«Due cose riempiono l'animo di ammirazione e di venerazione sempre nuove e crescenti, quanto più sovente ed a lungo si riflette sopra di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me» (Kant, Critica della ragion pratica, in Scritti morali, p. 313).
Questi celebri passi di chiusura della Critica della ragion pratica sarebbero stati incisi sulla lapide della tomba di Kant.
Il «cielo stellato» congiunge il posto occupato da ciascuno di noi nel mondo con l'ampiezza sconfinata dell'universo; la «legge morale» unisce gli uomini nell'infinito valore di un principio che li eleva dalla condizione puramente sensibile, fenomenica e naturale fino a quella noumenica della libertà e di qui a postulare l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio.
Sempre nella Critica della ragion pratica, Kant definisce sublime la moralità e, come già aveva spiegato fin dalle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime del 1764, se bello è il giorno, sublime, invece, al pari del dovere, è la notte, «il cielo stellato» appunto.
Lo stesso sentimento di ammirazione e venerazione si rivolge così al mondo della natura, come al mondo dell'uomo; tanto al regno governato dalla necessità del principio di causa ed effetto, quanto al regno governato dalla libertà che la moralità ci fa conoscere.
È un sentimento, insieme a una capacità dell'uomo di riflettere sul suo ruolo e sulla natura, a generare così un incontro tra due mondi - incommensurabili -, che pur convivono nell'uomo: quello del conoscere, fondato dalla Critica della ragion pura, e quello del volere, fondato dalla Critica della ragion pratica.
Questi temi trovano un loro approfondimento nella terza e ultima opera fondativa kantiana, la Critica della capacità di giudizio (in tedesco Kritik der Urteilskraft, ove Urteil è il «giudizio», mentre il suffisso Kraft indica una «capacità», una «facoltà», di qui talvolta la traduzione in italiano anche di Critica del Giudizio), pubblicata nel 1790.
Con questo scritto Kant completa la sua indagine sondando altre esperienze vitali ed essenziali dell'uomo, investigando più a fondo la nostra capacità di giudizio, per come essa è in grado sia di mediare tra intelletto e ragione, sia di dialogare, per il tramite dell'immaginazione, con la sensibilità.
Come sappiamo dalla prima Critica, la capacità umana di giudicare è, in generale, la facoltà di pensare qualcosa di particolare come contenuto in un universale.
Kant chiama determinante quella capacità del giudizio di sussumere il particolare (una intuizione o un concetto) entro un universale dato dall'intelletto (un concetto generale o una categoria). Di questo genere sono dunque tutti i giudizi, più o meno particolari che siano, che cadono entro la legislazione dei principi puri dell'intelletto, ad esempio tutti i giudizi di causa ed effetto.
Il giudizio determinante esprime così la capacità umana di applicare al particolare conoscenze universali, nel caso specifico studiato nella prima Critica di giudicare il particolare sensibile secondo regole, ossia attraverso gli schemi dell'immaginazione e i principi dell'intelletto. Giudizi determinanti sono così tutti i giudizi scientifici e conoscitivi in generale.
Kant definisce invece riflettente quella capacità che il giudizio possiede di trovare per un particolare dato un universale, quando questo non è fornito dall'intelletto. La capacità di giudizio, svincolata allora da regole, riflette sugli oggetti sulla base di un principio che essa dà a priori a se stessa, la finalità.
La capacità di giudizio riflettente pensa così il mondo dotandolo di senso, trovandolo in accordo o in disaccordo con le facoltà umane, oppure come dotato di una propria finalità. Se la finalità è riferita solamente al soggetto, per il piacere o dispiacere suscitato dalla rappresentazione di un oggetto, il giudizio riflettente è un giudizio di gusto sul bello, sul brutto, sul sublime; se la finalità è riferita alla natura e ai suoi oggetti di per se stessi, il giudizio riflettente è un giudizio teleologico (dal greco télos, «fine» e logos, «discorso», «ragione», «teoria sulla finalità», ossia di finalità in senso proprio).
La capacità di giudizio riflettente non determina però i fenomeni, non è così costitutiva di conoscenze, ma apre uno spazio di esperienza in grado di proiettare il mondo puramente intelligibile della libertà e della volontà sul mondo fenomenico della necessità naturale.
Per la capacità di giudizio riflettente la natura diviene infatti oggetto di godimento disinteressato: essa è bella, brutta o sublime. Nel bello dell'arte trova manifestazione la libertà umana nella forma della creatività e della genialità.
Di rimando, anche la natura cessa di essere vista come un puro meccanismo di cause ed effetti e si lascia pensare come un'opera d'arte, dotata di finalità e regolarità, nella quale i corpi organizzati mostrano la meraviglia dei loro funzionamenti vitali e dove l'essere umano può abbandonarsi a riflettere sul fine ultimo, spingendosi all'idea di un creato e del suo fattore:
«Ora, sebbene vi sia un incommensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura, o il sensibile, e il dominio del concetto della libertà, o il soprasensibile [...] tuttavia il secondo deve avere un influsso sul primo, cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo posto mediante le sue leggi, e la natura, per conseguenza, deve poter essere pensata in modo che la conformità alle leggi [...] possa almeno accordarsi con la possibilità degli scopi, che in essa debbono essere realizzati secondo le leggi della libertà» (Kant, Critica del Giudizio, p. 21).
La Critica del Giudizio si compone di due Critiche: una Critica del giudizio estetico e una Critica del giudizio teleologico. L'analisi del giudizio estetico, da intendere nel senso specifico di giudizio di gusto sul bello - e non nel senso di teoria della sensibilità dell'Estetica trascendentale, trattata nella prima Critica - è la sezione della terza Critica che sarebbe stata maggiormente recepita, soprattutto da parte del Romanticismo tedesco.
Essa è stata anche la prima sezione redatta da Kant mettendo a frutto un confronto con un ampio dibattito filosofico che aveva suscitato il suo più vivo interesse, almeno fin dagli anni Sessanta, quando egli aveva allargato il suo confronto anche alla filosofia inglese.
Ad ogni modo a lui ben noto era Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762), nel cui pensiero convergeva la riflessione di Leibniz e la tradizione illuminista tedesca wolffiana, il quale aveva scritto nel 1750 un'opera fondamentale interamente dedicata al giudizio di gusto, l'Aestetica. Secondo Baumgarten l'arte, a differenza di quella oscura dei sensi, veicola una conoscenza chiara seppur ancora confusa e non distinta come quella intellettuale.
Secondo questa influente concezione, il bello è perfezione, sui cui canoni, come ricorda Kant, peraltro avaro di altri riferimenti diretti, avevano dibattuto con riflessioni fortunate Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) nel Laocoonte, ovvero sui confini tra poesia e pittura, del 1766, e il filosofo e letterato francese Charles Batteux (1713-1780), nella sua opera Le belle arti ridotte a un solo principio (1746). Sul valore esemplare dell'antichità classica aveva poi scritto un'opera importante, Storia dell'arte dell'antichità del 1764, anche il filosofo e teorico dell'arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768).
Ma negli anni immediatamente precedenti alla scrittura della terza Critica anche altre voci, dissonanti e innovative, erano entrate nella discussione, ponendo il problema dell'arte, della poesia al centro di una rivoluzione culturale, critica degli schemi razionalistici della tradizione illuminista. Faceva infatti appello all'istinto e alla passione il movimento dello Sturm und Drang («Tempesta ed impeto»), esploso in Germania negli anni Settanta e animato da figure come Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) e Johann Gottfried Herder (1744-1803), che era stato anche allievo di Kant. Ancor prima, un altro dei maestri di Herder a Königsberg, Johann Georg Hamann (1730-1788), nell'Aesthetica in nuce del 1762 aveva difeso la funzione di verità del linguaggio della poesia e l'inseparabilità di razionalità e sensibilità.
Rispetto a questa ampia e articolata discussione, l'opera di Kant si pone come un termine di confronto, anche in questo caso rivoluzionario, in grado di spostare l'analisi dal problema dell'arte bella a quello del fondamento del godimento estetico, incentrando l'indagine sul soggetto che fruisce, che fa esperienza del bello.
A questo riguardo, nella Critica del Giudizio, Kant fa i conti anche con quanto fino a poco tempo prima egli stesso pensava in accordo stavolta con un'altra tradizione di pensiero, quella empirista britannica di Shaftesbury, Hutcheson, Hume, Burke, che del sentimento aveva invece fatto l'esclusivo canone del giudizio di gusto.
Nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime del 1764, Kant, pronunciandosi per la prima volta su temi estetici, mostrava di essere vicino proprio a questa concezione, parlando del bello come di un piacere calmo e del sublime come di un sentimento misto di attrazione e repulsione, trattandoli come giudizi, per quanto affinati e complessi, di derivazione empirica e soggettiva.
Ancora, nel 1781, nella Critica della ragion pura, Kant dichiarava che ogni sentimento di piacere e di dispiacere non poteva che avere un'origine impura, tale da rendere i nostri giudizi di gusto irrimediabilmente a posteriori.
Nel frattempo nella Critica della ragion pratica, Kant aveva rintracciato nell'animo umano un sentimento puro generato dalla legge morale: il rispetto.
Nella Critica del Giudizio, Kant ci mette innanzi a un imprevisto e definitivo ampliamento di prospettiva: contro quanto sostenuto nella prima Critica, anche il piacere e il dispiacere hanno un'origine pura, interna, non derivata dai sensi, nei giudizi di gusto.
A differenza dei razionalisti come Baumgarten, il giudizio estetico per Kant non è dunque conoscitivo ed esprime soltanto un sentimento del soggetto.
Contro Lessing e Batteux, Kant sostiene che non esiste una scienza del bello, perché non esistono canoni e regole dell'arte bella, semplicemente perché i giudizi di gusto non esprimono niente di oggettivo, niente di conoscitivo, niente di vero o falso, bensì un semplice sentimento di piacere che sorge nel soggetto:
«Per discernere se una cosa è bello o no, noi non riferiamo la rappresentazione all'oggetto mediante l'intelletto in vista della conoscenza; ma, mediante l'immaginazione […] la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di conoscenza […] ma è estetico; il che significa che il suo fondamento non può essere se non soggettivo». (Kant, Critica del Giudizio, p. 71)
Ma a differenza degli empiristi e di come per molto tempo egli stesso aveva pensato, il sentimento, che accompagna i giudizi di gusto, ha un fondamento a priori nel principio di finalità e dunque avanza la pretesa di valere universalmente e necessariamente.
Kant inizia studiando il giudizio di gusto sul bello secondo le quattro forme logiche del giudizio individuate dalla prima Critica, quantità, qualità, relazione, modalità.
Secondo qualità, il particolare sentimento di piacere, che è alla base dei giudizi di gusto sul bello, è disinteressato.
Vale a dire che il bello piace in maniera diversa da quel che Kant propone di chiamare semplicemente piacevole, il quale genera invece dipendenza, desiderio e vincola, come si è visto a proposito del campo morale, il nostro volere al suo raggiungimento. A piacere come bello non è infatti un oggetto, ma la sua rappresentazione.
Il bello piace, inoltre, liberamente senza riguardo alla volontà e all'agire, perché è un godimento puro. Il bello è diverso così anche dal buono, perché non indica né un mezzo, né un fine da raggiungere, ma sorge dalla semplice rappresentazione dell'oggetto, senza considerazioni ulteriori:
«Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere o un dispiacere, senza alcun interesse. L'oggetto di un piacere simile si dice bello». (Kant, Critica del Giudizio, p. 87)
Secondo quantità, il bello è ciò che piace universalmente senza concetto, senza un perché, vale a dire che piace senza dipendere da un motivo che può essere ricercato nella conoscenza dell'oggetto. Il giudizio di gusto può rivendicare tale universalità proprio perché il motivo del piacere non risiede in qualcosa che è un contenuto materiale della sensazione, a differenza del piacevole che è oggetto di interesse e desiderio. Il bello come piace a noi, così deve piacere a tutti.
Per Kant sarebbe perciò sbagliato definire bella una cosa, per poi precisare, «per me», perché in questo caso sarebbe più corretto dire semplicemente che ci piace, ci diletta e non che è bella. Allorché usiamo il termine «bello» pretendiamo infatti che tutti gli uomini provino lo stesso sentimento dinanzi alla rappresentazione dell'oggetto che giudichiamo bello.
È come se ad esso si attribuisse una qualità che anche tutti gli altri dovrebbero essere in grado di percepire, come se l'avessimo qualificato determinandolo utile, piccolo ecc. L'universalità dei giudizi di gusto è però soltanto una pretesa: a differenza dei giudizi conoscitivi di esperienza fondati sull'intelletto, i giudizi di gusto possono anche non coincidere, risultare vari e diversi e, ciò nondimeno, ciascuno richiederà per il suo giudizio un consenso universale.
A fondamento dei giudizi di gusto e dunque a causare il sentimento di piacere non è infatti un sentimento che nasce dall'esterno, come nel caso del piacevole, bensì dall'accordo (una finalità) della rappresentazione di un oggetto con le facoltà conoscitive, l'immaginazione e l'intelletto, di cui tutti gli uomini sono dotati: «Ciò avviene effettivamente sempre quando un oggetto dato, per mezzo dei sensi, stimola l'immaginazione alla composizione del molteplice e l'immaginazione a sua volta eccita l'intelletto all'unificazione in concetti del molteplice stesso» ( Kant, Critica del Giudizio, p. 87).
Diversamente dal giudizio determinante, l'immaginazione non si trova imbrigliata dai concetti dell'intelletto, ma istituisce un dialogo continuo con la facoltà di pensare, stimolandola ad elaborare in un «libero gioco», privo cioè di interessi pratici o conoscitivi, concetti adeguati ad afferrare un contenuto, che sfugge a una completa comprensione entro rappresentazioni universali definitive.
Comunicabile e universale non è dunque il privato sentimento di piacere, ma questo stato d'animo che lo origina, di cui tutti gli uomini possono avere esperienza in quanto dotati delle medesime facoltà conoscitive.
Nel terzo momento dell'analisi del giudizio di gusto, Kant studia il piacere in relazione allo scopo. Il bello piace soltanto per una finalità che è relativa alle nostre facoltà. Il bello piace così senza scopo, ossia non perché utile o perché segue dei canoni oggettivi: non c'è una regola del bello, né la bellezza deve essere perfezione come vorrebbe Baumgarten.
Ciò non significa che in un giudizio estetico non possano anche entrare considerazioni sull'utilità di un'opera, sullo scopo che l'artista voleva perseguire. Tuttavia queste considerazioni possono sempre essere isolate dal giudizio che segue dalla pura fruizione estetica, che concerne l'esclusivo godimento del bello.
Si possono comunque distinguere due specie di bellezza: la bellezza libera e la bellezza aderente. La prima non ha modelli e non vuole riferirsi a niente; la seconda intende riferirsi invece a un modello:
«Così i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie per se stessi non significano nulla, non rappresentano nulla, nessun oggetto sotto un concetto determinato, e sono bellezze libere.
Si possono considerare come della stessa specie quelle che in musica si chiamano fantasie (senza tema) ed anche tutta la musica senza testo. […] Ma la bellezza di un essere umano, la bellezza di un cavallo, di un edificio, presuppone un concetto di scopo, che determina ciò che deve essere».( Kant, Critica del Giudizio, p. 127)
Nei casi di bellezza aderente, ai giudizi di gusto si affiancano inevitabilmente anche giudizi dell'intelletto circa l'adeguatezza al modello. Benché il bello non abbia regole o canoni, è possibile dunque, mediante l'arte e l'immaginazione, esibire anche ideali e valori.
L'arte non è infatti puro disimpegno; con essa è possibile rendere sensibile persino il più alto ideale di bellezza che è la moralità di cui è portatore l'uomo.
Per quanto riguarda il quarto momento che valuta il giudizio di gusto secondo la modalità, Kant osserva che il bello è riconosciuto essere l'oggetto di un piacere necessario, ossia di un sentimento che tutti gli uomini dovrebbero provare dinanzi alle cose belle.
L'universalità e la necessità del giudizio di gusto fanno pensare a Kant che il sentimento puro di piacere sia connesso con una sorta di senso comune estetico, legato al libero gioco delle facoltà conoscitive dell'immaginazione e dell'intelletto che fa sì che esso non sia legato alla storia, alla cultura e alla moda. Il giudizio estetico, afferma Kant, è per sua natura soggettivo e pluralistico al tempo stesso, perché richiede di essere condiviso e discusso, a prescindere da ogni considerazione di tempo e di luogo.
Anche il sublime, come il bello, piace per se stesso; ma piace in maniera ambivalente, attraendo e respingendo al contempo il soggetto. Nel sublime il piacere non è accompagnato da gioia, ma piuttosto da meraviglia e stima.
Se il bello riguarda qualcosa che è limitato, il sublime ha per oggetto l'illimitato. Se il bello istituisce un «libero» gioco delle facoltà, il sublime richiede invece impegno e sforzo. L'analisi di Kant distingue tra un sublime matematico e un sublime dinamico.
Nel primo caso entrano in rapporto tra di loro l'immaginazione e le facoltà di conoscere, nel secondo l'immaginazione e la volontà.
Il sublime matematico riguarda l'infinito, la grandezza, ciò che è smisurato, che genera una sproporzione tra l'immaginazione e la facoltà di pensare che rivendica così la sua superiorità sulla sensibilità. Il sublime è così l'assolutamente grande; non è una grandezza che si misura con concetti, a posteriori, bensì a priori, proprio per un difetto del giudizio del soggetto, in grado di mostrare i limiti della sua capacità di immaginare.
Come esempi di sublime nell'arte, Kant menziona i resoconti di coloro che si sono trovati di fronte alla grandezza delle Piramidi egizie o alla chiesa di San Pietro a Roma e al turbamento creato dall'insufficienza e dall'inadeguatezza dell'immaginazione a rappresentarsi il tutto.
Ma veramente e propriamente sublimi per Kant possono essere soltanto i prodotti della natura, «in quei suoi fenomeni, la cui intuizione include l'idea della sua infinità», come il cielo stellato, gli spazi infiniti, le costellazioni, di cui è impossibile formare una rappresentazione sensibile adeguata e che invece la nostra capacità di pensare è in grado di abbracciare.
Il sublime dinamico riguarda invece la forza della natura, la sua capacità di sconvolgere e annientare tutto. In tal caso si genera un contrasto fra il sentimento di limitatezza e debolezza che proviamo di fronte alla grandezza e alla potenza degli elementi naturali e l'opposta consapevolezza della superiore finalità morale dell'uomo, che ei eleva sopra tutto il mondo fenomenico.
Affinché il sentimento del sublime possa sorgere, la natura deve essere dunque avvertita come una potenza smisurata che tuttavia non ha potere su di noi: deve intimorirci ma al tempo stesso risultare incapace di nuocerci.
Quando al riparo di una solida casa, assistiamo allo spettacolo minaccioso di un temporale, le forze scatenate della natura, incapaci di nuocerci, sono in grado di elevarci alla considerazione della superiorità morale dell'uomo, rispetto a tutto ciò che è puramente naturale:
«Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice […] l'immenso oceano sconvolto dalla tempesta, riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché elevano le forze dell'anima al disopra della mediocrità ordinaria». (Kant, Critica del Giudizio, p. 195)
Il sublime dinamico ci mette innanzi alla nostra debolezza fisica mostrandoci nel contempo la nostra indipendenza dalla natura, incitandoci a considerare insignificanti le cose che ci preoccupano e scoprire l'autonomia che ci è data dalla ragion pura pratica, la moralità.
I giudizi di gusto sono riferibili alla natura, come alle opere dell'uomo. L'arte umana, che definiamo bella, è distinta dalla natura, perché è determinata da un'intenzione, da un volere, da una finalità riconoscibile nell'opera, che richiede dunque una sapienza produttiva, non semplicemente teoretica (contemplativa) o pratica (rivolta ad agire).
L'artista, a differenza del semplice artigiano, produce non solamente per lucro ma anche per diletto, né si accontenta di azioni ripetitive e canoniche. Il suo scopo è quello di produrre piacere, nel senso di godimento estetico e non cose meramente piacevoli.
Secondo Kant l'arte bella è frutto del genio, perché è priva di regole e di canoni. Il genio artistico è un talento, un dono di natura che comporta anzitutto originalità, vale a dire capacità di fornire e indicare sempre nuovi e diversi criteri di bellezza, rinnovando e rendendo ogni volta inesauribile l'esperienza estetica.
Solo l'artista, non lo scienziato, è geniale e il suo compito è produrre idee estetiche per il tramite dell'immaginazione, ossia rappresentazioni di concetti in grado di dar luogo «a pensare in un concetto molte cose inesprimibili, di cui il sentimento vivifica le facoltà conoscitive».
Kant le chiama idee al pari dei contenuti trascendenti della ragione (Dio, l'anima e il mondo), perché anch'esse inafferrabili dall'intelletto, ma capaci di creare un libero gioco tra le facoltà umane.
Kant definisce la finalità dei giudizi di gusto soggettiva e formale, ossia non reale (o materiale), perché non è riferita direttamente ad oggetti, ma a rappresentazioni di oggetti ed esclusivamente in virtù del loro accordo (finalità) con le nostre facoltà. La finalità che la capacità di giudizio riflettente attribuisce alla natura è invece oggettiva e può essere:
• formale, ossia, da considerarsi esclusivamente in relazione alle nostre facoltà;
• materiale, ossia reale, indipendente da esse.
Formale ed oggettiva è quella finalità che Kant annuncia fin dall'Introduzione della Critica del Giudizio per il grande valore regolativo che essa assolve nelle scienze. In questo caso, il giudizio riflettente concepisce la natura come se la molteplicità delle sue leggi nei campi più diversi del sapere si conformasse al fine di poter essere conosciuta dall'uomo e fosse dunque possibile raccoglierla e ordinarla in massime generali quali:
«la natura prende la via più breve», «essa non fa tuttavia salto alcuno», «la sua grande molteplicità nelle leggi empiriche è tuttavia unità sotto pochi principi». (Kant, Critica del Giudizio, pp. 33-34).
Non sono leggi costitutive della conoscenza della natura in grado di scalzare i principi dell'intelletto, bensì precetti che lo scienziato pone a guida della sua ricerca.
Nella Dialettica del giudizio teleologico, Kant analizza anche la possibile antinomia che sembra crearsi tra la legislazione dell'intelletto e quella della capacità di giudizio.
Egli mostra tuttavia che il determinismo e la finalità possono concernere due ambiti distinti dell'esperienza umana, costituente la conoscenza l'uno, regolativa l'altro e dunque non incompatibili fra loro, quantunque la possibilità reale della loro conciliabilità sia solo pensabile (noumenica) e non conoscibile.
Il principio di causalità è determinante, conoscitivo; il giudizio di finalità è invece riflettente e non ci fa conoscere niente di oggettivo, eppure fissa delle linee di indagine, pensando l'unità e la completezza della scienza.
Kant presenta la finalità oggettiva e formale persino come un bisogno stesso dell'intelletto, in grado di spiegare come anche il conoscere possa produrre piacere, in analogia col giudizio estetico, in virtù di un accordo tra le nostre facoltà di conoscere.
Quando qualcosa si accorda tramite riflessione con le nostre capacità conoscitive, si genera infatti sempre un sentimento di piacere.
Così si riempie di gioia l'animo dell'anatomista che scopre il funzionamento del cuore e si accorge come questa spiegazione si accordi perfettamente con ciò che sa dei polmoni e del corpo umano e d'un colpo le sue ricerche appaiono presentarsi come perfettamente coerenti, coese e unitarie, come se i loro oggetti fossero stati predisposti nella forma più adatta per essere conosciuti.
Quando il giudizio non ha fondamento in un accordo delle nostre facoltà ma è rivolto direttamente alla natura, la finalità oggettiva è materiale e pensata come esterna o interna.
Esterna è quella finalità per cui tutto ciò che è natura è pensato secondo una relazione di mezzi e fini tra di loro, per cui il giudizio riflette su certi fenomeni come se fossero finalizzati alla realizzazione di altri fenomeni, a conformarsi a certi scopi o all'uso dell'uomo, proprio come se fossero stati così predisposti.
Il movimento rotatorio della terra produce l'alternarsi del dì e della notte, indispensabile per i cicli vitali degli esseri viventi; l'esistenza di certi animali rende possibile la catena alimentare o limita la presenza di certi parassiti che possono nuocere alle colture.
Kant nota come il ruolo dell'uomo sia stato sovente anche distruttivo e la natura si sia spesso come vendicata contro di lui, colpevole di aver stravolto la catena perfetta di mezzi e fini che sembra sapientemente governarla.
Una finalità interna è rinvenuta invece nei corpi organizzati in cui ogni loro parte, nell'assolvere ad una funzione peculiare, si presenta al contempo solidale con le funzioni di tutte le altre parti nel cooperare ad un unico risultato.
I corpi organizzati sono gli esseri viventi in grado di accrescersi e riprodursi. In questo caso, il paradigma di spiegazione di causa ed effetto fornito dall'intelletto si rivela persino insufficiente a distinguere fenomeni che si presentano come dei fini in sé, in cui tutto è reciprocamente causa ed effetto di se stesso, mezzo e scopo.
Per questo il biologo si serve ad esempio continuamente anche del principio della finalità interna e quando studia un organo, come nel precedente caso del cuore, non si limita a determinarne il meccanismo, ma spontaneamente si chiede anche quale sia la sua funzione nell'insieme del tutto.
Infine, il principio di finalità, poiché unifica il molteplice secondo il concetto di scopo, in analogia cioè con una causalità di tipo intenzionale, conduce inevitabilmente la ragione umana a riflettere sull'idea, seppur problematica, di un intelletto divino artefice della natura e sul fine della creazione.
Del resto, come ha mostrato il giudizio di finalità interna, l'uomo, in qualità di organismo naturale, al pari di altri corpi organizzati, può essere ritenuto un fine della natura.
Ciò nonostante niente lascia pensare che egli rappresenti anche l'eventuale scopo ultimo della creazione. Il fine dell'uomo naturale è infatti la felicità e, sotto questo aspetto, la natura non sembra certo averlo privilegiato, eleggendolo a suo beniamino o favorito.
Come spiega Kant nella Metodologia della capacità di giudizio teleologica, eventi e calamità naturali lo minacciano anzi costantemente, procurandogli timori e dolori, riservandogli il medesimo trattamento di tutti gli altri animali: «D'altro canto è tanto sbagliato ritenere che la natura l'abbia preso come suo particolare beniamino e l'abbia favorito, benevola, rispetto a tutti gli animali, che essa, piuttosto, nei propri effetti rovinosi (peste, fame, alluvioni, gelo, attacchi di altri animali grandi e piccoli, etc.) lo ha risparmiato tanto poco quanto ogni altro animale» (I. Kant, Critica del Giudizio, p. 545).
Perciò, sulla base della conoscenza che abbiamo della natura, delle sue leggi non è possibile indicare nell'uomo, o in qualsiasi altro essere naturale, un fine ultimo, che rappresenti lo scopo della creazione e sia capace di rimandare all'idea stessa di un Dio creatore.
L'analisi di Kant collima qui con quanto già stabilito dalla Dialettica della ragion pura, che aveva mostrato come la fisico-teologica, ossia la prova che muove all'esistenza di Dio dal rinvenimento della finalità della natura, non riesca a raggiungere la concezione di un artefice unico, creatore, dalle infinite perfezioni.
Per questo risulta vana anche ogni possibilità di giustificare la bontà divina, guardando a posteriori ai fenomeni e al corso del mondo, come chiarirà un anno più tardi Kant nel saggio del 1791 Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea.
Nella Critica del Giudizio Kant rileva come, seguendo la direzione della fisico-teologica, potrebbe infine risultare ammissibile persino lo spinozismo, vale a dire la concezione che nega la creazione, identifica Dio con la natura stessa e vanifica ogni riflessione sulla possibilità oggettiva di una finalità nel mondo.
L'uomo tuttavia è capace di agire in base alla rappresentazione di regole e si serve anche della natura come mezzo per la realizzazione di un suo mondo «artificiale».
L'uomo è così fine ultimo a se stesso in quanto autore di tutto ciò che complessivamente costituisce l'ambito proprio della «cultura».
In questa prospettiva laica che non rimanda a nessun Dio, a nessuna trascendenza, il fine ultimo è uno scopo da raggiungere: è il progresso e l'incivilimento, ossia l'emancipazione umana dalla sfera della semplice naturalità.
Una volta spostata però la riflessione dalla natura al mondo umano, il principio di finalità investe direttamente la ragion pura e ciò che per il suo tramite eleva l'uomo al regno noumenico dei fini, della moralità.
L'uomo sottoposto alla legge morale scopre così di essere non solo un fine ultimo ma anche un fine definitivo, un fine in sé, un valore assoluto, perché, nell'agire morale, egli si determina in base a un principio incondizionato, che è indipendente da ogni causa e superiore alla natura.
Solo nell'agire morale l'uomo rintraccia così il senso di tutto il suo esistere, l'unico scopo finale, rispetto al quale tutte le altre cose, la natura, la cultura, la vita sociale stessa, appaiono subordinate:
«A che serve, si dirà, che quest'uomo abbia tanto talento, che sia, anzi, attivissimo nell'impiegarlo ed eserciti così un'utile influenza sulla comunità e abbia dunque un grande valore in rapporto sia alle proprie fortune sia all'utilità degli altri, se egli non possiede una buona volontà?» (I. Kant, Critica del Giudizio, p. 573)
Nella moralità, l'uomo conferisce infatti alla sua volontà un valore in grado di proiettarlo al di là del regno della natura e dei fenomeni entro quello noumenico della libertà.
Ecco allora che nella riflessione sulla finalità, la fisico-teologica, con tutti i suoi limiti e i suoi difetti, lascia il posto all'etico-teologia, all'unica riflessione in grado di giungere all'idea di un Dio creatore della natura e dell'uomo: soltanto considerando infatti la moralità come scopo finale, Dio si lascia pensare come supremo artefice del mondo, somma sapienza morale, entità infinitamente buona e giusta, oggetto culminante di una riflessione capace di ricongiungere la capacità di giudizio alle attese e alle speranze postulate dalla ragion pura pratica.