci insegna che noi potremo star bene solo quando anche gli altri potranno star bene.

Il buon senso comune ci ammonisce che merita invece occuparci prima di tutto di noi stessi e basta, pre-occupandoci delle nostre esigenze e l’altruismo – degradato a sorta di parolaccia – verrà da sé.

Se nel 1946 chi ci ha preceduto avesse pensato così, non avremmo avuto né Assemblea Costituente né Costituzione.

La questione dell’alterità diventa così il discrimine. Ha commentato mia figlia: ho molta paura ma ho anche la consapevolezza che noi ragazze condividiamo tutte assieme questa paura e così trovo forza e coraggio.

Pensare da soli è una cosa, pensare assieme un’altra.

Le porte della scuola non si apriranno per Willy Monteiro Duarte, ma si dovrebbe avere il coraggio di porsi un’inquietante domanda: che dice il senso comune di chi non ha la pelle bianca? Lo sappiamo o fingiamo di ignorarlo? E non nella Germania del 1933, ma nell’Italia del 2020.

Ognuno ed ognuna di noi, a prescindere da maternità e paternità effettive – da stato civile -, avverte il tasso di preoccupazione e l’importanza dell’appello alla responsabilità che accompagna la riapertura delle scuola domani.

È questa una riserva etica che ci permette di sperare o dev’essere degradato, tale sentire assai poco “ordinario” in verità (piuttosto eccezionale invero, andrebbe riconosciuto), ad un’infatuazione di anime belle che non capiscono quanto sia dura e imperscrutabile la realtà?

Sta tornando in auge una distinzione che dovrebbe lasciar stupefatti tra “scienze dure” e “scienze molli”. Di scienza ci si riempie la bocca ogni minuto che passa, di cultura no.

Così pure assistiamo ad una persino ormai noiosa sempiterna celebrazione della “razionalità”: da inseguire, additare, moltiplicare, sbandierare, a fronte di un ascolto di passioni, emozioni, paure, dubbi, domande che sarebbero invece roba vecchia come il mondo ed indegna di qualunque scientifica considerazione verso le magnifiche sorti e progressive.

Ma il progresso cos’è? È ascoltare me stesso o ascoltare chi viene da me ignorato e vorrebbe però che lo - e la - ascoltassi?

“Ti accompagnerò in macchina io lunedì”, ho rassicurato mio figlio. Che ha invece reagito: “Metterò la maschera, avrò con me il gel, terrò le distanze, ma voglio stare dove sono gli altri, non arrabbiarti, papà; vado in bus a scuola”.

Se lasciassimo da parte il nostro vezzeggiato e adulto buon senso e ci mettessimo ad ascoltare figlie e figli – merita ripeterlo, a prescindere dalle effettive paternità e maternità, adottando codici parentali molto più ampi, tali per cui ogni ragazzo ed ogni ragazzo mi sono figlio e figlia -, se ci mettessimo ad ascoltarle e ad ascoltarli, saremmo ancora innamorati del futuro.

A scuola lo sanno, fuori no. Impariamolo in fretta.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro