Prima dei Visconti, la supremazia su Milano spetta ai guelfi Torriani: instauratasi di fatto attorno al 1240, è ufficializzata nel 1257 col riconoscimento della signoria a Martino della Torre, spalleggiato dai ceti mercantili e manifatturieri contro l’aristocrazia ghibellina. Dopo lunghi contrasti, l’arcivescovo Ottone Visconti però riesce, nel 1277, a farsi nominare vicario imperiale e s’impadronisce del potere, facendosi interprete delle rivendicazioni dell’aristocrazia del contado su quella cittadina.
Dopo un breve ritorno al potere dei Torriani, con Guido della Torre, il governo visconteo è ripristinato da Enrico VII del Lussemburgo, al tempo della sua discesa in Italia, con la nomina a vicario imperiale di Matteo Visconti (1312), che detiene il potere sino alla morte, avvenuta nel 1322. La dinastia dei Visconti, fattasi a sua volta paladina degli interessi mercantili, detiene la signoria su Milano e il contado per oltre un secolo e mezzo, espandendosi a macchia d’olio, grazie anche ad un’accorta politica di alleanze matrimoniali, verso il medio e basso Po, Bologna e la Toscana.
Figlio di Galeazzo II e Bianca di Savoia, nato nel 1347 (ma secondo alcuni nel 1351), Gian Galeazzo eredita nel 1378 una parte dei domini viscontei, divisi fra suo padre, signore di Pavia, e lo zio Bernabò, brutale e violento, insediato a Milano. A nove anni sposa Isabella di Valois, avendone un figlio a quattordici: rimasto vedovo, tenta di legarsi per via matrimoniale agli Aragonesi, ma ne è impedito dallo zio che gl’impone in moglie la figlia Caterina.
Dopo aver fatto mostra di rispettare la volontà del parente, impalmando Caterina, Gian Galeazzo dà prova d’equilibrio e saggezza nell’amministrare i proprio domini, ma non desiste dall’obiettivo di formare un grande stato visconteo unificato.
Col pretesto d’un pellegrinaggio al Sacro Monte di Varese, non esita a far imprigionare lo zio Bernabò, venutogli incontro col figlio maggiore alle porte di Milano, prendendo a pretesto la sua esosità fiscale, e ad entrare trionfalmente nella città nel 1385.
Impadronitosi di Milano, Gian Galeazzo ripaga i cittadini che l’hanno accolto trionfalmente redistribuendo una parte dell’immenso tesoro accumulato dallo zio. Il suo obiettivo è creare uno stato forte e centralizzato e assicurarne l’espansione. Dà a Milano un’amministrazione ordinata, ma separata dagli organi di governo statali, favorendo i commerci.
Proibisce ai propri vassalli la costruzione di castelli e ne abolisce i privilegi speciali: istituisce un Consiglio segreto e un Consiglio di giustizia, divenendo così la sola fonte del diritto. Raccolta attorno a sé una magnifica corte, pone mano a monumenti come il castello, il duomo di Milano e la certosa di Pavia. Con due campagne-lampo conquista tutta la Lombardia orientale, eccetto Mantova. Grazie all’esborso d’una grossa somma, ottiene dall’imperatore Venceslao che il proprio stato sia innalzato a ducato ereditario di Milano (1395) e quindi di Lombardia (1397).
Stando al Giovio, è tutto dedito agli affari dello stato, alla lettura e alla meditazione, spregiando donne, cacce, giochi e giullari. Accentuando vieppiù la propria insaziabile vocazione all’espansione dei propri domini, Gian Galeazzo conquista Verona e Padova, Belluno e Feltre, estende la propria egemonia su Pisa, Lucca, Sarzana, Siena, la Maremma e Perugia, nonché su parte del Piemonte, trovando resistenza in Bologna, che cadrà in sua mano, e soprattutto in Firenze e Venezia. I suoi condottieri sono Facino Cane, Jacopo Malatesta, Jacopo dal Verme e Francesco Gonzaga. Il suo sogno (accarezzato anche dai successori Francesco Sforza e Lodovico il Moro) è riunire l’Italia e proclamarsene re: sta per attaccare anche Firenze, ma n’è impedito dalla peste che lo uccide nel 1402.
Gian Galeazzo Visconti incarna, per molti versi, il prototipo del principe rinascimentale: politico risoluto e diplomatico sottile, per cui il fine giustifica machiavellicamente i mezzi, si circonda di consiglieri fidati e assolda i migliori condottieri. Nemmeno i vincoli familiari l’arrestano nella sua scalata al potere: una volta al vertice, è tutto intento alle cure dello stato, alle fortune della dinastia, al benessere dei cittadini e a promuovere industrie e commerci.
I suoi biografi lo descrivono schivo, colto, taciturno e riflessivo, amante della lettura e protettore delle arti, alieno da avventure femminili, cacce e festini. A cavallo fra Trecento e Quattrocento, lo stato visconteo, innalzato a ducato ereditario di Lombardia, è la maggior potenza italiana: dedito esclusivamente a rafforzarlo e ingrandirlo, Gian Galeazzo avanza in Piemonte, dilaga nel Veneto ed estende i propri domini sino alla Maremma, minacciando Firenze, che con Venezia è la sua principale avversaria.
Solo la morte improvvisa gl’impedirà di coronare il sogno d’unificare l’Italia sotto il proprio scettro. Con la sua scomparsa il suo impero rischia d’andare in pezzi: ricondotto entro i confini lombardi, cadrà in mano a Francesco Sforza, fortunato condottiero e politico astuto quanto il maggiore dei Visconti
Sotto Gian Galeazzo, il ducato visconteo è divenuto la maggiore potenza politico-militare italiana, grazie anche alla posizione strategica di Milano ai piedi delle Alpi, al centro della fertile pianura padana e di una rete di strade e vie d’acqua. Alla sua scomparsa però, malgrado gli sforzi per consolidarlo, esso si rivela irrimediabilmente legato alla sua persona e rischia di sfaldarsi irrimediabilmente. Firenze respira, Venezia decide che il proprio destino si gioca sulla terraferma e s’arma per impedire il consolidarsi d’una potenza che ne possa minacciare l’esistenza.
Lo stato visconteo non è in grado di mantenere le dimensioni raggiunte sotto Gian Galeazzo: il suo nucleo storico resiste a malapena all’aggressività dei suoi ex-vassalli. L’erede di Gian Galeazzo, Giovanni Maria, rivelatosi un tiranno, è assassinato nel 1412: al potere sale il fratello Filippo Maria, nevrastenico e obeso, talmente brutto da non aver mai voluto essere ritratto, ma abbastanza accorto da dedicarsi a consolidare la macchina dello stato paterno, affidandosi per le imprese militari a un abile condottiero, Francesco Sforza, figlio del primo dei condottieri italiani, il romagnolo Muzio Attendolo Sforza, destinato a divenire suo erede. Filippo Maria, abile diplomatico, riesce pian piano a rimpossessarsi dei territori lombardi perduti e a farsi riconoscere signore di Genova (1421).
Venezia sente i propri interessi minacciati dall’acquisizione d’uno sbocco sul mare da parte del potente vicino che, conquistata Forlì (1423), mette in ansia anche papa Martino V. Alleatasi con Firenze, Venezia scende in campo contro Milano: la guerra decennale (1423-33) si conclude con la vittoria di Maclodio, presso Brescia, dove Francesco di Bussone (1380-1432), detto il Carmagnola, già al servizio dei Visconti e passato a Venezia, batte le truppe del duca di Milano.
Tuttavia i successi milanesi sui fiorentini e uno stallo dovuto alla stanchezza dei contendenti inducono alla pace di Ferrara (1433), con cui Venezia conquista Bergamo, Brescia e la terraferma sino all’Adda. Nel 1434, Filippo Maria è di nuovo in guerra contro Eugenio IV, fidando nel braccio di Francesco Sforza: ma l’astuto pontefice, mentre il condottiero avanza nello Stato Pontificio, lo sottrae al Visconti creandolo marchese di Ancona (1434).
La guerra è complicata dalla successione sul trono di Napoli di Giovanna II d’Angiò-Durazzo, morta nel 1435 senza eredi: Filippo Maria mostra tutta la propria spregiudicatezza nel sostenere prima Renato d’Angiò, poi il suo avversario Alfonso d’Aragona che, grazie all’aiuto milanese, riesce a farsi incoronare. Genova, avversa agli aragonesi, si ribella e s’unisce alla lega antiviscontea, forte dell’esperienza di condottieri come il Colleoni, il Gattamelata e lo stesso Francesco Sforza.
Questi si lascia convincere però a tornare al servizio di Filippo Maria, che lo crea marchese di Cremona e gli concede la mano della figlia Bianca Maria, inserendolo così nell’asse ereditario. La pace di Cremona (1441) sancisce la parziale sconfitta di Filippo Maria, costretto a rinunziare a Genova e a cedere a Venezia Legnago, Peschiera e Ravenna. Il duca non cessa d’adoperarsi per riconquistare i territori perduti, ma muore d’improvviso, lasciando il ducato in grosse difficoltà. Alla sua morte, scoppia una rivolta delle famiglie patrizie milanesi che proclamano la repubblica ambrosiana.
L’instabilità politica e la minaccia di Venezia inducono i maggiorenti a chiamare Francesco Sforza (1450) alla guida del ducato. Frattanto i successi veneziani provocano un ribaltamento delle alleanze: Firenze si unisce a Milano e la guerra continua, estenuante, sino alla pace di Lodi del 1454.
Figlio del celeberrimo capitano di ventura Muzio Attendolo Sforza (1369-1424), Francesco Sforza (1401-1466), a sua volta condottiero aggressivo, leale, maniaco dell’organizzazione e della disciplina, idolatrato dai suoi espertissimi soldati, rispettato da uomini della statura di Cosimo de’ Medici e Federigo da Montefeltro, è creato marchese di Ancona da un papa astuto, Eugenio IV, e di Cremona da un padrone troppo debole, Filippo Maria Visconti.
Questi, cosciente di aver bisogno del suo appoggio, gli dà in moglie la figlia Bianca Maria, facendone di fatto l’erede del proprio ducato. Alla morte di Filippo Maria, Cosimo il Vecchio incoraggia Francesco, concedendogli anche cospicui prestiti, a far sua Milano, spalleggiato dal duca d’Urbino; profittando di una sua temporanea assenza, un gruppo di patrizi milanesi insorge, proclamando la repubblica ambrosiana. Ma altri maggiorenti, spaventati dal disordine e dalla minaccia di Venezia, fanno appello allo Sforza, che si propone quale difensore della repubblica ma aspira al potere.
Ben presto, nel febbraio 1450, Francesco può fare il proprio ingresso in Milano ed entrare in Duomo a cavallo per farvisi acclamare duca. Malgrado l’imperatore gli neghi il proprio riconoscimento, lo Sforza consolida il potere alleandosi con la Francia, la Savoia, Napoli e la Firenze dei Medici, timorosi della potenza dell’ex-alleata Venezia, che aprono una banca a Milano.
La signoria di Francesco è saggia, magnanima, intraprendente e decisa; alla sua morte, nel 1466, i figli non si dimostrano all’altezza del padre e si rivelano stravaganti, brutali e mediocri. Fa eccezione il sesto figlio, Lodovico o Ludovico, del 1451, il primo legittimo nato a Francesco dopo la sua acclamazione a duca di Milano, detto il Moro verosimilmente per l’incarnato scuro (ma una tradizione più erudita vorrebbe che Moro venisse da mora, simbolo della prudenza, per il coincidere del nome del frutto col termine latino che significa attesa, indugio).
L’erede naturale di Francesco è comunque Galeazzo Maria; melomane, donnaiolo, dispotico e bigotto, infatuato di magnificenza e ostentazione, spettacoli e parate, tornei e processioni, accumula con avidità gioie e tesori. Galeazzo Maria cade pugnalato nel 1476 per vendetta, a quanto pare, da "tirannicidi" improvvisati e dalla fama ambigua.
La morte violenta di Galeazzo Maria, erede di Francesco Sforza, causa disordine e instabilità, alimentati ad arte dai nemici di Milano; profittando dei torbidi che travagliano le altre potenze italiane, Lodovico il Moro si impone allora come reggente del ducato, data la debolezza d’intelletto e di carattere del legittimo erede, il nipote Gian Galeazzo.
Imprigionatane la madre, sua cognata e vedova di Galeazzo Maria, il Moro si sbarazza del suo favorito e celebra la presa del potere con feste e spettacoli indimenticabili. Dopodiché, decapitato il severo ministro Cicco Simonetta, che ne biasima la spregiudicatezza e la prodigalità, sposa Beatrice d’Este, nipote del re di Napoli; alle nozze fanno ala cortigiani in vesti di divinità pagane e animali esotici, grazie ai costumi disegnati da Leonardo da Vinci (uno dei primi, tra i tanti artisti, a sollecitare il patrocinio del Moro), col concorso di poeti e musicisti, tra maschere, fuochi d’artificio e pantagruelici banchetti.
Intelligente, astuto, paziente, calcolatore, più portato all’intrigo che alle armi, spietato se necessario, ma lungimirante, Lodovico coltiva intensivamente la pianura lombarda, fa scavare canali, introduce nuove piantagioni (fra le quali, particolarmente importanti, il riso e il gelso), sfrutta le risorse minerarie del territorio, ricco di ferro. Incoraggia il commercio e l’industria: protegge artisti e sapienti, architetti come Bramante; il suo interesse per Leonardo riguarda non tanto l’artista, quanto e soprattutto l’ingegnere, l’architetto civile e militare, in una parola l’inventore.
I nemici del Moro sono Venezia, la Francia, l’impero e i cantoni svizzeri. Con Lorenzo de’ Medici e Ferrante re di Napoli ha stretto un’alleanza intesa a tenere a bada i nemici, interni ed esterni, dell’equilibrio italiano, e soprattutto la minaccia che viene d’oltralpe.
Tuttavia Lodovico, duca di Milano di fatto ma non di diritto, paventa i disegni neanche tanto occulti di potenze che, come Napoli, la Francia e l’impero, possono da un giorno all’altro rivendicare a sé, accampando diritti ereditari o feudali, il ducato da lui usurpato. In un equilibrio sempre più instabile, il Moro profitta delle mire di Carlo VIII sul regno di Napoli, promettendogli appoggio e via libera se il re francese ne sosterrà la nomina a vicario imperiale di Milano (titolo che otterrà dall’imperatore Massimiliano nel 1494, anno della discesa di Carlo in Italia).
Un colpo di fortuna; muore il nipote Gian Galeazzo e Lodovico è acclamato duca a tutti gli effetti. Ottenuto il suo scopo, abbandona al suo destino Carlo d’Angiò in ritirata da Napoli, salvo poi tornare a sostenerlo una volta che questi è rientrato in Francia.
Milano e il ducato conoscono la massima prosperità; ma la morte colpisce prima Beatrice, che muore di parto, poi Carlo VIII, l’alleato. Il suo successore, Luigi XII, rivendica a sé Milano in quanto nipote di Valentina Visconti, e gli stati italiani lo spalleggiano; nel 1499 i francesi sono davanti a Milano e Lodovico ripara in Tirolo presso Massimiliano.
La città è occupata; ma i milanesi insorgono e Lodovico torna nel 1500. Ecco però i francesi tornare all’assalto; il Moro, fatto prigioniero, è portato in Francia, dove muore nel 1508 in un buio sotterraneo del castello di Loches.
Il ducato di Milano diviene la pedina del grande giuoco tra Francia e impero. Massimiliano Sforza, figlio di Lodovico, è reinsediato dalle lance degli svizzeri, mercenari degli Asburgo, ma il successore di Luigi XII, Francesco I, dopo la vittoria di Marignano (l’odierno sobborgo di Melegnano), del 1515 lo rimuove e lo "pensiona" in Francia. Carlo V, deciso ad espellere i francesi dalla Lombardia, batte Francesco a Pavia nel 1525; Milano passa alla Spagna, perdendo l’indipendenza sino al 1859.