La Guerra dei Trent’Anni, conclusasi nel 1648 con la pace di Westfalia, aveva colpito duramente la Lombardia, attraversata più volte dalle truppe spagnole dirette in Germania. In conseguenza di ciò, nel 1630 si era abbattuta nel Milanese una gravissima pestilenza, che aveva scatenato un’ondata di panico culminata nella "caccia agli untori", ovvero ai presunti propagatori del contagio. Inoltre, il controllo della Valtellina, essenziale agli Asburgo quale via di collegamento tra l’Austria e la Spagna, era stato all’origine di un conflitto che, tra il 1623 ed il 1637, aveva opposto agli Asburgo Venezia, la Savoia e la Francia, portando la guerra alle porte del Milanese.
Alla fine, la Valtellina era tornata sotto la sovranità della svizzera, che si impegnava a garantire il passaggio delle truppe asburgiche. Solo lentamente la Lombardia riuscì a riemergere dalla crisi, riprendendo le proprie attività agricole e manifatturiere.
In seguito al Trattato di Utrecht del 1713, che aveva posto fine alla guerra di successione spagnola, divampata nel 1700 alla morte del re Carlo II, privo di eredi, lo Stato di Milano entrò a far parte dei domini dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo, il quale rivolse a questa regione un’attenzione mirata a risolvere i problemi economici. Gli accordi del trattato furono sanciti definitivamente nel marzo 1714 a Rastatt. Nel 1718 si insediò una commissione nominata dal governo austriaco e composta da tecnici stranieri, i quali dovevano organizzare un nuovo catasto che consentisse un’imposizione fiscale più equa ed estesa a tutte le proprietà.
Alla morte di Carlo VI, il regno passò a sua figlia Maria Teresa d’Austria, che vi insediò una Giunta Reale. Fu questo un intenso periodo di riforme politiche ed economiche, che riguardarono gli apparati burocratici dello stato, promosse dal conte di Harrach, da Gian Luca Pallavicini e da Pompeo Neri. La fase riformatrice si interruppe per qualche anno coll’avvento, nel 1757, del governatore Beltrame Cristiani, il quale riconfermò le vecchie esenzioni fiscali per gli ecclesiastici, per riprendere però con l’arrivo a Milano del conte Karl Firmian, in qualità di ministro plenipotenziario. Venne allora istituito un Supremo Consiglio di Economia per la gestione degli affari finanziari e lo stato assunse direttamente la riscossione delle imposte, fino ad allora appaltata a finanzieri privati.
Estintasi con Gian Gastone nel 1737 la linea maschile della casata dei Medici, il Granducato di Toscana passò sotto il governo di Francesco Stefano, figlio del duca Leopoldo di Lorena, ricordato da Voltaire come un principe esemplare, pacifico e illuminato. Le vicende che portarono a questa successione videro coinvolte tutte le maggiori potenze europee, accordatesi finalmente con la pace di Vienna nel 1735. Al termine della guerra di successione polacca, lo spodestato re di Polonia, Stanislao Leszczynski, suocero di Luigi XV di Francia, aveva ottenuto, quale compenso del perduto regno, il ducato di Lorena, con la clausola che alla sua morte esso sarebbe stato annesso alla Corona francese. Il duca di Lorena, Francesco Stefano (1708-1765), che sposerà nel 1736 la figlia e futura erede dell’imperatore Carlo VI, l’arciduchessa Maria Teresa d’Austria, aveva rinunciato al suo regno, in cambio del diritto di succedere a Gian Gastone de’ Medici sul trono di Toscana. Durante gli ultimi mesi di vita del granduca mediceo, un rappresentante lorenese, il principe di Craon, era già giunto a Firenze. Francesco Stefano e sua moglie compirono un solo viaggio in Toscana, soggiornandovi dal gennaio all’aprile 1739, dopo di che se ne tornarono a Vienna, lasciando il governo dello stato nelle mani di un Consiglio di Reggenza, presieduto prima dal Craon fino al 1747, poi dal conte di Richecourt fino al 1757 ed infine dal maresciallo Botta Adorno. La continuità tra il vecchio ed il nuovo regime fu assai marcata, tanto che numerosi ministri continuarono a mantenere le cariche assegnate loro dai granduchi di Casa Medici.
Durante i ventotto anni della reggenza, interrotta nel 1765 con l’arrivo a Firenze di Pietro Leopoldo, il figlio di Francesco Stefano, furono introdotte limitazioni alla censura operata dalla Chiesa sulla stampa, posto un freno alla crescita della manomorta ecclesiastica e regolata l’iscrizione al Libro d’Oro della nobiltà.
Francesco Stefano divenne imperatore nel 1745 col nome di Francesco I; vent’anni dopo morirà improvvisamente per un infarto, lasciando il Granducato al figlio terzogenito Pietro Leopoldo, nato nella reggia di Schönbrunn il 5 maggio 1747.
L’educazione del principe Pietro Leopoldo fu affidata alle cure del conte Francesco Thurn-Valsassina, un nobile carinziano di origine italiana, il quale poté ben presto apprezzare il particolare talento mostrato dal giovane per le discipline scientifiche e tecniche. Fisicamente gracile e cagionevole, Pietro Leopoldo trovò nel conte, oltre ad un valido maestro, anche un fidato confidente, che tenne al suo fianco fino alla morte. Il decesso del figlio secondogenito di Maria Teresa, il sedicenne Carlo, provocò un cambiamento nei piani relativi al futuro di Pietro Leopoldo, ormai destinato al trono granducale della Toscana, dove, secondo le clausole, accedevano i secondi nati della casata dei Lorena. Fino dalla più tenera età, gli era stata destinata in moglie Maria Beatrice d’Este, figlia del principe ereditario di Modena, ma il mutato ruolo del giovane necessitava di una sposa più illustre. La scelta cadde sull’Infanta Maria Luisa, figlia del re Carlo III di Spagna, mentre Maria Beatrice passava al fratello minore Ferdinando. Il matrimonio fu celebrato per procura a Madrid il 16 febbraio 1764 e i due sposi poterono incontrarsi solo nel mese di agosto, quando nel duomo di Innsbruck venne festeggiato con grande solennità lo sposalizio. Il 13 settembre 1765 il granduca fece il suo ingresso a Firenze, accolto calorosamente dal popolo che, dopo ventotto anni di reggenza, festeggiava l’insediamento in città di un nuovo sovrano e della sua corte. Egli non era solo il granduca di un piccolo stato, ma anche un principe della casa d’Asburgo, una delle grandi dinastie egemoni d’Europa. Al giovane si presentava un regno in gravi difficoltà economiche, retto da una burocrazia inefficiente e da leggi anacronistiche.
La sua formazione culturale di stampo illuminista lo portò a realizzare una serie di interventi riformatori in campo economico e sociale, liberalizzando la produzione e i commerci, promulgando un nuovo codice penale, ispirato al pensiero di Cesare Beccaria, e limitando l’ingerenza ecclesiastica nel governo dello stato. La morte del fratello, l’imperatore Giuseppe II, avvenuta nel 1790 lo costrinse a tornare a Vienna, dove lo attendeva la corona imperiale, da lui assunta col nome di Leopoldo II. Pietro Leopoldo morì il 1° marzo 1792 e sua moglie, distrutta dal dolore, lo seguì nella tomba dopo solo due mesi.
I primi catasti italiani furono creati nel corso del Settecento negli stati più sensibili al riformismo, quali la Lombardia asburgica e il Piemonte sabaudo. Le perfezionate tecniche di rilevamento si diffusero in campo civile, non limitandosi più all’abito della cartografia militare, praticata fin dal Rinascimento. Il problema dell'istituzione dei catasti, finalizzata non solo ad un più diretto controllo del territorio, ma pure al controllo fiscale delle proprietà, non era una questione nuova: basti pensare che a Firenze già nel 1427 era stato fondato un catasto. Ogni stato italiano aveva un diverso metodo nel rilevamento dei terreni. A Napoli, il catasto, istituito tra il 1741 ed il 1754 interessava anche cose e persone e non prevedeva la misurazione del territorio; i beni ecclesiastici godevano di alcune immunità, mentre erano esentati i beni feudali. Immuni dai tributi erano pure molte terre di proprietà del clero in Piemonte, dove il catasto era stato istituito nel 1739, vent'anni più tardi rispetto alla Lombardia, quando il matematico di corte Giovanni Marinoni era stato chiamato a Milano da Vienna per seguire il censimento di immobili e terreni. Fu il Marinoni che adottò su larga scala uno strumento goniografico denominato 'tavoletta pretoriana' dal nome del suo ideatore, Joannes Praetorius, che l’aveva messa a punto nel XVII sec. Da allora, la 'tavoletta pretoriana', col suo corredo di cannocchiale, bussola, livella a bolle d’aria e alidada, divenne un indispensabile strumento per i geometri impegnati nella misurazione catastale. La modernizzazione del catasto toscano si lega strettamente alla politica riformista di Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, anche se un censimento completo dei territori del granducato si ebbe soltanto con l’annessione diretta della Toscana all'impero napoleonico nel 1807, quando Napoleone decise di applicare in tutti i suoi domini un unico catasto.
Durante tutto il Settecento, fino all’arrivo in Italia di Napoleone Bonaparte, le antiche repubbliche indipendenti italiane riuscirono a conservare la propria autonomia, sebbene non potessero più competere commercialmente, come nei tempi antichi, con le moderne nazioni europee. Ancorate ad un illustre passato, Lucca, Genova e Venezia non seppero aggiornarsi ai nuovi tempi, rilanciando le proprie fortune, né in campo economico, né politico. Uno spirito di iniziativa maggiore dei patriziati italiani ebbero i due ducati italiani, quello di Modena e Reggio e quello di Parma, Piacenza e Guastalla, che seppero sopravvivere allo sconvolgimento degli assetti politici italiani, preservando la propria autonomia e modernizzando le strutture amministrative ed economiche.
Guidata da un’oligarchia mercantile e chiusa a preservare i privilegi acquisiti nel corso dei secoli, Genova difese strenuamente la propria autonomia repubblicana, minacciata dall’Austria durante la guerra di successione austriaca. Alleata degli spagnoli, la città era stata invasa dall’esercito asburgico il 6 settembre 1746 e liberata in dicembre, a seguito di una violenta insurrezione popolare. Partiti gli austriaci, erano però arrivate le truppe austro-piemontesi, cacciate anch’esse dalla guerriglia popolare scatenata dal governo cittadino. Le trattative di pace firmate ad Aquisgrana, il 18 ottobre 1748, confermarono l’indipendenza della città. Un nuovo problema per la repubblica sorse con le volontà indipendentiste della Corsica, dal 1559 colonia genovese. Non riuscendo a domare la rivoluzione corsa, nonostante i tentativi di mediazione del doge Agostino Lomellini, Genova fu costretta a cedere, per quaranta milioni, l’isola alla Francia, perdendo col Trattato di Versailles del 15 maggio 1768 il suo più importante dominio territoriale.
Fra tutti gli Stati italiani, solo la Repubblica di Venezia era stata capace di perseguire, fin dal Medioevo, una politica di indipendenza. Padrona del Veneto, della Lombardia fino al fiume Adda, dell’Istria, della Dalmazia, nonché di numerose isole greche, tra cui la lontana Creta, essa seppe conservare per lungo tempo la floridezza economica, grazie al monopolio dei traffici commerciali con l’Oriente. Nel corso del Seicento, il problema più grave per la Repubblica di Venezia, libera, indipendente e retta da un governo, era costituito dai turchi, che premevano alle frontiere dei suoi domini. Nel 1645 si aprì un disastroso conflitto con gli ottomani, a seguito di alcuni scontri navali che portarono all’assedio dell’isola di Creta. Dopo anni di strenue resistenze, nel 1669 il comandante dell’esercito veneziano, Francesco Morosini, fu costretto a capitolare e a trattare la cessione dell’isola ai Turchi. La guerra riprese nel 1684, quando la Repubblica entrò a far parte della lega antiturca, assieme all’imperatore asburgico e al re di Polonia. Grazie a questa alleanza, conquistò il Peloponneso e la città di Atene, dopo un furioso bombardamento che devastò gran parte dell’antica Acropoli. Pur vittoriosa, Venezia uscì dal conflitto stremata finanziariamente, mentre sul fronte dei Balcani si andava affermando sempre più la potenza austriaca degli Asburgo. L’espansione coloniale delle grandi potenze europee stava ormai scalzando le posizioni sino ad allora mantenute da Venezia, la quale non era in grado di competere con nazioni come l’Olanda e l’Inghilterra.
Ridotta ormai ai margini del commercio col Levante, la Repubblica si stava avviando verso una lenta, inesorabile decadenza. Ormai essa viveva nel ricordo del glorioso passato, conducendo una politica di rigorosa neutralità, che le permise di conservare la propria indipendenza fino al 1797, quando fu ceduta da Napoleone Bonaparte all’Austria col Trattato di Campoformio.
Dal 1694 regnava nel ducato di Modena Rinaldo d’Este, figlio di terzo letto del duca Francesco I, che abbandonò la porpora cardinalizia per assicurare la continuità dinastica del suo stato, dal momento che il nipote Francesco II non aveva avuto figli dalle nozze con Margherita Farnese. Sposatosi nel 1695 con Carlotta Felicita dei duchi di Brunswick-Luneburgo, elettori di Hannover, Rinaldo aveva ampliato i domini estensi con l’acquisizione di Mirandola, Concordia e San Martino in Spino, avviando una serie di migliorie territoriali. Il suo ducato fu però travolto dai grandi eventi europei e subì i pesanti contraccolpi delle guerre di successione spagnola e austriaca con due occupazioni, nel 1702-1707 e nel 1734-1736. Entrambe le volte, Rinaldo lasciò con la famiglia Modena per la più tranquilla Bologna, affidando il governo ad un Consiglio di Reggenza. Alla sua morte nel 1737, in assenza dell’erede maschio Francesco III, impegnato in Ungheria nella guerra dell’Austria contro la Turchia, il ducato fu provvisoriamente affidato alle figlie Enrichetta e Amalia, prima del rientro in patria del fratello.
Il nuovo duca avviò una serie di importanti riforme, creando un Consiglio di Stato deputato alla discussione dei problemi più urgenti nel campo della politica interna e internazionale e ponendo un freno ai poteri ecclesiastici; fu inoltre soppresso il Tribunale della Santa Inquisizione. Nel 1771 Francesco III promulgò il Codice di leggi e costituzioni, col quale veniva istituito il Supremo Consiglio di Giustizia, che sovrintendeva alle sentenze emanate dai tribunali ducali. Il riformismo estense non fu gradito nella Garfagnana estense, dove la ribellione contro il carico fiscale imposto per la costruzione della strada che da Modena conduceva a Massa fu domato soltanto con l’uso delle armi. Il forte legame instaurato dagli Este con la Casa d’Austria fu sancito nel 1754 con la nomina del duca a governatore della Lombardia austriaca, in cambio del patto stipulato tra le due famiglie per le nozze della nipote Maria Beatrice, unica erede di Francesco III, con l’arciduca Ferdinando Carlo d’Asburgo.
All’inizio del secolo, le condizioni viarie della penisola italiana erano quelle ereditate dai secoli passati, soprattutto dall’antica Roma. Pochissimi, del resto, erano stati fino ad allora i viaggiatori: la maggior parte della popolazione non si spostava mai dai luoghi nativi. Col passare degli anni, crebbero i consumi e si intensificarono i commerci. Anche il numero dei viandanti aumentò in concomitanza col dilagare della moda del Grand Tour, il viaggio in Italia di forestieri attratti dalle meraviglie della natura, dell’arte e della storia del nostro Paese.
Coloro che affrontavano il Grand Tour erano giovani spinti dal desiderio di esplorare, imparare e comprendere lo spirito e la cultura degli altri paesi, ma anche desiderosi di divertirsi e dimenticare i propri affanni distraendosi con l’osservare la varietà del mondo. La conoscenza di un’arte, di una letteratura, di una musica, di un teatro, di un costume e di un folklore diversi dalla propria patria sono i motivi che spinsero i Grands Tourists ad intraprendere il viaggio nel Bel Paese, attraverso Roma, Firenze, Napoli e Venezia, tappe istituzionalizzate per la scoperta delle meraviglie d’Italia
Sorse così l’esigenza di costruire nuove strade e di ingrandire quelle esistenti.
I passi più cospicui in tal senso furono compiuti dagli stati guidati da governi riformatori, quali la Lombardia asburgica, il Piemonte sabaudo, la Toscana Lorenese, il ducato di Parma e il Regno di Napoli.
Fu rifatta completamente la via del Brennero e ingrandita quella che collegava Trieste a Vienna. Vennero ricostruite la Milano-Piacenza, la Milano-Genova, ingrandita la Bologna-Firenze, restaurata l’antica via Emilia, resa transitabile la Torino-Nizza.
Al centro sud della penisola furono collegate le città di Chieti, Teramo e l’Aquila e costruita la via delle Calabrie da Napoli a Lagonegro. Il dominio francese in Italia accelerò i progetti di ristrutturazione viaria: nel 1801 iniziarono i lavori di costruzione della strada del Sempione, voluta da Napoleone e ultimata quattro anni più tardi.
Il processo di bonifica del territorio italiano subì, nel corso del XVIII sec., una forte accelerazione, sotto la spinta degli accresciuti bisogni di una popolazione in aumento. Grandi lavori furono avviati per migliorare l’economia agricola in ampi territori paludosi del Bolognese, del Ferrarese ed in Toscana. Nuove terre furono rese idonee alla coltivazione nella pianura del fiume Po, l’area pianeggiante più vasta della penisola, ed anche nel Mezzogiorno si impose la necessità di bonifiche che favorissero lo sviluppo agricolo e il ripopolamento delle campagne.
Nello Stato Pontificio dal 1777, con Pio VI, si avviarono impegnativi progetti per sottrarre l’Agro pontino alle paludi. Man mano che i lavori procedevano, si affermavano ovunque i Consorzi di bonifica fra proprietari di terreni, destinati a svilupparsi sempre più nel secolo successivo e a divenire uno strumento fondamentale per il risanamento e la manutenzione del territorio.
Particolare cura fu riservata all’incanalamento delle acque, in modo da creare vie percorribili da barche e chiatte, nonché riserve idriche per l’agricoltura.