Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

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I racconti a puntate di Rodafà


di Stefano Agnelli


***


Martina e il diapason felino - I

Martina non era felice. Non le mancava nulla. Aveva una bella casa dove vivere, una grande villa con parco nella periferia di Torino, tra le colline. Aveva due genitori che le volevano bene, bei vestiti, una cameriera personale e persino due gatti che l’adoravano e le stavano accanto tutto il giorno.

Ma non usciva mai. I suoi genitori avevano paura delle malattie trasmissibili dall'uomo, e per questo motivo Martina studiava a casa con un maestro privato. Avrebbe tanto voluto poter andare a scuola, farsi delle amiche, ma i genitori non volevano proprio cambiare idea, anche adesso che avrebbe potuto iniziare la scuola media e conoscere tanti ragazzi come lei. Cercava di non pensarci, o meglio si sfogava parlando con i suoi gatti, a cui raccontava i suoi desideri ed i suoi pensieri più segreti: tutti quelli che non diceva più a mamma e papà che, del resto, non vedeva quasi mai. Suo padre aveva una piccola fabbrica di cioccolatini e caramelle, buonissimi, ma che a Martina erano venuti a noia, tanto ne aveva sempre a disposizione. La madre era un famoso avvocato, ed aveva lo studio in villa. Quando non si recava in tribunale, passava tutto il tempo a ricevere clienti, redigere atti o a leggere raccolte di sentenze. Hector e Musetta, i suoi gatti, erano gli unici che l’ascoltavano sempre, e Martina trovava strano che i genitori le permettessero di tenerli. Si erano presentati tutti e due davanti alla porta di casa in un freddo giorno di inverno e lei aveva tanto pianto e insistito che i suoi genitori, dopo tutte le vaccinazioni possibili ed immaginabili, le avevano concesso di accoglierli in casa. Si vedeva che erano una coppia. A volte Musetta si strusciava contro Hector miagolando appena e lui si impettiva tutto felice, e le dava piccoli colpetti con la zampa, come a volerla accarezzare. Erano inseparabili, dove c'era uno, l'altro era ben poco distante.

Una domenica come tante, in cui Martina, terminati i compiti, se ne stava alla finestra a guardare le gocce di pioggia battere contro il vetro, Musetta si presentò d’improvviso nella stanza, sola, senza il suo Hector. Dopo un quarto d'ora l'inseparabile compagno non si era ancora presentato.

– Maschi! – disse Martina rivolta a Musetta – non puoi mai fare affidamento su di loro, prima o poi ti lasciano sempre sola, proprio come fa mio padre con la mamma e con me -

– Meow, miaaawrn – fece Musetta sbadigliando

– Vieni, andiamo a cercare quel furbacchione di tuo marito -

Ma nonostante avessero guardato e cercato pressoché in tutte le stanze e nei suoi angolini preferiti, di Hector sembrava non esserci alcuna traccia nella casa. La lettiera per i bisogni era vuota, con la ghiaina ancora pulita e ben spianata. Il topino di pezza, così come il tronchetto affilaunghie erano al loro posto; la ciotola per il cibo se ne stava nel solito spazio del sottoscala, vicino alla tazza con l’acqua fresca, tutt’e due ancora piene. Fu proprio uscendo dal sottoscala che Martina si accorse che era sparita anche Musetta. Si guardò attorno e, alzando gli occhi, notò che la porta in cima alla scala di servizio era aperta.

– Che strano! - pensò – quella porta era sempre chiusa a chiave e lei aveva comunque il divieto assoluto di accedere alla soffitta, anche nel caso l’avesse trovata aperta. - Mamma non me ne vorrà – si disse – Hector potrebbe essere in difficoltà, e adesso è scomparsa anche Musetta -

Dette fra sé queste parole, Martina inizio a salire lentamente le scale. Passo dopo passo, gradino dopo gradino, si avvicinava alla porta, ed il buio che iniziava ad intravedere oltre la soglia la rendeva nervosa. Provava una strana sensazione e le prudeva un po’ il naso. Si fece coraggio ed entrò. Con la mano sinistra cercò e trovò al tatto l’interruttore della luce. Lo premette e tutta la stanza si illuminò d’improvviso. Starnutì. Una, due, tre volte, sempre più forte. Sarà stata la polvere, ma il naso le prudeva sempre di più. Anzi, si accorse che, a seconda che si spostasse a destra o sinistra, il naso le pizzicava in maniera diversa.

Che strano! - penso per la seconda volta, e decise di andare a sinistra, dalla parte dove il naso prudeva di più.

Non aveva fatto che pochi passi quando, sopra un baule rettangolare, vide Hector e Musetta accucciati ed immobili, gli occhi socchiusi e le code a muovere lentamente l’aria polverosa della soffitta. Non appena Martina fece un passo verso il baule, i due gatti le balzarono tra le gambe, quasi all’unisono, strofinandole contro i loro due bei musetti e facendo le fusa. Sembrava non volessero staccarsi dalle sue gambe, eppure, senza forzarla troppo, la stavano spingendo lentamente verso la cassa su cui, poco prima, stavano accucciati. Non c’era nessuna chiusura o lucchetto e Martina, senza esitare apri il coperchio. Ne uscì un suono a cascata, melodioso e forte, come il cinguettio di cinquanta passerotti fra gli alberi. Vuoto. Ma non appena allungò la mano verso il fondo – senza un motivo preciso, quasi fosse guidata – toccò qualcosa di solido che subito apparve ai suoi occhi come se qualcuno l'avesse disegnato nell’aria. Martina levò il braccio e fece un salto indietro, spaventata. I due gatti le si avvicinarono nuovamente e quasi la costrinsero, spingendola con insolita forza, a tornare verso il baule. Guardò dall’alto, con prudenza. Sul fondo se ne stava una piccola scatola gialla rettangolare, lunga circa trenta centimetri. Sentì un profumo intenso di lavanda e di limone, poi, in bocca il gusto del gelato alla fragola. Tutto ciò che le piaceva sembrava arrivare ai suoi sensi: sentì sotto le dita la pelle morbida di sua madre, udì la risata allegra di suo padre. Stupita, quasi in uno stato d’ipnosi, prese in mano la scatola: era simile ad un astuccio per armonica a bocca. Martina si fece coraggio e l’aprì. All’interno era foderata di raso argenteo, e conteneva uno strano oggetto, anch’esso argentato. Era un diapason, non v’era alcun dubbio, simile a quello che lei usava per accordare la sua chitarra, ma il manico aveva la forma ben modellata d’una zampa di gatto, sormontato da una buffa testa di felino nella quale le due orecchie, partendo dai lati del cranio, si allungavano fino a comporre le due lame del diapason, proprio quelle che vibrando producono la nota “La”. Hector e Musetta stavano immobili, accucciati a pochi passi da lei. Martina si fece coraggio e afferrò il diapason. Una sensazione di caldo benessere l’attraversò d’improvviso, e rimase nel suo corpo per alcuni minuti. Sentiva il peso dell’oggetto nella mano, ma allo stesso tempo lo trovava stranamente leggero. Battè le lame contro il baule. Niente. Nessun suono, tantomeno un “La”. Ne fu quasi delusa, alzò la testa, si guardò attorno e non vide più Hector e Musetta accanto alla vecchia carrozzina. Alzando lo sguardo li scoprì poco distanti, immobili e sempre accucciati ma questa volta sulla soglia della porta: sembravano aspettare, ma cosa? Mosse un passo verso di loro e i due gatti, alzandosi e voltando tutto il loro corpo sinuoso, si mossero verso le scale. Martina capì subito: era un invito a scendere, forse volevano essere seguiti, ma dove?

(fine prima parte)