Quaestio fidei

Manifesto pubblicitario per il film del 1912 Il miracolo di Joseph Menchen, 

scansione di "The Cinema", 12 marzo 1913, pag. 33 

- immagine tratta da commons.wikimedia.org

Sembra quasi che in questa Domenica “in albis” (o “della Divina Misericordia”, e non il contrario, con “in albis” tra parentesi, di secondaria rilevanza liturgica, capovolgendo così il senso stesso della Domenica dell’Ottava di Pasqua) si coaguli, si rapprenda, si condensi una preoccupazione sopra tutte nelle nostre comunità – cattoliche e di rito romano, per esser precisi -: si teme che il mancato accesso fisico alle chiese, ai luoghi di culto, e la sospensione forzata, obbligata, delle celebrazioni comunitarie possano pericolosamente pregiudicare l’adesione di fede, possano far illanguidire addirittura le più intime convinzioni personali che nascano dall’interrogazione, per appunto strettamente personale e perciò molto laica, intorno al Mistero, all’Oltre, al Senso, ad un Tu cui rivolgersi.

Sembra quasi che la stessa affermazione di Tommaso, presente al capitolo 20, v. 25, del passo del Vangelo di Giovanni oggi previsto nel rito romano – “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” – si possa oggi tradurre in un: “Se non vado in chiesa al più presto e non vedo tra le mie mani il pane eucaristico e non metto la mia mano nella mano di chi mi sta accanto in quella chiesa, io non credo.”

Davvero la fede è a rischio per – diciamo così – “mancata pratica sacramentale”? Può essere questo un timore pastorale degno di essere alimentato e, in primo luogo, fondato alla luce delle motivazioni evangeliche della fede in Gesù di Nazaret?

Asteniamoci dal precipitare un sonoro “no” come risposta, che sarebbe non scevro di qualche presunzione intellettualoide e proviamo invece a pensare all’adesione di fede come ad una dimensione in cui conta esclusivamente l’amore, sognato, detto e fatto.

La fede come un bacio, un bacio però “a-tematico”, senza stare a precisare chi baci chi. Un bacio e basta, senza oggetto e senza soggetto, un bacio essenziale perché inutilmente gratuito. Un bacio al limite della follia.

Abbiamo bisogno di baciare per amare? Senza dubbio.

Ma possiamo amare senza baciare? Pure senza dubbio.

Senza baciare neppure almeno una volta però? No, questo no. Questo assolutamente no.

Il sacramento – oppure al plurale, dipende anche dalle inclinazioni personali – è un bacio. Il nostro amore ha bisogno di quel bacio, ma non si spegne se quel bacio, per un certo periodo, breve o anche molto lungo, non può compiersi, avvenire, realizzarsi, “celebrarsi”.

La malattia, che rende impossibile l’amore espresso con e nei corpi, fa venire meno forse l’amore in una coppia o tra amici o tra padri, madri e figli e figlie?

Tuttavia, certo, la cesura c’è, tra un prima e un dopo. E lo strazio della malattia può anche comportare, drammaticamente, separazioni definitive, un’incompatibilità di vita comune che non può essere inneggiata come salvifica rassegnazione in assenza di alternative. Certo. Ma l’amore resta.

E così come l’amore resta, anche la fede resta.

In questo tempo ci troviamo di fronte a due atteggiamenti, abbastanza semplici da rilevare, che solo in apparenza risultano contrapposti.

Da una parte, i sacramenti sono tutti da buttare, tutte le liturgie da buttare, tutti i riti da dimenticare, tutta la strutturazione comunitaria della Chiesa da demolire, tutti i preti da abbandonare alla deriva di un’identità celebrativa obsoleta e obnubilabile per sempre, oppure - l’altro atteggiamento – ogni possibilità, anche minima, anche solo individuale, di espressione rituale, liturgica, dev’essere subito valorizzata, foss’anche rimanendo dietro gli altari, o dentro le sacrestie, con tutte le porte del presbiterio ben chiuse, foss’anche riducendo (intollerabilmente, ma è un altro problema) alla sola persona del prete o del vescovo l’effettiva celebrazione del rito sacro. Una smania da presunta catarsi liberatrice da un lato, una smania da ritualità costante ad ogni costo dall’altro. In mezzo l’amore che non trova casa, non trova luogo, non trova parole, non trova gesti.

La traduzione in italiano del v. 26, sempre di Giovanni 20, riporta l’indicazione di una “casa” dove si trovavano i discepoli otto giorni dopo l’apparizione di Gesù e l’obiezione di Tommaso; al v. 19, la medesima traduzione parla delle porte “del luogo” dove si trovavano i discepoli. In realtà né il testo greco né il testo latino contiene un sostantivo, né ancor meno un riferimento ad una “casa”. Il greco dice “ὅπου”, “dove”, ed il latino annota solo “fores essent clausae”, “sebbene le porte fossero chiuse”, e basta. E così pure il v. 26 in greco dice “ἔσω”, in latino “intus”, “dentro”, senza nessuna “casa”.

Perché simile annotazione letterale? A che pro? Non siamo invece proprio nella necessità di valorizzare la casa come spazio anche celebrativo?

Forse, ma è considerazione formulata con tutta umiltà, una certa enfasi sulla dimensione puramente domestica e familiare che permetta di sopperire all’impossibilità dell’accesso nelle chiese deve scongiurare il rischio di ricadere in abitudini argomentative volte a consolidare una gigantografia della famiglia e della casa come spazi ideali, quasi sublimi, somma di ogni valore e di ogni ideale. Occorre tener conto delle sofferenze, delle contraddizioni, degli scontri, delle comunicazioni impraticabili che le case contengono a forza, in questi momenti drammatici di epidemia, ma che non vorrebbero per nulla comprimere lì dentro, perché a rischio di vera e propria deflagrazione.

“Casa e chiesa” sono state a lungo quasi logo identificativo di un familismo che non ha respiri comunitari più ampi dei perimetri murali, laici od ecclesiastici che siano.

E poi, chi vive da solo, a quale spiritualità edificante sulla famiglia e sulla casa può ispirarsi? Dovremmo farci carico di questa impossibilità, provvidenziale in effetti, di far diventare le case altrettante chiese semplicemente sovrapponendo le une alle altre.

Di quale culto e di quale liturgia infatti abbiamo bisogno? Anzi, meglio: quale culto e quale liturgia corrispondono ai nostri linguaggi d’amore, al nostro desiderio di “baciare”? O la liturgia è un bacio, o non è nulla. O è un gesto d’amore o è un adempimento che porta a perdizione piuttosto che a salvezza (e neppure merita il nome di “liturgia”).

Ritorna allora la domanda iniziale: davvero la caratterizzazione forzatamente aliturgica di questo tempo di epidemia mette a rischio la fede?

E se invece la essenzializzasse, la denudasse, la rendesse più vera, più viva, più pura, decontaminata, vicina alle nostre vite?

Che cosa manca alle nostre vite – anche vite di fede – che solo la liturgia può assicurare? L’interrogativo è serio ma la risposta non va precotta. L’alterità è infatti necessità del nostro stesso esistere, non siamo sufficienti a noi stessi; l’alterità gestuale, verbale, persino stilistica, permette alle nostre identità di vivere e non morire. Ma che cos’è questa alterità? Dove ne facciamo esperienza? Perché è essa – questa alterità – a contrassegnare il nostro affidarci come un gesto di fiducia, vale a dire: è l’alterità, la convinzione del suo valore, che rende la fede fiducia e non vaniloquio irrazionale.

Un’epidemia che causa 23.660 morti impone una riflessione pastorale non tanto a partire dai sacramenti che si possano o non si possano celebrare nelle chiese, bensì a partire dalle vite sconvolte che possono essere raggiunte dalla carezza, delicata e confortante, della Parola di Dio.

Le porte chiuse del Vangelo di Giovanni sono le chiusure che dobbiamo osservare in queste settimane per avere salva la vita. La Parola di Dio, il Cristo, viene dentro queste chiusure, oltrepassa le porte chiuse della quarantena che segna ogni casa ed ogni chiesa e ci visita.

La fede sarebbe davvero compromessa se sparisse la presenza della Parola di Dio, il suo ascolto, la sua attrazione, dalle nostre comunità. Come se il desiderio del bacio, al momento impossibile, non fosse più desiderio costante degli innamorati, ma suo ricordo lontano che svapora per sempre.

Finché sarà possibile esclamare commossi, commosse, “mio Signore e mio Dio!” in qualunque chiusura dentro cui la vita ci costringa, no, non sarà a rischio la fede della Chiesa.

E quando torneremo nelle chiese, nei templi, gioiremo, perché, finalmente, “baceremo”.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro