Eros, follia, monachesimo e violenza – prima puntata

Campagna intorno a Potočari, vicino a Srebrenica, in Bosnia ed Erzegovina. Luglio 2007. 

La costruzione in lontananza è la fabbrica in cui uomini musulmani furono arrestati, torturati e uccisi 

durante il massacro di Srebrenica del luglio 1995. - foto e didascalia tratte da commons.wikimedia.org

Ricorre in questi giorni il venticinquesimo anniversario del massacro di Srebrenica. 

Si è trattato di un atto genocidario che ha visto trucidate, tra il 6 ed il 25 luglio 1995, più di 8.000 persone di religione islamica per asserite operazioni di “pulizia etnica” nel corso della guerra in Bosnia.

Il rinvio può farsi agevolmente agli atti ed alle ricostruzioni del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia: https://www.icty.org/x/file/Outreach/view_from_hague/jit_srebrenica_en.pdf

La memoria di quegli eventi, tuttavia, non pare essere più così presente, soprattutto sembra quasi essere stata accantonata in ragione di un profondo disagio culturale che simile orrore provoca a fronte del richiamo, un tempo più potente di oggi ma pur sempre connotato da una fortissima colorazione politica, alle radici cristiane dell’identità europea. Come se una malattia dell’anima crescesse dai miasmi di una strumentalizzazione strategica delle fedi personali, necessariamente personali, ridotte a presunto collante di appartenenza identitaria collettiva.

La malattia dell’anima ha a che fare con la corruzione di qualcosa che abita tutte e tutti noi molto in profondità, laddove il raziocinio può conoscere labili zone di confine con l’irrazionalità, che però non s’accompagna affatto all’irresponsabilità. Una specie di eccedenza della ragione appositamente cercata in quanto tale, in quanto scacco alle gabbie mentali della coerenza, ma cercata assai male.

I genocidi non hanno solo precise cause di pubblico rilievo che la storia può nel tempo individuare con chiarezza. Essi smuovono moti dell’anima molto più difficili da decodificare ed interpretare.

La violenza appartiene agli ingredienti tossici di una subcultura religiosa che avverte come la forza non possa non predicarsi, non farsi derivare, dalla maestà di un Assoluto indubitabile. 

“Dio lo vuole”, “Dio è con noi”. 

I brividi di febbre di un’esaltazione malata ammorbano però anche i gesti concreti, armano le mani, ed una linea nera segna ogni singolo fatto di violenza che pretenda protezione sotto il mantello delle religioni.

San Bernardo di Chiaravalle, fondatore dell’Ordine Cistercense, afferma al n. 4 del cap. III del suo Liber ad milites templi. De laude novae militiae (http://www.deltacomweb.it/templari/bernardus-claraevallensis.de-laude-novae-militiae.pdf): “Miles, inquam, Christi securus interimit, interit securior. Sibi praestat cum interit, Christo cum interimit”, “Il soldato di Cristo uccide senza preoccupazioni di coscienza (securus) e muore altrettanto senza preoccupazioni; quando muore si salva, quando uccide lavora per Cristo.” È la tesi del “malicidio” che il Doctor mellifluus espone poche righe dopo.

E San Bernardo è pure colui di cui Pio XII così scrisse (http://www.vatican.va/content/pius-xii/it/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_24051953_doctor-mellifluus.html): “Il suo stile poi, vivace, fiorito, abbondante e sentenzioso, è così dolce e soave da attirare l'animo del lettore, dilettarlo, elevarlo alle cose di lassù; da eccitare, alimentare, dirigere la pietà; da indurre infine l'animo a perseguire quei beni che non sono caduchi e passeggeri, ma veri, certi, eterni.”

Sappiamo perfettamente che non è né lecito né possibile astrarre dai contesti temporali precisi e specifici, obbligo interpretativo rievocato anche in occasione dei recenti dibattiti su Indro Montanelli, spesso - anche in tal caso - del tutto strumentalmente. Eppure la nostra cultura di adesso, di queste ore, di questi giorni, ha effettivamente radici che così incontaminate forse non sono. Che invocano, quantomeno, sempre un vaglio critico rigoroso, un sospetto maieutico, assai faticoso tuttavia, in grado di saper scorgere che l’unica verità è quella delle vittime e non dei carnefici, fossero anche stati benedetti con solenni e commoventi liturgie. La liturgia – se ne discuteva qualche settimana fa con amici liturgisti – o è impastata di vita o è alienazione alla forsennata ricerca di un ideale che si scontra tragicamente con il dato nudo di realtà. 

Anche la vicenda liturgica della pandemia ha, in buona misura, dovuto affrontare una simile crisi e ne è uscita solo, si potrebbe dire, “per decorrenza dei termini”, non per propria elaborazione, appunto, critica od autocritica.

Eppure l’anima non è soltanto focolaio di fanatismi, è anche grembo dove nasce la follia amorosa. Che resta amorosa, e non diventa criminale, se, da un lato, si nutre del rispetto verso chi è amato e, dall’altro, si nutre del rispetto verso chi è amante, resecando ogni possibile dipendenza psichica sfociante in un’eterodirezione della propria esistenza, che decreta il venir meno di ogni autonomia interiore, di ogni propria libertà, facendo tornare, così, la malattia, la patologia.

La violenza sa essere folle ma non irresponsabile, l’amore deve essere folle ma non irresponsabile. La differenza è sottile eppure fondamentale.

Il massacro di Srebrenica interroga la fede cristiana. Il Cristo ha vissuto di nuovo il suo Venerdì Santo, la sua Crocifissione, in quegli ottomila nomi. Un Cristo non cristiano, dunque, se restiamo immobili nei recinti delle appartenenze religiose.

Un monaco benedettino, Ghislain Lafont, in una lezione tenuta all’Università Gregoriana, che può essere ascoltata al link https://www.youtube.com/watch?v=0eds9PyBqD8, fa il nome del gesuita Michel de Certau, il quale ebbe ad occuparsi a lungo di follia, seguendo percorsi paralleli a quelli di Michel Foucault, e giunse a scrivere un intero volume, intitolato La possessione di Loudoun, sui fatti che sconvolsero la cittadina francese negli anni Trenta del diciassettesimo secolo e che avevano a che fare con casi, per noi quasi incredibili a credersi, di isteria parossistica rivestita di precomprensioni religiose. In quella lezione Lafont ripercorre la narrazione biblica di Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre giungendo ad affermare, testualmente, che “Dio è nudo davanti alla libertà della coppia” e permette di far capire come la “piccola morte gravida di vita” che deriva dall’ “interdizione” di Dio – sono sempre sue parole – consista (ma questa è riflessione dell’autore di queste righe rodafiane) non in una proibizione di ordine etico, giacché mangiare o non mangiare una mela non ha nulla di etico, bensì in un invito a fidarsi di Dio, anzi meglio: a fidarsi dell’apparente follia divina che impartisce un ordine senza senso.

Il monachesimo, lo ripeteva continuamente Raimon Panikkar, non è semplice localizzazione di luoghi, figure e storie, ma è attraversamento gioioso del non senso. 

La violenza ha un senso osceno, una giustificazione che trova in se stessa, e per questo si presenta come follia non irresponsabile, non sottraibile al giudizio; l’amore invece no, come la fede. Perché l’amore, come la fede, non serve, non è utile.

È l’inizio del passo dal Vangelo di Matteo che la liturgia romana proclama in questa domenica, dal capitolo 11: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”

La memoria dei piccoli della Terra, che sanno molto di più di intere biblioteche, riesce a riscattare i nostri oblii. Come quello di Srebrenica.

Ma la strada verso la fede nuda è ancora lunga. Giacché fede e amore hanno il medesimo volto.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro