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Il Papa, il celibato e la donna senza marito


di 

Stefano Sodaro

 

Hanno fatto il giro del mondo in poche ore, proprio alla vigilia del decimo anniversario della sua elezione, queste precise parole del Papa: «In realtà, nella Chiesa cattolica ci sono sacerdoti sposati: tutto il rito orientale è sposato. Tutto. Tutto il rito orientale. Qui in Curia - ha spiegato il Papa - ne abbiamo uno, l’ho incontrato oggi: ha una moglie e un figlio. Non c’è nessuna contraddizione per un sacerdote nel potersi sposare. Il celibato nella Chiesa occidentale è una prescrizione temporanea: non so se sia risolta in un modo o nell’altro, ma è temporanea in questo senso. Non è eterna come l’ordinazione sacerdotale, che è per sempre, che piaccia o no. Se si lascia o meno, è un’altra questione, ma è per sempre. Il celibato, invece, è una disciplina.”

Parole che probabilmente hanno anche suscitato una vera e propria, sgraditissima, stupefazione in quanti (e quante) ritenevano che le bordate contro l’ordinazione degli uomini sposati partite dal celeberrimo libro del card. Robert Sarah e del già Papa Benedetto XVI Dal profondo del nostro cuore avessero ormai colpito a morte una possibile rinascita della questione, definitivamente archiviata grazie alla non menzione in Querida Amazonia

Invece no.

Sembra quasi che il Papa ci abbia ripensato – o ci stia ripensando -, ancorando però questa volta una più convinta presa di posizione al tronco delle Chiese d’Oriente. 

“Tutto il rito orientale è sposato”. L’affermazione è davvero notevole. Anche perché, oltre che una costatazione (in verità con le due eccezioni della Chiese Cattoliche Siro-Malabarese e Siro-Malankarese, che non hanno clero uxorato ma anzi prescrivono il celibato per gli ordinandi preti come la Chiesa Latina), sembra, quella del Papa, quasi – per così dire – una sorta di auspicio a non deflettere dall’antica tradizione bimillenaria orientale, secondo cui vi sono monaci che possono diventare presbiteri, ma anche coniugi padri di famiglia. E poiché non vogliamo nasconderci dietro il grande aspetto critico che rimane tale anche con una rivisitazione della legislazione canonica sul celibato clericale, vale a dire il problema del rapporto tra le donne ed il ministero ordinato, crediamo che la riflessione dovrebbe incaricarsi di approfondire, da un lato, lo statuto ecclesiale ed ecclesiologico della presbytera, cioè della moglie del presbitero, ma – dall’altro – non temere di considerare anche l’effettività di una presenza femminile “terza” dentro la vita ministeriale del presbitero sposato. Che cosa accadrebbe, poi, se tale presenza fosse quella di una diacona, o di un’accolita, o di una pastora di altre Chiese non cattoliche o di una maestra e/o officiante di altri credi religiosi?

Qui, però, a seguito delle – stupefacenti, appunto – parole papali, al canonista può venire alla mente un’altra domanda, solo in apparenza capziosa o birichina: e se, invece di rimanere, quasi ignorate dall’Orbe Cattolico, in un angolino semibuio della compagine ecclesiale, le Chiese (cattoliche) di rito orientale divenissero strumento di inculturazione per le altre Chiese – non orientali –, che, ad esempio, proprio in America Latina, in Centro America, in Amazzonia abbisognano di un intensificarsi della celebrazione eucaristica domenicale? Ricorrendo ad espressioni più dirette e meno circonvolute: ci immaginiamo che cosa accadrebbe se una comunità centroamericana, o andina, o amazzonica chiedesse semplicemente, non uti singuli, ma proprio comunitariamente il passaggio ad un rito (meglio sarebbe dire “ad una Chiesa”) orientale? Ad esempio, un passaggio al rito ghe’ez, eritreo ed etiopico, visto che le Chiese Orientale del Corno d’Africa sono le uniche Chiese indigene di quel continente. 

Anche i cosiddetti “riti orientali” non possono infatti concepirsi come teche museali sottovetro, ma come realtà vive che possono, forse addirittura debbono, ancora inculturarsi ed evolvere a beneficio dell’universale Popolo di Dio. Un parroco, dunque, di una comunità sulle rive del Rio delle Amazzoni che legittimamente ha moglie e figli perché appartenente al rito eritreo e/o etiopico e che tuttavia celebra una liturgia profondamente inculturata nel contesto di quella terra. Perché no?

Nel passo evangelico che viene proclamato oggi nel rito romano si legge dell’incontro di Gesù di Nazaret con la donna di Samaria, secondo Giovanni. Al v. 17 del cap. 4 la donna asserisce senza imbarazzi: “Non ho marito”. In realtà ne ha avuti cinque – veniamo a sapere -, ma quel passato matrimoniale non pregiudica e non mortifica la sua attuale condizione affettiva. L’uomo che ora ha – il greco giovanneo è molto materiale, concreto, quasi fisico – non è suo marito. E dunque chi è? Non abbiamo risposta. E tuttavia l’insegnamento, l’ammonizione, sono potenti: non sono gli stati di vita precedenti ad impedirci di rinnovare la nostra capacità d’amore attualizzandola, adesso, qui.

Per tornare all’inizio: che cosa dovrebbe rispondere una donna che si accompagnasse, nelle forme e modalità anche più impensate ed inaudite al momento – in questo momento cioè, per noi -, ad un prete sposato ma non ne fosse la moglie? Non dovrebbe forse dire: “Non è mio marito”? La medesima risposta della Samaritana.

Insomma, dopo dieci anni dalla sua elezione, il Vescovo di Roma – che solo perché tale è Papa – fa intravvedere una primavera ecclesiale talmente esplosiva di policromie che restiamo, al medesimo tempo, affascinati e sbalorditi.