Gottfried Wilhelm von Leibniz (pronuncia tedesca [ˈlaibniʦ], latinizzato in Leibnitius, e talvolta italianizzato in Leibnizio; tedesco e francese desueto Leibnitz; Lipsia, 1º luglio 1646 – Hannover, 14 novembre 1716) è stato un matematico, filosofo, scienziato, logico, glottoteta, diplomatico, giurista, storico, magistrato tedesco.
La conoscenza dei filosofi classici e scolastici fu compiuta da Leibniz, ancora giovanissimo, nella biblioteca paterna, e rinnovata ascoltando le lezioni che Jakob Thomasius teneva a Lipsia.
Di un saggio storico di Thomasius Leibniz disse che, per la prima volta, «faceva la storia non dei filosofi, ma della filosofia».
E in una lettera del 1669 a questo suo maestro, Leibniz espose il suo primo, ancora acerbo tentativo di conciliare le vedute dei philosophi novi - secondo cui tutti i fenomeni si devono spiegare con rapporti di numero, figura e movimento - con la concezione aristotelico-scolastica, secondo cui la realtà è qualificata da certe «forme sostanziali» che, unendosi alla materia, la determinano e la rendono attiva.
La figura di cui parlavano i cartesiani era una determinazione geometrica dell'estensione la forma degli aristotelici era invece un principio unitario e attivo, simile a quello che, nei viventi, è l'anima.
Secondo Leibniz i due principi di spiegazione della realtà non si escludono; anzi, sono entrambi necessari, sebbene su piani diversi.
Numero, figura e movimento sono le determinazioni esteriori, scientificamente misurabili, della realtà; la quale, però, non si riduce a questo suo aspetto geometrico, ma si radica in principi più profondi, a cui la scienza matematico-fisica non giunge, e che è compito della riflessione metafisica penetrare.
Per conciliare quelle due prospettive non basta, però, giustapporle.
Occorre mostrare che esse rimandano l'una all'altra: che l'una ha bisogno dell'altra.
E a ciò Leibniz giunge gradatamente, attraverso una critica interna del sistema cartesiano, da lui seguito per qualche tempo (dopo una giovanile adesione all'atomismo), e poi abbandonato.
Tale critica tende a mostrare che la res extensa cartesiana rinvia necessariamente a principi di diversa natura, non potendo la pura e semplice estensione avere la concretezza della materia.
Così, tra il 1669 e il 1685, Leibniz diviene il più spietato critico di Cartesio; a volte, perfino ingiusto; senza tuttavia abbandonare lo spirito cartesiano delle «idee chiare e distinte», che era poi lo spirito scientifico medesimo.
Leibniz si fece forte soprattutto della scoperta di un «errore memorabile» di Cartesio, nel determinare che cosa si conservi costante attraverso i fenomeni meccanici dell'urto (base di tutti i fenomeni fisici).
Cartesio aveva pensato che rimanesse costante la «quantità di movimento» (massa x velocità): Leibniz mostra che ciò porta ad assurdi, e che ciò che si conserva costante è la «forza viva» (o energia cinetica: massa x velocità al quadrato).
La questione (che scientificamente è meno semplice di quanto Leibniz credesse) aveva una grande importanza, anche metafisica.
Infatti il movimento di per sé è un puro fenomeno, cioè un semplice variare di rapporti di spazio e di tempo.
La forza, invece, quale Leibniz la concepisce quando parla di forza viva, è la manifestazione di una realtà più profonda, che agisce al di sotto dei fenomeni.
Leibniz ne concluse che la stessa realtà fisica, attentamente considerata, rinvia a qualcosa di più essenziale dei fenomeni spazio-temporali.
Ma che cos'è questa realtà più essenziale?
Ciò che sviluppa forza viva nell'urto è una massa, dotata di una certa velocità.
E la massa è, da un lato, una «potenza passiva» di resistere alla penetrazione; ma, dall'altro, anche una «potenza attiva» di imprimere movimento con l'urto.
Queste «potenze» non possono risiedere nella pura estensione, come pensavano i cartesiani.
Dunque, devono radicarsi in qualche altro principio: in un conatus, in uno sforzo; insomma, in qualche atto che possiamo concepire per analogia con l'atto tramite il quale esercitiamo un'azione noi stessi.
Certo gli atti che costituiscono la materia non hanno, a differenza dei nostri atti psichici, una continuità che li unisca, come la memoria; tuttavia, alla loro radice, sono della stessa natura.
La materia - dice infatti una definizione leibniziana del 1671 - «è una mente momentanea, o mancante di memoria».
I centri unitari di attività su cui si fonda la realtà della materia non si incontrano sul piano fisico.
Essi sono puntuali, inestesi e quindi fuori dello spazio; manifestano, nello spazio, solo il risultato della loro efficacia, sotto forma di forza.
Il fondamento della realtà fisica è dunque un principio di diverso ordine, metafisico, a cui Leibniz darà (dopo il 1695) il nome di monade.
Le monadi (a differenza degli atomi dei seguaci di Democrito) non sono i costituenti della materia: infatti, suddividendo in parti piccole quanto si vuole una porzione di materia, non si troverebbe mai una monade.
Esse ne sono, però, il fondamento, senza il quale le proprietà della materia non si spiegherebbero.
Gli atomi, come unità materiali estese, non esistono, perché tutto ciò che è materiale è sempre divisibile all'infinito.
Ma l'unità indivisibile non è qualcosa di fisico, bensì di metafisico e non può consistere in una materia, bensì si manifesta come un centro di forza.
Ecco trovato, così, qualcosa di simile all'entelechia e alle forme sostanziali aristotelico-scolastiche.
Ma ora si tratta di dare veste precisa a tale concetto; e per questo conviene affrontare il problema anche da un altro lato.
Ciò in cui consiste, in ultima analisi, la realtà si può chiamare, aristotelicamente, sostanza.
Ora, già per Aristotele, al concetto metafisico di sostanza si può arrivare, oltre che muovendo dalla fisica, anche muovendo dalla logica, cioè dall'analisi del discorso.
Sotto questo rispetto, la sostanza è «ciò che non si può predicare di un'altra cosa», e che costituisce, per contro, il soggetto ultimo, a cui ogni predicato si riferisce, mediatamente o immediatamente.
Lo stesso vale delle monadi leibniziane: sostanze individuali e fondamento di ogni realtà, le monadi sono anche il soggetto ultimo di ogni proposizione, un soggetto in senso logico, oltre che in senso metafisico.
Ora, se io dico qualcosa di vero di una sostanza individuale - se dico, ad esempio, di Cesare che «passò il Rubicone» - questo predicato, appunto perché vero, deve appartenere al soggetto, inerire ad esso: «predicatum inest subjecto».
Anzi, esso concorre a costituirlo. La sostanza Cesare, infatti, non è altro che l'unità di tutti i predicati veri che la qualificano: l'esser nato in un dato luogo e tempo, l'esser stato marito di Calpurnia, l'esser caduto sotto i colpi dei congiurati, ecc.
Cioè (come dice Leibniz nel Discorso di metafisica) ogni sostanza contiene nella propria unità l'intera sua storia, e l'esistere della sostanza non è altro che lo svilupparsi progressivo di questa storia, già contenuta implicitamente nella sostanza.
Questa conseguenza si desume dal fatto che ogni predicato vero inerisce al suo soggetto.
Ma non basta.
Direttamente o indirettamente, ciascuna sostanza è in relazione con tutto il resto dell'universo.
Questo insieme di relazioni è esprimibile, anch'esso, in proposizioni vere (affermative o negative), che concorrono a determinare ciò che quella sostanza è.
E poiché tutte le proposizioni vere (che concorrono a determinare la sostanza), ineriscono al loro soggetto, cioè alla sostanza medesima, si ha che tutto l'universo è contenuto in ciascuna sostanza individuale o monade, sebbene solo in riferimento ad essa: cioè secondo il suo particolare punto di vista.
Tale è l'immagine metafisica che il Leibniz maturo ha del mondo: un insieme di monadi, ossia di centri unitari di riferimento, in ciascuno dei quali si rispecchia l'intero universo da un punto di vista particolare.
Un insieme di sostanze, cioè, che consistono nel loro reciproco rispecchiarsi: poiché l'universo, contenuto in ciascuna sostanza, non è altro che il riferirsi di ciascun centro a tutti gli altri.
Ma come può una sostanza semplice, indivisibile, contenere in sé una molteplicità infinita, - quale quella che costituisce la somma di tutti gli avvenimenti della sua vita - e riferirsi indirettamente all'intero universo?
La risposta di Leibniz è questa: la sostanza semplice ha la stessa natura del nostro spirito, capace di contenere nella sua semplicità infiniti pensieri.
Ciò significa che l'universo è contenuto nelle sostanze in forma di rappresentazione.
L'essere della sostanza è un rappresentare; è percezione, ed è passaggio da una percezione all'altra in virtù di una appetizione, per cui il presente della sostanza tende verso il futuro.
Sebbene, dunque, l'universo sia sempre tutto presente nella sostanza, sotto forma di rappresentazione, pure la sostanza si evolve e si sviluppa progressivamente.
La rappresentazione dell'universo, nella sostanza individuale, è in massima parte oscura, e si va chiarendo solo a poco a poco, in alcune parti, perché la sostanza illumina progressivamente qualche zona del proprio contenuto e sposta via via il centro della propria attenzione.
La sostanza finita, insomma, vive nel tempo, e il suo presente (in senso stretto) si sposta di continuo.
Tuttavia, poiché anche il resto è sempre tutto contenuto nella monade, per quanto in forma oscura, il presente della monade è sempre «carico del passato e gravido dell'avvenire».
A chi obiettasse che è assurdo concepire il fondamento di una realtà fisica come un insieme di «centri di rappresentazione», perché la materia è incosciente, Leibniz risponde che non ogni percezione è necessariamente cosciente.
Lo vediamo anche nel nostro spirito, che può risentire oscuramente di molti effetti delle cose esteriori senza rendersene conto: può percepirle senza appercepirle, cioè senza accorgersene (dal francese s'apercevoir accorgersi di).
Quando cogliamo il fruscio di un'onda, siamo influenzati dal rumore di ogni minima particella d'acqua, altrimenti non sentiremmo l'insieme: eppure, di per sé, il rumore di una minima particella d'acqua non sarebbe sufficiente a svegliare la nostra coscienza.
Ebbene, la materia bruta ha una forma di percezione ancor più oscura: in essa le piccole percezioni non giungono mai a costituire un'appercezione cosciente; e tuttavia è precisamente questo percepire inconscio che costituisce l'essere delle monadi su cui la materia si fonda.
Giunto a questo punto, Leibniz si illudeva di essere entrato in porto: ma, com'egli dice, quando prese a riflettere sul rapporto fra l'anima e il corpo si sentì risospinto in alto mare.
Era il problema classico del dualismo cartesiano, che ora si era spostato, e poteva formularsi così: come si connette la vita interiore della monade, che è rappresentazione, con l'aspetto esteriore della realtà fisica, che è una materia infinitamente divisibile in parti, e in cui tutto è esterno a tutto?
In altri termini, come si connette il piano fisico della materia che si muove nello spazio, con il piano metafisica delle monadi, che dovrebbero esserne il fondamento?
O si trova questo nesso, o il sistema rimane di nuovo spezzato in due: quella congiunzione di fisica (moderna) e di metafisica (tradizionale) che Leibniz persegue rimarrà un accostamento esteriore.
La soluzione proposta da Leibniz è ancora un ricorso all'onnipotenza divina, che fa corrispondere interno ed esterno, monadi e materia, spirito e corpo, come avveniva nell'occasionalismo.
Però, a differenza che nell'occasionalismo, Dio per far ciò non ha bisogno di agire direttamente, volte per volta, sul piano fisico e su quello spirituale, facendo corrispondere tali azioni tra loro.
È sufficiente che egli costruisca fin da principio il meccanismo fisico da un lato, e la sostanza mentale dall'altro, in modo che si sviluppino parallelamente in perfetta corrispondenza - per una armonia prestabilita - pur senza agire mai l'uno sull'altro.
Così come gli orologi di un orologiaio perfetto (dice Leibniz riprendendo l'immagine di Geulincx) segnerebbero sempre tutti la stessa ora, pur essendo indipendenti tra loro.
Perché Dio prevedendo ciò che la causa libera farà, fin dall'inizio ha regolato la sua macchina in modo che non possa non accordarsi con quella.
In polemica con Bayle, Leibniz sostiene che, data la divisione di ogni corpo in infinite parti, non è impossibile all'onnipotenza divina costruire un meccanismo tale per cui, ad esempio, il mio braccio si alzi meccanicamente nel momento esatto in cui voglio alzarlo, o per cui io senta un dolore nello stesso momento in cui, per il meccanismo universale, una spina entra nel mio piede, ecc.
Ma l'armonia prestabilita non serve solo a risolvere il problema cartesiano del rapporto tra anima e corpo: serve, anzitutto, a far corrispondere tra loro le anime, cioè le infinite monadi.
Queste rappresentano senz'altro, ciascuna secondo la sua prospettiva particolare, un identico universo; ma lo rappresentano tutto all'interno di se medesime, senza mai comunicare tra loro.
Poiché dunque le monadi non hanno finestre, cioè mancano di comunicazioni dirette, come sono unite l'una all'altra?
Secondo Leibniz sono unite perché, nel crearle, Dio ha prestabilito fin da principio nel loro sviluppo un'armonia, cioè una corrispondenza esatta delle rispettive rappresentazioni.
L'armonia prestabilita da Dio non è interamente necessaria, ma perfetta ed ordinata, nel senso che Dio, nella sua saggezza, l'ha liberamente voluta.
Così le belle leggi, che rendono il tutto armonioso, «sono una prova meravigliosa di un essere intelligente e libero, contro il sistema della necessità assoluta e bruta di Stratone e di Spinoza».
A questo punto sorge un problema più grave: se le monadi non hanno rapporti esterni, come possono costituire il mondo materiale, che dovrebbe risultare appunto dal loro insieme, cioè dal comporsi di ciò che deriva dalla loro attività?
Leibniz non può sfuggire a questo quesito, se non vuole che tra il piano fisico e il metafisico torni a mancare ogni possibilità di diretto contatto (come accadeva già tra res cogitans e res extensa cartesiane).
Ma le risposte di Leibniz a quel quesito sono piuttosto imbarazzate.
Le monadi, egli dice coerentemente, non sono parti che, sommandosi, costituiscano la materia: infatti, se anche una loro somma fosse pensabile, essendo inestese non darebbero mai luogo a corpi estesi.
Esse non sono dunque ingredienti dei corpi, bensì requisiti: cioè sono un fondamento di cui il corpo ha bisogno.
Ed esse, a loro volta, hanno in sé un'esigenza del corpo: cioè tendono a dar luogo al corpo.
Ma come intendere codesta esigenza e tendenza, se la monade è tutta chiusa all'interno delle proprie rappresentazioni?
Due sono le soluzioni principali che Leibniz offre al problema, senza mai optare tra esse con una scelta definitiva, e senza riuscire a conciliarle, d'altro canto, in una dottrina coerente.
Per un verso egli dice: il mondo materiale non è altro che un fenomeno interno a ogni singola monade; la composizione infinita di parti da cui risulta non è che la rappresentazione di una composizione di parti.
La composizione, però, non intercorre tra una monade e l'altra, ma è sempre tutta interna a ciascuna monade.
Tra l'una e l'altra c'è solo una corrispondenza, in virtù dell'armonia prestabilita.
Con ciò si accorda anche la dottrina leibniziana dello spazio e del tempo.
La questione dello spazio e del tempo ha sempre interessato il pensiero filosofico, come anche quello comune.
Al tempo di Leibniz soprattutto la scienza si era agitata intorno a questo problema: si discuteva sul vuoto, sul movimento, e ovviamente spazio e tempo divenivano termini sempre più carichi di interrogativi che di certezze.
Il platonico Henry More, polemizzando con Cartesio, aveva distinto lo spazio dalla materia, mentre per Cartesio lo spazio si identificava con l'estensione, e questa con la sostanza corporea.
Per More lo spazio è una realtà spirituale, indipendente ma ancorata alla sostanza divina.
Per questa ragione lo spazio ha tutte le caratteristiche della divinità e risulta eterno e immutabile oltre che, naturalmente, infinito. Ovviamente una simile idea dello spazio non può provenirmi dall'esperienza sensibile: quindi essa non trova seguaci tra gli empiristi.
Stranamente - ma non tanto per quanto abbiamo detto di lui - Newton, assunto come bandiera da molti empiristi, si rifà in un certo senso alla concezione che dello spazio ha More.
Nello "Scolio alle definizioni" nella sua opera Philosophiae naturalis principia mathematica egli dice: «Non definisco il Tempo, lo Spazio, il Luogo e il Moto, poiché sono a tutti notissimi. Ma si deve osservare che, volgarmente, queste nozioni sono concepite relativamente agli oggetti sensibili.
E di qui nascono pregiudizi, per togliere i quali conviene distinguerle in assolute e relative, vere e apparenti, matematiche e volgari».
Quindi il Tempo e lo Spazio assoluti, veri e matematici, sono rispettivamente realtà a sé stanti: l'una che scorre perpetuamente, l'altra che sta immobile.
Tempo e Spazio assoluti sono fuori della nostra esperienza, tuttavia, se noi non ne ammettessimo l'esistenza, non riusciremmo a spiegare il moto locale.
Questo noi lo percepiamo sensibilmente, come variazione di distanza tra due corpi; ma, quando abbiamo questa percezione, come facciamo a sapere quale dei due corpi si è mosso?
Spazio e Tempo assoluti divengono così per lui i punti fissi di riferimento per poter avere una nozione del moto locale.
Questa nozione è però un'immagine, non una misura.
Ciò che si sperimenta, e quindi si misura, è sempre il moto relativo; così il criterio per sapere in quale dei due corpi ha sede il movimento non può essere mai né lo spazio né il tempo assoluti di cui, appunto, non possiamo avere esperienza.
Spazio e Tempo assoluti compaiono nella scena proprio al tempo di Newton, come adatti a una visione meccanicistica del mondo.
Nella concezione aristotelica non era necessario fare ricorso a concetti simili, poiché lì agivano sostanze diverse, con diverse qualità, che stavano in luoghi determinati.
Il moto locale si spiegava con la tendenza naturale di ogni corpo da raggiungere il proprio posto nell'universo.
Ma all'epoca di Newton, ormai, dopo Galilei non è più dato parlare di "luoghi naturali", e si possono concepire uno Spazio e un Tempo assoluti.
D'altra parte, però, Spazio e Tempo assoluti non erano concetti scientifici (solo il moto relativo può esser preso in considerazione scientificamente) e, ad onta del suo «hypotheses non fingo», Newton li aveva ipotizzati.
Leibniz capì benissimo tutto ciò, ed ebbe su questo argomento un'indiretta polemica col Newton attraverso un suo discepolo, Samuel Clarke.
Questi, per via dei propri interessi religiosi, accentua l'assolutezza dello Spazio e del Tempo.
Per Newton si trattava di ipotesi per spiegare l'esistenza di un moto assoluto, mentre per Clarke essi divengono proprietà della sostanza divina:
«Dio vede tutte le cose con la sua presenza immediata, essendo attualmente presente nelle cose stesse, quante ve ne sono nell'universo, nello stesso modo in cui la mente dell'uomo è presente alle immagini delle cose che si formano nel cervello [ ... ] E nell'universo [Dio] non considera le cose come se fossero immagini formate con certi mezzi ed organi, ma come reali, formate da Dio stesso, e che Egli vede in tutti i luoghi dove esse sono, senza l'intervento di alcun mezzo. Questo paragone è tutto ciò che egli [Newton] intende, quando suppone che lo spazio infinito è per così dire, il sensorium dell'Ente onnipresente».
Leibniz obietta che non è ragionevole dire che lo spazio vuoto sia una proprietà della sostanza divina.
«Così la finzione - egli dice - di un universo fisico che va passeggiando tutt'intero in uno spazio vuoto infinito, non può essere ammessa».
Lo spazio va dunque inteso come relazione.
Lo spazio è l'ordine dei coesistenti e il tempo quello delle successioni «Lo spazio esistente come indipendente dai corpi è pura immaginazione».
Clarke obiettava che in questo modo restava del tutto inspiegabile il moto locale, perché non sarebbe più possibile dire rispetto a cosa mai è moto.
Leibniz risponde che, mentre può esserci moto in seguito ad una variazione di ordine di una parte dell'universo rispetto all'altra, non può esserci invece movimento locale di tutto l'universo.
Ma allora, dice Clarke, come sarà possibile distinguere un moto reale da uno apparente, se il moto locale non è altro che una variazione di rapporto tra una parte e l'altra del mondo?
Se il moto di una nave consiste in una semplice variazione del rapporto tra la nave e la costa, chi mi dice che a muoversi è la nave o piuttosto la costa?
Leibniz risponde che per stabilire la differenza tra moto apparente e moto reale ci si deve affidare, non a criteri cinematici, ma dinamici.
In sostanza non mi curerò di confrontare la nave e la riva con lo Spazio assoluto, ma cercherò di stabilire su quale dei due corpi agisce una forza; del resto non posso avere alcuna esperienza dello Spazio assoluto.
Eulero dirà poi, con maggior prudenza di Newton (e soprattutto dei newtoniani):
«Ciò che è stato detto dello spazio immenso e infinito [...] dev'essere considerato come un concetto puramente matematico. Che, sebbene appaia contrario alle speculazioni metafisiche, serve al caso nostro. Non affermo infatti che si dia un tale spazio infinito [...] ma, prescindendo dal fatto che esista o meno, chiedo solo che colui che si vuol figurare il moto assoluto e la quiete assoluta si rappresenti un tale spazio».
In breve, per Leibniz spazio e tempo non sono, come per Newton, recipienti indipendenti dalle sostanze che contengono, ma presuppongono anzitutto l'esistenza delle sostanze, di cui esprimono unicamente certi rapporti: rapporti di coesistenza lo spazio, di successione il tempo.
Ora, se per sostanza intendiamo non i corpi, bensì le monadi, non potremo (per quel che si è detto) stabilire tra esse rapporti reali di coesistenza e di successione (perché questi rapporti sarebbero esterni: tra una monade e l'altra).
E quindi spazio e tempo si riducono a rapporti ideali: a pure rappresentazioni di rapporti di coesistenza e successione, interne a ciascuna singola monade e corrispondenti solo per l'armonia prestabilita.
Questa soluzione è abbastanza coerente, ma toglie ogni consistenza al mondo corporeo, riducendolo a pura rappresentazione; e Leibniz non vi si assoggetta volentieri.
Quando viene a sapere che, in Irlanda, Berkeley sosteneva che l'essere della materia si riduce al suo esser percepita, rifiuta di accogliere tale dottrina.
Ma c'è una difficoltà ancor più grave.
Se davvero le monadi non hanno comunicazione con l'esterno, la corrispondenza tra le loro rappresentazioni, fondata sull'armonia prestabilita, rimane inverificabile da parte delle monadi stesse: pertanto, che ci sia o che non ci sia, esse non hanno modo di accorgersene.
Ora, Leibniz sa benissimo che ammettere l'esistenza di qualcosa che per principio non si può verificare è un'ammissione vuota di senso.
Eppure, quando l'abate Foucher gli muove questa obiezione, egli non sembra rendersi conto della sua gravità.
Risponde che la corrispondenza dell'armonia rende più perfetto il mondo, e che, quindi, Dio l'ha senza dubbio stabilita.
Effettivamente, Dio è il solo che potrebbe accorgersi di essa, potendo guardare le diverse monadi nel loro interno, poiché è il solo che abbia con tutte un rapporto diretto.
Ma l'armonia prestabilita dovrebbe comportare, anzitutto, una certa differenza nell'esistenza delle monadi, per esser qualcosa: invece, ci sia o non ci sia, le monadi non possono percepire nessuna differenza.
Quindi l'armonia prestabilita rimane un'ammissione affatto vuota rispetto a quel punto di vista per il quale Leibniz la suppone.
In altri contesti, però, Leibniz evita di ridurre i corpi a una pura rappresentazione: cerca di stabilire tra le monadi e i corpi un rapporto più intimo, che ora dobbiamo esaminare.
La monade finita, infatti, ha un rapporto reale (e non soltanto ideale) con il corpo, perché, pur essendo una sostanza spirituale perfetta e chiusa in se stessa, non sussiste mai, in natura, separata da ogni corpo, ma è sempre incorporata in un organismo, di cui costituisce l'anima.
Anche la materia che consideriamo inorganica è fatta, in realtà, di innumerevoli organismi, che ci sfuggono per la loro estrema piccolezza.
Il corpo di ciascun organismo è formato da un aggruppamento di organismi minori, tenuti insieme da una «monade dominante», e dotati a loro volta di un'anima, o monade dominante, che tiene insieme organismi ancor più piccoli, e così via all'infinito.
Tutti questi organismi sono immortali (in via naturale): la materia di cui sono fatti scorre, bensì, continuamente, ma il rapporto del corpo con l'anima rimane.
La morte è solo apparente, nel senso che disfa un corpo più grande; tuttavia un corpo più piccolo rimane ancora attaccato alla monade dominante, e, in certe circostanze, potrebbe riprendere a svilupparsi.
Leibniz dichiara quindi di ammettere l'immortalità non solo dell'anima, ma dello stesso animale, pur distinguendo dal semplice persistere degli animali bruti la più specifica immortalità dell'uomo, che può dirsi personale in quanto la memoria conserva (a differenza che nei bruti) la continuità della persona.
Questa dottrina serve a Leibniz anche a spiegare la generazione degli animali.
Egli ammette, infatti, la teoria della preformazione, e respinge quella della epigenesi.
In altri termini: l'animale non è generato, come sembra, al momento della concezione, ma preesisteva, e prende semplicemente a svilupparsi.
Dato che in ciascun animale si trovano sempre animali più piccoli, all'infinito, la preesistenza dell'animale nel corpo del parente non solleva difficoltà.
La scoperta, avvenuta in quel tempo, degli spermatozoi sembra offrire una conferma a questa teoria della preformazione che, tuttavia, più tardi la scienza abbandonerà.
Il significato della dottrina leibniziana secondo cui tutta la materia è organica è evidente.
L'organismo è la congiunzione concreta e vivente di un principio vitale unitario (la monade dominante) con un corpo, che è costituito da una molteplicità di parti.
Dunque, è la congiunzione reale di quei due piani - il piano metafisico della monade indivisibile e il piano fisico della materia estesa - che Leibniz cerca.
L'affermazione che tutta la materia è fatta di organismi, serve a giustificare l'altra, che tutta la materia è fondata su certi centri di forza, che sono le monadi.
Ma l'organicità della materia è a sua volta, per Leibniz, difficile da concepire.
Che cos'è infatti quel rapporto per cui la monade è incorporata in un certo organismo?
Se è un rapporto reale, la monade sarà realmente inserita nella materia, ma, contro quanto si è ammesso, avrà un rapporto che la lega a qualcosa di esterno (il proprio corpo): non sarà dunque più "senza finestre".
Se invece è soltanto la rappresentazione ideale di una particolare corrispondenza tra una certa monade e determinate altre monadi a preferenza di altre, la chiusura della monade rimane, ma la sua inserzione nella materia torna ad essere qualcosa di puramente ideale: una mera rappresentazione, interna alla monade.
L'organismo perderà allora ogni consistenza reale, e la materia pure: lo scopo per cui Leibniz ammette l'organicità universale sarà frustrato.
Anche qui, Leibniz non sceglie: né potrebbe farlo senza mutilare, per un verso o per l'altro, la propria dottrina.
La verità è che, avendo concepita la monade come una sostanza perfetta, compiuta per conto suo, Leibniz non può farne un semplice principio vitale, che sussisterebbe solo nella sua unità col corpo.
Una simile concezione, di origine chiaramente aristotelica, urterebbe contro il modo leibniziano di intendere la monade.
E questo modo di intendere la monade come un universo chiuso, fatto di rappresentazioni, risponde ad altre esigenze del leibnizismo, sulle quali ci dobbiamo ancora soffermare.