Un destino nel nome (xx.12.2010)

Mi chiamo Angelo Vendi Catore.

No, non è uno scherzo. O almeno non è uno scherzo mio. Questo è davvero il mio nome.

E' stato mio padre a sceglierlo. Lui si chiamava Franco Vendi Catore. Il nonno era Giusto.

Siamo una famiglia piena di ironia. O forse siamo solo masochisti che si vendicano sui figli per le pene subite dai padri, anche questa è una possibilità.

Io probabilmente farò lo stesso con mio figlio, anche se in questo momento mi sembra una possibilità decisamente remota.

Un nome come il mio, a sentirlo, passa quasi inosservato. Basta usare l'accento giusto mantenendo le due parti staccate e nessuno se ne rende conto. Il problema viene fuori quando lo si scrive. Dopo risulta difficile pronunciarlo correttamente, anche con tutta la buona volontà.

Un nome così non è facile da portare, ti può distruggere.

Io me ne sono reso conto i primi anni di scuola. L'istituto che frequentavo non era propriamente al primo posto per educazione degli studenti. Il tipico istituto da periferia cittadina. Non era nemmeno agli ultimi posti nella classifica delle migliori scuole, ma avevamo la nostra bella fetta di gentaglia, criminali in erba che iniziano la loro carriera come bulli per poi evolvere e diventare criminali comuni oppure criminali ripuliti nascosti sotto una patina di perbenismo.

La storia del nome è iniziata al secondo anno, quando si impara a leggere e scrivere in modo decente. Non si può pensare che i bulli siano solo degli stupidi caproni con un basso quoziente intellettivo mossi dall'invidia o da un senso di inferiorità verso chi sembra più intelligente di loro. Ce ne sono di veramente intelligenti, in assoluto i più pericolosi e infidi perché traggono piacere attraverso i pensieri della loro mente e lo intensificano mettendoli in pratica.

I primi tempi subivo: mi picchiavano sfottendomi per il nome e sfidandomi a reagire, sicuri che non l'avrei mai fatto. Da sempre sono un essere che passa inosservato. Andavo bene a scuola e questo ha messo ancor più in evidenza il mio nome. Avevo gli occhiali e sembravo inoffensivo, una preda ideale per un bullo, il classico secchione.

Il primo giorno che tornai a casa con un occhio nero e i vestiti sporchi mio padre mi guardò solo per un minuto. Poi si alzò e se ne andò nel garage a lavorare alle sue sculture in legno. Lui era un uomo tutto d'un pezzo e non si spiegava questo figlio imbranato e senza carattere. Forse si era dimenticato ciò che gli era capitato da bambino. O forse ero davvero così diverso da lui.

Mia madre era una brava donna e mi aiutò a ripulirmi, ma non mi fu d'aiuto. Non mi serviva la pietà nè il suo comportamento sottomesso. Mi serviva un padre, come il mio.

Non mi insegnò nulla, e in fondo non era necessario, mi bastò quel minuto passato ad osservarmi, la peggiore punizione che abbia mai ricevuto in vita mia.

Per i successivi tre mesi tornai a casa con occhi neri, lividi e vestiti sporchi e strappati a giorni alterni.

A metà febbraio tornai a casa con qualcosa di diverso: avevo i vestiti sporchi, ma gli occhi in via di guarigione.

Gli occhi neri stavano su un'altra faccia. Quella sera il telefono suonò. Rispose mio padre. Non disse molto, non era un tipo che parlava tanto, ma quando mise giù la cornetta notai un sorriso sulla sua faccia. Mi guardò per un attimo prima di tornare alle sue sculture, ma quel sorriso e la luce nei suoi occhi furono il regalo più bello che abbia mai ricevuto in vita mia.

Per uno strano scherzo del destino, fu mio padre a darmi i due ricordi più indelebili della mia vita, oltre alla causa che li generarono.

Il mio aspetto non cambiò, non ero io che dovevo adattarmi al mondo ma lui a me.

Continuavo a sembrare un secchione e i nuovi bulli si lasciavano ingannare dalla mia apparente innocenza, ma presto si rendevano conto che spesso l'apparenza inganna.

Tenevo un profilo basso, non mi interessava diventare un bullo a mia volta. Non avrei fatto onore al mio nome.

La vita poi è andata avanti abbastanza tranquilla, non aveva senso mettersi in mostra.

Mio padre e mia madre morirono in un incidente d'auto: un camionista ubriaco aveva invaso la corsia sbagliata e si era schiantato sulla loro macchina. Fu arrestato, si fece una settimana di carcere dopo tre anni in attesa di giudizio e poi lo rimandarono a casa. Poverino, anche lui era solo una vittima, era malato, che colpa aveva se questo aveva portato alla morte di altre persone? Ricordo ancora le sue parole cariche di disperazione e pentimento davanti al giudice. Assolutamente finte.

Poco dopo la sua casa prese fuoco: diedero la colpa al suo vizio di fumare e alle bottiglie di alcool sparse qui e là. Probabilmente lui si era addormentato con una sigaretta accesa e una bottiglia aperta. A me non importava ciò che si pensava, giustizia era stata fatta.

Io avevo gia' raggiunto la maggiore età da un paio d'anni e potevo vivere da solo.

Ogni tanto qualcos'altro succedeva, ma agli occhi del mondo io ne rimanevo fuori.

All'università, per esempio, c'era un professore che si divertiva ad importunare le ragazze. Un altro bullo, questa volta vestito bene e con un po' di potere sulle spalle. Pensava di essere al di sopra del sistema, e soprattutto al di sopra degli studenti. E delle studentesse. La sua fama lo aveva preceduto, ma la fama non sempre rispecchia la realtà. Non ho mai creduto alle voci, preferisco sempre avere prove concrete. E sono arrivate quando una mia amica ha cercato di fare l'esame. Ha cercato ma senza riuscirci, uscendone umiliata perché non aveva accettato alcune piccole condizioni. Quel professore ora non importuna più nessuno, nè uomini nè donne. Dopo aver dato quell'esame, l'ho incontrato solo un'altra volta. Dicono che da quel momento la sua voce ha subito una drastica trasformazione, includendo molte frequenze alte.

Un altro dei tanti incidenti che capitano, perché preoccuparsene troppo? Basta il risultato.

E di incidenti come questo ne sono capitati altri, più o meno gravi.

C'è un fumetto della Marvel intitolato "The Punisher". L'ho scoperto solo qualche anno fa e mi ha colpito subito. Ora ho tutti i fumetti che lo riguardano, sia della sua serie che di altre. Compare anche con l'Uomo Ragno e altri supereroi. Ma lui è del tutto normale, o quasi. Nessun super potere, solo un'elevata sete di giustizia. Un po' come me.

Il Punitore è al di sopra della legge, perché la legge non riesce a fare giustizia.

Legge e giustizia sono due cose disgiunte. La legge può essere comprata, aggirata, tradita. La giustizia invece no, sempre che ci sia qualcuno in grado di aiutarla.

La legge una volta mi ha fermato. Tre poliziotti mi hanno portato nella loro caserma per interrogarmi su un crimine avvenuto da poco. Io ho detto loro di essere innocente, ma l'interrogatorio non è stato leggero. Uno mi ha guardato negli occhi per un attimo e ha capito che non avevo fatto nulla, ma non ha cercato di fermare i suoi compagni anche se non ha partecipato. Due ore dopo sono stato rilasciato perché avevano trovato il vero colpevole. Sbagli che capitano, amici come prima. E le contusioni sulla mia pelle potevano essere facilmente dimenticate. Come si dice, cose che capitano.

Ecco altri bulli, questa volta nascosti dietro una divisa. Ma la divisa non è uno scudo che ti può proteggere in eterno. Prima o poi devi togliertela e tornare nel mondo come comune cittadino. I due che mi hanno pestato hanno avuto qualche spiacevole incidente. Il terzo, quello silenzioso, continua ad esserlo. E' vivo, ma non potrà più parlare. Non è stato un lavoro facile, ma quando c'è una lezione da imparare, non si può lesinare sui metodi, altrimenti non si è un bravo insegnante. Ovviamente ho dilazionato nel tempo gli incidenti, in modo che non sembrassero collegati. Non necessariamente la giustizia deve essere veloce.

Questi ovviamente sono solo i fatti preliminari. Mi servivano per presentarmi e far capire chi sono e com'è il mio mondo. Ogni condanna deve essere preceduta da una confessione o da prove certe e inconfutabili. Altrimenti rimangono sempre dei dubbi e questo non va bene per avere giustizia.

La storia di cui però voglio parlare inizia dall'incontro con Chiara.

C'è sempre una donna alla base di ogni tempesta emotiva, almeno per un uomo. E quasi sempre c'è una donna alla base di una vita distrutta. O più di una vita, se considerate la storia della città di Troia.

Io non ho mai avuto relazioni passeggere. Sono sempre stato un uomo fedele, anche se non mi sono mai completamente dato ad una persona. Darsi completamente porta a scoprire la propria anima, si diventa deboli e non è certo un bene se si ha una missione come la mia.

Un anno fa ero da solo, nessuna donna al mio fianco da almeno un paio di mesi.

Stavo sullo sgabello di un bar a bere una birra e a dedicarmi al mio secondo lavoro. Stavo seguendo uno dei miei assistiti. Niente a che fare con il lavoro ufficiale di insegnante di lettere che mi vede impegnato durante il giorno in un liceo della città. Lui invece era a caccia, si vedeva da come si muoveva e da come si guardava attorno. La sua preda era una ragazza dai capelli rossi intenta a parlare con un gruppo di amici ad un tavolo del locale. La vedevo riflessa nello specchio dietro il bancone.

Ho sempre amato i locali classici come quello perché permettono di tenere d'occhio tutto senza grossi problemi. E il mio aspetto continua a farmi passare inosservato. Le ragazze tendono a non notarmi e a starmi lontano, a meno che non sia io a volerlo. Per questa ragione gli uomini fanno altrettanto, almeno quelli a cui piacciono le ragazze. Gli altri invece possono diventare un problema, ma si convincono facilmente a lasciar perdere ogni approccio.

La rossa si era alzata, stava per tornare a casa.

Sapevo qualcosa di lei: si deve sempre conoscere le prede per poter catturare il predatore. Si chiamava Chiara, faceva la segretaria in uno studio legale specializzato in proprietà immobiliari. Trent'anni assolutamente ben portati, ne dimostrava almeno cinque in meno. Occhi verdi, molto chiari. Colorito chiaro, quasi trasparente. Alta un metro e sessantacinque. Vestita in modo sobrio ma elegante. Non era una bellezza appariscente, ma attirava l'attenzione del sesso opposto.

Se non altro, il mio cacciatore aveva buon gusto.

La ragazza stava uscendo dal locale. Le diedi qualche minuto, aspettando che anche lui si muovesse, cosa che fece immediatamente. Ed io dietro, un'ombra nella notte in una via con i lampioni che facevano poca luce. I tacchi della ragazza battevano marziali sul marciapiede, si sentivano a venti metri di distanza senza aguzzare l'udito. Anche se non in vista, continuava a non passare inosservata.

Abitava ad un paio di isolati dal bar, ma non sarebbe arrivata a destinazione. Questa era l'intenzione del cacciatore. Io invece avevo tutt'altra intenzione, così lo precedetti e aspettai. Quando il suo braccio si chiuse sul collo della ragazza, io ero dietro di lui. Non gli dissi nulla, non avevo bisogno di sentire le sue giustificazioni né lui le mie accuse. Lo costrinsi a girarsi verso di me. Solo che a girarsi fu solo il suo collo, un rumore che avevo già sentito in passato. Comunque non è un bel rumore da sentire.

Devo dire che la ragazza si comportò bene. Non fece gesti inconsulti tipo gridare aiuto. Mi guardò e non disse nulla. Guardò l'uomo ai miei piedi e poi guardò di nuovo me. Io avevo la faccia in ombra, non poteva vedermi il viso né tanto meno riconoscermi. Feci qualche passo indietro, immergendomi ulteriormente nel buio del vicolo alle mie spalle, continuando ad osservarla. I suoi occhi erano assolutamente calmi. Non c'era alcuna traccia di paura. Le prede solitamente hanno paura, è nella loro natura, altrimenti non attirerebbero l'attenzione del predatore.

Lei no. Evidentemente non era una preda.

Vidi il suo sorriso fugace e capii che avevo trovato la mia anima gemella quando scorsi la lama che spuntava dalla sua mano. Non faceva nulla per nasconderla, non ne aveva bisogno. E non era nemmeno diretta a me.

"Vieni a trovarmi domani sera", mi disse piano. Se ne andò subito dopo camminando tranquillamente come se non fosse successo nulla. Io rimasi lì a guardarla per qualche minuto. Poi la imitai percorrendo il vicolo e uscendo dall'altra parte del palazzo. La notte era così serena da meritarsi una bella passeggiata. E la mia testa pure: sentivo i pensieri correre in circolo come un branco di lupi intorno ad una pecora. Solo che quei pensieri non accennavano ad attaccare, correvano e basta, senza riuscire a fermarsi.

Chi era veramente Chiara?

Bella domanda. Volevo trovare una risposta.

Ma c'era un'altra bella domanda: cosa dovevo fare?

Accettare il suo invito era una pazzia. Ma era una pazzia allettante. Mi tornava in mente mia madre e il suo fare sottomesso e mi convincevo che una donna come lei non faceva per me, nonostante tutto ciò che avevo imparato dalla mia vita e soprattutto da mio padre.

Ci pensai per tutta la notte e per tutto il giorno successivo. A scuola feci il mio lavoro come al solito, ma non ero completamente presente. Solo alla sera presi la mia decisione e andai a casa sua.

Lei non mi aveva detto dove incontrarci, sapeva che io sapevo dove abitava. E infatti, appena suonai il campanello lei mi aprì: mi stava aspettando. Anche se non mi aveva visto in faccia, sapeva esattamente chi ero e perché ero lì.

Entrai senza dire una parola e andai direttamente in cucina. E' la stanza che preferisco in assoluto di una casa, mi dà sensazioni familiari, tranquille. E' la stanza che non uso mai per fare il mio secondo lavoro.

Lei non era stupita dal fatto che sapessi muovermi in casa sua, aveva capito il mio carattere meticoloso. Lei era altrettanto meticolosa.

"Vuoi qualcosa da bere?", chiese. La sua voce era leggermente roca. Era cosi' di natura, non era colpa dell'emozione. Forse fu quella voce a conquistarmi davvero. Non il suo corpo, che non avevo ancora visto, e nemmeno il suo bel viso. Fu quella voce.

"Si", risposi.

Bevemmo insieme due birre. Anche lei sapeva cosa preferivo, doveva avermi notato al bar. Non ero passato inosservato come credevo. Forse ero anch'io sotto osservazione e questo mi spiazzò, anche se non come quel che successe dopo. Lei si avvicinò e mi baciò: le sue labbra sapevano della birra che aveva appena bevuto, ma anche di qualcos'altro, un sapore salato, quasi come il mare. Buono.

Non volarono vestiti, non ci furono incontri e scontri violenti come si vedono nei film. Robaccia da registi in cerca di sensazionalismi. Continuammo a baciarci mentre lei mi apriva i pantaloni e si alzava la gonna. Sotto non portava nulla, probabilmente era tutto programmato, anche se in quel momento non avevo testa per accorgermene. Fu lei a guidare l'incontro mentre le baciavo le labbra e poi il collo. Quei suoi "Si" detti con voce roca mi eccitavano e mi distraevano.

Finimmo in fretta. Nessun rapporto alla orientale che dicono duri ore. Ci bastò mezz'ora, compresi i preliminari. E alla fine ci trovammo con i vestiti spiegazzati, ma ancora addosso, il suo corpo ancora uno sconosciuto. Lei non mi aveva lasciato molta libertà d'azione.

Presi la mia birra e ne bevvi un altro sorso. Lei si rimise in ordine la gonna e si sedette di fronte a me, dall'altra parte del tavolo.

"Dobbiamo parlare", le dissi.

Lei sorrideva, non so perché. Era solo soddisfatta? O stava pensando ad altro? Non lo so nemmeno adesso. Pensavo di conoscerla ma ora mi rendo conto che non conosco nemmeno me stesso. E lei non aveva alcuna intenzione di farsi conoscere. In caso contrario avremmo iniziato parlando, non certamente facendo sesso.

Di quello si era trattato. Niente amore, solo sesso. Quasi uno scambio tra colleghi. Lei ne aveva bisogno, io anche. Era un modo per dirci che eravamo uguali.

"Di cosa?", mi chiese lei.

Di cosa si può parlare con la propria anima gemella? Cos'è che già non si sa? Tanto, purtroppo, anche se i romantici dicono il contrario.

"Tu conosci il mio segreto. Io non conosco il tuo. Chi sei?"

I suoi occhi verdi mi fissarono per un po'. Pensavo non volesse rispondermi, ma alla fine lo fece.

"Faccio quel che fai tu. Un po' di giustizia quando non c'è nessun'altro a volerlo fare", disse. Era così semplice?

"E il tipo di ieri sera?"

"Era da un po' che lo seguivo. Stava per scattare la trappola, ma sei arrivato tu a fare il lavoro"

"Hai visto il giornale di questa mattina? L'ha dipinto come una vittima, un brav'uomo immacolato e amato da tutti. Pensi che abbiamo sbagliato?", non era un dubbio, era un test.

"No".

Non aggiunse altro. Aveva ragione e io lo sapevo. Lo sapeva anche la segretaria del "brav'uomo", che lui aveva violentato, ucciso e sepolto in campagna. Il suo corpo era stato trovato un mese prima, ma le indagini non avevano portato a niente. Io avevo visto la faccia del "brav'uomo" in televisione e avevo capito tutto. Poi avevo iniziato a seguirlo. E la sera prima avevo avuto conferma che il mio sesto senso non si era arrugginito.

"Bene. Ora cosa hai intenzione di fare?", le chiesi.

Davo sempre una scelta al mio prossimo. E lei se la meritava più degli altri, dopo il nostro rapporto. Se la risposta non mi fosse piaciuta, sarei sparito. Non l'avevo mai fatto prima ma ero preparato da tempo a questa eventualità. Anch'io avevo delle regole. E se sto scrivendo qui è perché mi tocca rispettarle, in particolare la prima. Ma non precorriamo i tempi.

"Continuare a fare il nostro lavoro", mi disse. Sei parole che potevano valere un discorso. E per me fu così.

Quella sera ebbe inizio la nostra collaborazione. Solo che non avevo ancora capito chi comandava.

Ci rivedemmo solo un paio di settimane dopo per parlare di "affari": non avevamo fretta di metterci alla prova. Il nostro primo lavoro si realizzò solo un mese dopo. Necessitava di un'attenta preparazione, che non avevo intenzione di delegare a qualcuno che ancora non conoscevo bene.

La nostra relazione "amorosa" (e le virgolette sono d'obbligo) continuò in modo più frequente: ci vedevamo circa una volta a settimana e sfogavamo i nostri istinti. Vidi finalmente cosa si nascondeva sotto quei vestiti e fu una scoperta notevole, devo ammetterlo. Niente corpi pelle e ossa. C'era della carne attaccata a quelle ossa, un bel corpo morbido e sodo. Era un piacere sentire i suoi muscoli contrarsi e affondare le dita in quel corpo. E lei sapeva dove affondare le sue e attirare la mia attenzione. Credo che sia stato questo ad impedirmi di comprendere cosa stava succedendo. Non ragionavo con la testa ma con qualcos’altro posto sotto la cintura.

Passò così circa un anno. Alla fine ci alternavamo nella scelta delle persone da correggere. Iniziavo a fidarmi del suo giudizio, purtroppo.

Ma poi scoprii qualcosa che non avrei voluto mai scoprire. Un errore.

La giustizia non ammette errori. E i giustizieri non possono tollerare di commetterli.

Io invece sbagliai e me ne resi conto solo qualche giorno dopo. L’uomo che avevamo preso di mira era stato facilmente rintracciabile e giustiziabile. Forse avrei dovuto rendermi conto che era stato tutto troppo facile.

Si trattava di un banchiere. Chiara mi aveva presentato il caso in modo che non dava adito a dubbi: gli piaceva giocare con i bambini. E quando dico giocare, intendo che lui giocava sui loro corpi, loro invece subivano. Chiara mi aveva spiegato tutto della sua ultima vittima, un bambino di appena sette anni, figlio di suo fratello. Questo mi sembrava intollerabile: fare cose del genere, ancor più al proprio nipote, poteva portare ad una sola condanna e questa venne eseguita in modo alquanto doloroso, anche se agli occhi del mondo risultò essere un semplice incidente. Giustizia era fatta, non dovevo certamente dare pubblicità alla cosa rovinando ancor di più la piccola vittima agli occhi famelici e crudeli del pubblico.

Come dicevo, qualche giorno dopo iniziai ad avere qualche dubbio. Non avevo fatto i miei soliti controlli, avevo dato ascolto solo a Chiara. Per fugarli dovevo controllare.

E così venne fuori che il bambino non aveva avuto alcun problema. Lo zio era il solito zio, magari con qualche attenzione in più visto che l’uomo non aveva figli. Ma da quando questo comportamento è da condannare?

Avevo sbagliato e non potevo tornare indietro. Le condanne a morte hanno questo piccolo svantaggio.

Ero colpevole di un giudizio affrettato. Ma perché Chiara mi aveva fatto fare questo errore?

Iniziai a dubitare delle persone che mi aveva indicato in passato, anche se risultarono a posto, cioè colpevoli. Quindi questo era il primo errore. Certo, poteva capitare a tutti, ma i controlli che avevo fatto erano così semplici da non indurre in errore. Cos’altro c’era dietro?

Indagai. Ne ero capace. Sottoposi Chiara ai miei protocolli, che scavavano a fondo nelle persone e quel che venni a sapere mi sconcertò: per qualcuno il banchiere era un rivale scomodo e Chiara si era presa l’incarico di eliminarlo.

Un bel sicario, certo, ma comunque un sicario.

Ci incontrammo un paio di volte. Io mi comportavo come al solito, nascondendo i miei sospetti e alla fine le mie certezze. Volevo saperne di più.

Al nostro ultimo incontro la misi con le spalle al muro. Lei cercò di negare, le donne sono abili in questo, e lei ne era maestra visto che era riuscita ad ingannarmi. Ma i miei metodi portano a risultati. Prima di ucciderla, mi confessò tutto, anche quanto era stata pagata.

"Perché?", le chiesi.

Lei mi guardò con quegli occhi verdi, un po’ tumefatti. Pensavo non mi rispondesse. Invece lo fece.

"Perché no? Avevo bisogno di soldi", la ragione più antica del mondo. Soldi, potere, la base di ogni crimine.

Devo dire a suo favore che, anche se consapevole di quel che le sarebbe capitato, non mi implorò di lasciarla vivere. Anche alla fine mi piaceva il suo carattere, somigliava troppo al mio. Era davvero la mia anima gemella, anche se si era fatta corrompere.

In fondo anch’io mi ero fatto corrompere: mi ero fidato di lei perché ero stato offuscato dal sesso.

Lasciai il suo corpo steso sul letto, le misi una rosa rossa sul petto e me ne andai. Non cancellai le mie impronte o altre tracce.

Se i poliziotti non sono degli emeriti idioti, tra poco verranno a cercarmi. Ma la loro giustizia si chiama Legge e si può sempre eludere con un buon avvocato. La mia giustizia si chiama Giustizia e sa chi è colpevole e chi no. E chi è colpevole deve essere condannato. Non conosce pietà, come del resto non ne hanno i colpevoli per le loro vittime.

Non mi piace l’idea del suicidio, ma non è il mio caso. Si chiama Giustizia.

Mi chiamo Angelo Vendi Catore.

Non posso fare altrimenti. Un nome così può distruggere. Oppure fortificare.

Lascerò questa confessione a chi verrà a cercarmi. Non voglio giustificarmi, non è nel mio stile. E’ solo una confessione da colpevole.

Poi userò un veleno di mia invenzione. Non c’è antidoto, credo. Non sono un chimico, quindi non ne sono sicuro, ma il tempo che ci metteranno i poliziotti ad arrivare non mi darà possibilità di sopravvivere.

Mi fa sorridere il fatto che non avrò un erede per continuare il mio lavoro. E nemmeno un erede da minare con un nome strambo come il mio.

Mio padre ha lasciato la scelta a me per quanto riguarda il lavoro, anche lui lo faceva e nessuno se n'è mai accorto. Forse non ha mai commesso errori.

Io non lascio alcuna scelta. Questo mondo è troppo marcio perché una sola persona riesca a fare tutto il lavoro che servirebbe per migliorarlo.

Peccato!