In un mondo che rimane per tutto il Medioevo fondamentalmente rurale, il secondo millennio si apre sotto il segno dello sviluppo urbano. Che si tratti della rinascita delle vecchie città romane - particolarmente numerose in Italia - o della formazione di nuovi agglomerati - più frequente nell'Europa centro-settentrionale - si impone con forza sempre maggiore una realtà inedita. La città riprende tutta la sua funzione di centro politico; amplia il suo controllo sul territorio circostante e diviene il nodo di relazioni economiche in espansione. All'interno delle sue mura, prende forma una società i cui personaggi principali sono gli uomini d'affari, ma anche i professionisti del diritto e gli intellettuali; una società che considera come valori la ricerca del profitto, il lavoro, il senso della bellezza e l'aspirazione all'ordine e al decoro.
L'Europa delle città
Fra il X e il XIV secolo si verificò una forte espansione delle città. Fu un fenomeno spettacolare e nuovo, che cambiò la fisionomia dell’Europa. Fu anche un fenomeno complesso, dato che nella formazione delle città medievali nessun esempio sembra uguale all'altro. Oltre a quelle mantenutesi tali nell'alto Medioevo, alcune città nacquero dall'evoluzione di centri di mercato o di castelli, altre da centri fortificati per motivi militari, altre ancora dallo sviluppo di località, tappe dei pellegrinaggi, o dalla programmata decisione di un signore. Indubbiamente, si trattò di un processo favorito dalla crescita economica: l'accresciuta produzione agricola permetteva di nutrire una popolazione in aumento, mentre le attività artigianali occupavano un numero crescente di uomini e donne; lo slancio delle costruzioni attirava in città una più numerosa manodopera e le esigenze del commercio ne facevano un polo degli scambi.
La crescita demografica delle città si sviluppò con forza nella seconda metà dell’XI secolo e raggiunse un livello straordinario a partire dalla metà del secolo successivo, con percentuali d'incremento spesso doppie rispetto a quelle registrabili nelle campagne. Perché questa differenza? Vi erano in città tassi di natalità particolarmente alti rispetto al territorio? O tassi di mortalità più bassi? Nessuna di queste due ipotesi può essere dimostrata. In realtà, tutte le testimonianze disponibili inducono a credere che le popolazioni cittadine si accrebbero soprattutto grazie al trasferimento entro le mura di gente venuta dal contado. Questo
movimento interessò sia i ceti più alti, gli esponenti dell'aristocrazia signorile, sia i contadini (poveri o agiati che fossero), sia quei personaggi di matrice più spiccatamente "borghese" come usurai e notai. Ci si dovrebbe allora chiedere il perché di quest’attrazione esercitata dalle città. I motivi sono di ordine economico, sociale e anche psicologico. Le città rappresentavano un mondo "altro", con possibilità di ascesa economica, sociale e politica diverse, con stili di vita differenti. "L'aria delle città rende liberi", diceva un proverbio tedesco, ed effettivamente i contadini che arrivavano in città lo facevano spesso anche per ricominciare un'esistenza libera dagli obblighi e dai vincoli di dipendenza, cui dovevano sottostare nelle campagne. Chi aveva capitali da far fruttare, d'altra parte, in città li poteva impiegare con maggior profitto nelle attività mercantili e manifatturiere. L'immigrazione dal territorio rendeva naturalmente più composita la compagine sociale della città, perché, in ogni caso, metteva in contatto due mondi diversi.
La realtà urbana
Il concetto di città è, per il Medioevo, molto più complesso di quanto possa a prima vista apparire, perché era il risultato del concorso di fattori molto diversi. Dal punto di vista ecclesiastico, come scriveva Jacopo da Varagine negli ultimissimi anni del Duecento (ma la sua idea era universalmente condivisa), una città non poteva dirsi veramente tale se non era sede di un vescovo. Dal punto di vista civile, il territorio, che alla città faceva capo, doveva trascendere l'ampiezza di una semplice circoscrizione castellana e anzi coincidere, di regola, con la diocesi stessa. Nel suo aspetto materiale, salvo il caso particolarissimo di Venezia, che fu sempre protetta dal mare, la città si distingueva dalla campagna e dagli abitati aperti per la presenza di mura. La loro possente mole salvaguardava i cittadini dai pericoli esterni e, al tempo stesso, ne limitava, quando era opportuno, la libertà di uscire: per questo, ogni volta che la popolazione urbana crebbe, le mura dovettero, prima o dopo, essere allargate per accoglierla tutta all’interno.
Le porte che nella cinta muraria si aprivano, allo stesso modo, mettevano in comunicazione città e territorio, ma permettevano anche di filtrare il movimento di uomini e merci che fra questi due mondi si svolgeva. Sotto il profilo sociale, la città era contraddistinta da una popolazione articolata e stratificata in nobili, ricchi, poveri, mediani; in mercanti, artigiani, bottegai, professionisti, salariati, vagabondi, disoccupati.
È questo un tratto che risultava particolarmente accentuato nelle città italiane rispetto a quelle delle altre regioni europee. Dal punto di vista economico, essa si presentava distinta dal territorio circostante per la presenza non solo di attività mercantili e manifatturiere, ma anche di mercati e fiere, per la sua capacità di porsi come fulcro di relazioni economiche, nonché come centro delle ricchezze di un territorio.
La città, per essere veramente tale, doveva anche essere percepita come civitas sia da chi viveva dentro le sue mura, sia dagli abitanti delle campagne e degli altri centri urbani, sia dai poteri superiori come il papato, l'impero e i regni, le cui cancellerie erano in genere abbastanza caute nell'uso del termine. A tale proposito, Roberto Sabatino Lopez, un grande storico del XX secolo, parlava un po' provocatoriamente della "città come stato d'animo". Più recentemente, un altro grande maestro della storia medievale, Jacques Le Goff, sottolineava come - a qualificare una città in quanto tale agli occhi dei suoi abitanti - concorrevano anche le memorie di un passato più o meno remoto, qualche volta addirittura mitico. Comune era, per esempio, il richiamo alle origini etrusche, romane e carolingie.
A dare corpo a queste memorie vi era, per le città più antiche, la sopravvivenza dei segni fisici del passato: la presenza delle rovine di templi, teatri, anfiteatri, statue e tratti di mura costituiva per gli abitanti delle città medievali un continuo rimando ad un mondo più lontano, una fonte inesauribile per alimentare di rappresentazioni e di miti l'immaginario urbano.
Le molteplici forme urbane
Le città medievali presentavano ogni forma possibile così da adattarsi liberamente a tutte le circostanze storiche e geografiche. Troviamo quindi città lineari, ossia allineate lungo una strada, città nucleari, sorte cioè intorno ad un elemento generatore (un castello, un'abbazia, una cattedrale), città circolari, dove tutte le linee convergevano verso un centro, città ortogonali, la cui regolarità era normalmente l'indizio di una fondazione programmata; in ogni caso, la maggior parte dei centri urbani risultava dalla combinazione di queste diverse tipologie. Oltre alla presenza delle mura, erano elementi comuni delle città medievali la cattedrale, il mercato e i palazzi del potere civile. Spesso questi tre elementi, che sintetizzavano la pluralità delle funzioni caratteristiche dei centri urbani, si svilupparono intorno ad altrettanti spazi vuoti, ad altrettante piazze. Talvolta, invece, un'unica piazza vedeva convivere la sede dell'attività economica con quelle dell'autorità politica e religiosa.
Rispetto alla situazione delle campagne europee, l'Italia presenta una forte peculiarità. Già a partire dal XII sec., nel gioco dei rapporti interni alla società rurale si inserirono sempre più frequentemente le città, via via più vivaci sotto il profilo economico e rese politicamente autonome dallo sviluppo delle istituzioni comunali. Da un lato esse costituivano poli di immigrazione per i contadini che vi intravedevano la possibilità di nuove attività economiche e il miraggio della libertà personale, dall’altro avevano un interesse crescente a controllare le campagne, da cui traevano il loro approvvigionamento agricolo.
In molti casi la penetrazione cittadina nei territori circostanti portò alla liberazione dei servi e al ridimensionamento dei poteri signorili sulla terra, ma la subordinazione politica ed economica dei contadini nei confronti dei proprietari terrieri si trasferì quasi per intero nelle mani della città.
La liberazione dei servi
È difficile dire quale fosse, nei secoli XII e XIII, la percentuale di contadini che erano sfuggiti al regime signorile e restavano uomini liberi o quella di coloro che, pur dipendendo da un signore, coltivavano le sue terre con un contratto. Indubbiamente, malgrado le trasformazioni avvenute nel loro status giuridico, esistevano ancora individui in condizione di servitù. Sempre più spesso, tuttavia, essi riuscivano a riconquistare la libertà.
Ciò accadeva in vari modi: con la fuga in città, dove era più difficile che i padroni potessero riprenderli e dove comunque, dopo un certo tempo, divenivano giuridicamente liberi; attraverso l'intensificarsi della secolare lotta condotta dalle comunità di villaggio, che, pur continuando a giurare fedeltà a un signore, ottennero le "carte di libertà", con le quali diritti e doveri reciproci vennero messi per scritto; attraverso il riscatto individuale, dietro pagamenti in denaro o il trasferimento di terre al signore; infine, attraverso le liberazioni collettive. È in quest'ultimo tipo di iniziative che si distinsero le città italiane. Ben conosciuto è il caso del comune di Bologna che, tra il 1256 e il 1257, riscattò 5791 servi pagando ai loro proprietari una somma di denaro. Le motivazioni ufficiali di questi provvedimenti erano di natura ideologica ("l'uomo nasce libero"), ma sappiamo che dietro di esse vi erano intenti meno nobili, come quello di evitare un eccessivo afflusso di contadini in città o quello di fare degli ex-servi, che come tali non pagavano le tasse al comune cittadino, dei nuovi contribuenti.
Il nuovo paesaggio agrario
Nel corso del XIII secolo, cominciarono a crescere anche gli investimenti cittadini nelle campagne e con essi si diffusero nuovi tipi di contratti agrari. Tra Due e Trecento, si moltiplicarono gli affitti di terra a scadenze sempre più brevi, pagati con un canone in natura o in denaro o con una quota del prodotto.
Definiti canoni parziari, essi si diffusero, oltre che in Italia, anche in altre regioni dell'Europa mediterranea. Nella penisola, e soprattutto nella sua parte centro-settentrionale, una delle forme tipiche dei contratti agrari fu quella della mezzadria. Pur nelle sue diverse varianti, questo contratto prevedeva che il coltivatore dovesse ricevere dal proprietario, oltre alla terra, anche una casa dove abitare, il bestiame e gli attrezzi da lavoro; al proprietario spettava, invece, ogni anno la metà del raccolto, oltre a varie aggiunte in natura.
La compartecipazione della famiglia contadina alla divisione del prodotto aveva l’effetto di stimolare i coltivatori a una maggiore produttività, mentre il desiderio di disporre di prodotti diversi per l’autoconsumo si traduceva nell’affermazione della "coltura promiscua", ossia la coltivazione integrata di cereali, ortaggi e alberi da frutto. Alla diffusione della mezzadria si accompagnò, a partire dal Trecento, una profonda trasformazione del paesaggio agrario, particolarmente evidente nelle campagne toscane, nota come "appoderamento".
A ogni singola famiglia di mezzadri veniva affidato un podere, ciò che permetteva ai contadini di abitare in mezzo ai coltivi, anziché nei villaggi o addirittura in città. Questo incideva, fra l’altro, sulla composizione della famiglia contadina: il podere, infatti, rappresentava un complesso di prati, campi, pascoli e vigne, mentre la casa a cui esso faceva capo poteva ospitare un gran numero di persone.
Il podere (a seconda delle regioni fattoria o cascina) incoraggiava i mezzadri a tenere con sé i propri figli, anche quando questi erano ormai adulti e sposati, perché, associandosi con i fratelli, potevano continuare la tradizione paterna senza dover cercar fortuna ognuno per conto proprio.
Differenziazione sociale nelle campagne italiane
I processi che si innescarono nelle campagne italiane fra XIII e XIV secolo accelerarono il dinamismo della società rurale, limitando il potere dei signori e rimettendo in circolazione terre e uomini. L'esempio delle campagne italiane mostra però in maniera molto chiara che a una maggiore libertà giuridica della proprietà e dei contadini si accompagnava una sempre più forte differenziazione sociale e una crescente proletarizzazione contadina. A partire dal XIII secolo, il mondo contadino diventò sempre più campo di sfruttamento per usurai, ebrei e mercanti. Anche per i lavoratori della terra il bisogno di denaro, necessario per migliorare l’azienda, acquistare bestiame, terre e attrezzi, era cresciuto. Molti contadini ricorsero ai prestatori che fornivano liquidità, contraendo prestiti che spesso venivano rimborsati in grano (al prezzo del mese di maggio) per l’acquisto di un bue, di un asino, di una casa. A loro volta impegnavano i pochi beni di cui erano in possesso, ma spesso ipotecavano anche il futuro, talvolta il raccolto di un certo numero di anni, che sarebbe servito a restituire a rate il debito. La mancata corresponsione degli interessi consentiva al creditore di impadronirsi del bene ipotecato (solitamente era la rendita). Questo consentì ai signori di impossessarsi progressivamente di "quote azionarie", di prendere parte alla produzione agricola come investitori e di decretare così la morte progressiva delle piccole aziende contadine. Altre volte ad arricchirsi fu un limitato numero di contadini, che andò a costituire un ceto di privilegiati al di sopra della grande massa dei rustici.