«Stasera annaffiate voi i fiori»

I fiori da annaffiare e l’ospedale, disegno di Rodafà Sosteno

 

Ipotizziamo che qualcuno, o qualcuna, presente nel nostro Paese ma proveniente da una terra distante 4.000 km, abbia bisogno di un trapianto.

Reazioni del tipo “lo faccia a casa sua” diventano risibili dal momento che è semplicemente impossibile un ritorno “a casa sua”, salvo non si ammetta la morte come legittima possibilità e conseguenza dell’allontanamento “da casa”, una specie di prezzo da corrispondere.

Il cinismo del resto sta sempre in agguato non solo alla finestra, da cui magari poco si sente in strada, ma anche nelle piazze, per strada appunto, fuori (o dentro) casa, nei commenti e nelle chiacchiere – à la page via social -, persino nelle proposte politiche o di approfondimento diciamo culturale.

Eppure, nel nostro Paese, da molti, moltissimi, sbeffeggiato, vituperato, criticato ogni millesimo di secondo, i medici non aderiscono a tale applauditissima scuola cinica – che nulla ha a che spartire con l’altra scuola, quella greca classica, alla Diogene per capirci – ed appena l’organo si rende disponibile per il trapianto grazie ad un donatore chiamano immediatamente, aspettano, seguono premurosi l’arrivo in ospedale e poi operano, e seguono il decorso, e informano puntualmente, e non sono eroi ma professionisti che, nell’attuale clima di scardinamento delle priorità persino meramente logiche (se il covid-19 c’è ancora, sarà il caso di evitare che si diffonda o no?), fanno rilucere di eroismo il lavorare per gli altri. Se solo ci pensiamo, è questo lavorare per gli altri che ci accomuna in realtà tutte e tutti. In tal senso, sotto tale angolo visuale, chissà, potremmo dire di essere tutte e tutti eroine ed eroi.

Una vita rivive grazie a chi le ha dato e le dà una tale possibilità.

È come un supremo riscatto di dignità umana davanti proprio al cinismo, al vezzo della semplificazione moralistica e sprezzante, alla volgarità – anche d’eloquio e di scrittura -, alla propaganda, interiore prima ancora che esteriore, del pensare per sé come necessaria terapia sociale.

E così un donatore italiano ed i medici italiani procedono al trapianto a beneficio di chi non è italiano e viene così scritta, del tutto laicamente, una pagina concreta di teologia – vogliamo rahnerianemente aggettivarla come “anonima”? – della liberazione.

I bisogni vitali non sono suscettibili di alcun previo esame su requisiti di status: sposato, non sposato, madre o padre di famiglia, lavoratore o lavoratrice, di quale età, di quale lingua, di quale cittadinanza.

I bisogni vitali di un essere umano interpellano la coscienza civica e civile di un Paese che, nel caso dell’Italia, si rispecchia nella Costituzione della Repubblica, frutto della resistenza e della lotta al nazifascismo.

Che cosa importa, che cosa è decisivo, nelle nostre esistenze, nelle nostre storie personali, tutte diverse ma forse poi non così tanto? L’ha scritto, a lettere chiarissime, Luigi Pintor in Servabo. Memoria di fine secolo, anno 1991 (edito da Bollati Boringhieri): «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi.»

È una verità così semplice eppure così densamente antropologica che intuire in essa anche una effettiva – ma, è importante ribadirlo, laicissima – professione di fede può risultare indelicato, impudico se non addirittura blasfemo.

Tuttavia, al capitolo 3 degli Atti degli Apostoli Pietro, davanti all’uomo che non riesce a muoversi e che si accontenterebbe dell’elemosina – disperando di poter ottenere altro, viene da pensare - esclama: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» Come a dire: non ho niente, ho tutto e te lo do.

Questo “non aver niente ed avere tutto e darlo” è un paradigma di spiritualità, o se preferiamo di riflessione interiore, che non viene molto indagato, neppure negli ambiti religiosi, dove piuttosto si tendere a definire con insistita nettezza una condizione ed una conseguenza, un presupposto necessario ed un esito beatifico: siccome non ho niente, ho tutto; poiché non ho nulla, ho tutto. Insomma: rinunciare a tutto per avere tutto. Solo la rinuncia assicura un possesso: ma di che cosa? Di Dio? Di Dio non ci impossessa. Della vita eterna? Della vita eterna non ci impossessa in un momento secondo. Della salvezza? O che presunzione! Di che cosa dunque?

Negli ambienti cattolici l’abbiamo sentito ripetere non sapremmo neppure dire quante volte: rinunciare per avere. E magari si è pure invocato il Vangelo, mentre il versetto 30 del capitolo 10 di Marco narra di una promessa di Gesù assai concreta e “carnale”: «già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi». A pensarci su, si resta scandalizzati.

E pure negli Atti la prospettiva è completamente rovesciata: non ho niente “e” ho tutto, senza motivazioni ascetiche o morali(stiche).

Si può pure cambiare l’ordine dei complementi oggetto: ho tutto e ho niente.

Il timor panico, vero e proprio terrore, verso lo sporcarsi sino al collo dentro la complessità della vita – complessità laica e prosaica, come gestire conti correnti, pianificare orari, consultare calendari e appuntamenti -, ha attraversato e attraversa asserite correnti di spiritualità che sono spesso finite in isterie e compulsioni, in ossessioni di purezza e astensioni da ogni compromesso, anche affettivo. Invece la “via spirituale” può avere un significato solo qui. Solo nel non far più cesure tra “alto” e “basso”, tra “sacro” e “profano”, tra “puro” e “impuro”, tra “io” che mi devo difendere e “tu” che mi chiedi di amarti, e io che non posso o non devo.

Questa domenica ricorrono i 15 anni dalla tragica morte di frère Roger Schutz, fondatore della Comunità monastica di Taizè. Nel frattempo continuano a comparire pure nuovi articoli e commenti sulla vicenda della Comunità monastica di Bose (http://www.settimananews.it/vita-consacrata/bose-passaggio-rallentato/; http://www.farodiroma.it/bose-e-stata-rinviata-la-partenza-di-fratel-enzo-bianchi/; http://www.farodiroma.it/bose-fratel-enzo-bianchi-precisa-da-tre-mesi-non-vivo-in-comunita-ma-in-un-eremo/; https://twitter.com/albertomelloni/status/1294552123510857734; https://twitter.com/albertomelloni/status/1294649381971427329), obiettivamente apparentata a quella di Taizè, se così si può dire.

Sembra che, abbastanza ricorrentemente presso molti osservatori, un po’ sfugga il senso della testimonianza monastica, che non è la delineazione di qualcosa di specifico – fosse pure luogo, abito, canto, ritmo quotidiano scadenzato – riservato ad alcuni, alcune, e non ad altri, altre, bensì proprio la consapevolezza, condivisibile con chi la vuol condividere, di “un niente ed un tutto” esattamente attuali nello stesso momento, non prima e dopo, e dunque anche di un tutto ed un niente realmente contemporanei secondo declinazioni più laiche e meno monastiche.

Un tale “monachesimo laico” – il niente ed il tutto, il tutto ed il niente – traspare allora, sino a far sorgere commozione profonda in chi le ascolta, dalle parole di quella presenza straniera (ma straniera rispetto a chi?), abitante in una normale casa di un normale rione di una nostra città, non in un monastero, che, prima di entrare in sala operatoria per quel trapianto benedetto, sente la necessità di fare un’ultima telefonata: “Questa sera i fiori del giardino dovete annaffiarli voi”.

Poi sparisce tra le mani dei medici, italiani. E poi rivive.

La salvezza, del corpo, si compie qui, così. Neanche l’anima si salva senza il corpo. O le nostre spiritualità diventano, con urgenza, narrazioni, storie, di corpi, o continueremo a recitare giaculatorie di disperata solitudine.

Buona domenica, Buon Ferragosto.

 

Stefano Sodaro