Enrico nacque a Goslar nel 1050; figlio dell’imperatore Enrico III, cinse a quattro anni, vivo il padre, la corona di re di Germania e alla sua morte (1056) gli succedette sotto la reggenza della madre Agnese di Poitou. Nel 1065 assunse direttamente il potere restaurando una forte monarchia indebolita dall’anarchia dei feudatari. Per questo chiese a Gregorio VII la facoltà di deporre i vescovi ribelli, ma ottenne un netto rifiuto e il divieto di investire gli ecclesiastici.
Contro questa ingerenza che lo privava di una potente arma di governo, Enrico reagì convocando il sinodo di Worms (1076) e facendo dichiarare Gregorio indegno della tiara. Come immediata conseguenza Enrico fu scomunicato e interdetto dal governo dei regni di Germania e d’Italia.
Nel 1077 dovette quindi umiliarsi a Canossa, mentre i principi tedeschi acclamavano re Rodolfo di Svevia. Senza attendere l’arbitrato del papa, Enrico affrontò e sconfisse il rivale a Merseburg, proclamando che quella vittoria valeva come un giudizio di Dio.
Nuovamente scomunicato nel 1080, fece deporre Gregorio da un concilio tenuto a Bressanone e gli contrappose Guiberto, arcivescovo scomunicato di Ravenna, che prese il nome di Clemente III. Nel 1083 Enrico scese in Italia, occupò Roma e, mentre Gregorio VII era barricato in Castel Sant’Angelo, fece consacrare l’antipapa Clemente che, a sua volta lo incoronò imperatore (1084). La scomparsa di Gregorio VII non cancellò la scomunica: Urbano II non lo convocò neppure a prendere parte alla prima crociata e inoltre, con il pretesto di scrupoli religiosi, gli si ribellò (1093) il figlio Corrado, già designato re di Germania.
Anche il figlio secondogenito, Enrico, indicato dal padre come suo successore, gli si schierò contro nel 1104 obbligandolo, con la forza, a rinunciare a ogni potere. Rifugiatosi a Liegi per organizzare la guerra contro il figlio, Enrico IV morì alla vigilia dello scontro di Visé nel 1106. Cinque anni dopo gli fu revocata la scomunica ed ebbe sepoltura cristiana nella cattedrale di Spira.
Nato a Waiblingen nel 1122, Federico Barbarossa salì al trono nel 1152 come successore di Corrado III, il cui figlio di otto anni non poteva essere in grado di dominare la ribellione dei feudatari.
Nel 1156 fu incoronato re d'Italia a Pavia e imperatore del Sacro Romano Impero a Roma da papa Adriano VI dopo aver soffocato la rivolta di Arnaldo da Brescia.
Scese ancora in Italia nel 1163 quando assediò e distrusse Milano, e nel 1168, quando occupò Roma.
Cercò di imporre l’autorità imperiale ai comuni e al papato, ma, battuto a Legnano (1176) dalla Lega lombarda protetta da papa Alessandro III, fu costretto a firmare nel 1183 la pace di Costanza con la quale riconosceva le autonomie comunali.
Per estendere la sua autorità sull’Italia meridionale fece sposare suo figlio Enrico VI con Costanza d'Altavilla, erede del regno di Sicilia. Nel 1189 partì per la terza crociata, ma l'anno successivo morì annegato nel fiume Salef.
Federico II nacque Lesi nel 1194 dall’imperatore Enrico VI (suo nonno era quindi il Barbarossa) e da Costanza d’Altavilla; rimase orfano del padre a soli tre anni e stette sotto la tutela della madre che riconobbe la signoria feudale del pontefice Innocenzo III e rinunciò per Federico all’impero. Alla morte di Costanza (1198) Federico fu affidato alla tutela del pontefice, mentre il regno di Sicilia ridiventava campo di contesa tra feudatari tedeschi e nobili normanni. L’azione di Innocenzo, come sovrano e come tutore, fece sì che al termine di molte lotte e intrighi Federico diventasse infine re di Napoli e di Sicilia (1208), re di Germania (1215) imperatore del Sacro Romano Impero (1220). Alla morte di Innocenzo III (1216), libero dalla tutela del papa, Federico II poté cominciare a svolgere la sua politica personale. Nel 1228 concluse, tramite negoziati, la quinta crociata bloccata in Egitto al comando di Andrea d’Ungheria, Alessandro d’Austria e Giovanni di Brienne; il sultano al-Malik al-Kamil gli concesse i Luoghi Santi e il titolo di re di Gerusalemme. Nel successivo periodo di relativa tranquillità che poté godere, riorganizzò l’amministrazione dei suoi territori, emanando provvedimenti diversi culminati nelle Costituzioni di Melfi del 1231. Volle poi estendere la propria influenza su tutta l’Italia, e si scontrò con la ricostituita Lega Lombarda che vinse a Cortenuova (1237), per essere poi da essa sconfitto a Fossalta (1249). Tenne splendida corte a Salerno, Lucera e Palermo, centro della scuola poetica siciliana a cui egli stesso appartenne; nel 1224 fondò l’università di Napoli (Studio Generale). Morì in Puglia a Castel Fiorentino nel 1250.
Federico II fu senza dubbio uno dei personaggi più affascinanti ed enigmatici del Medioevo, nonché oggetto, fra i contemporanei, di sentimenti estremi e contrastanti. La propaganda ecclesiastica e guelfa lo bollò come "Anticristo", i suoi sostenitori, accogliendo pienamente una visione leggendaria della sua persona che egli stesso si sforzò di accreditare, lo identificarono con "l’imperatore della fine del mondo", il giusto chiamato a restaurare l'età dell'oro sulla terra. Federico II conosceva il greco, il latino, i volgari siciliano, provenzale e tedesco, un po' di arabo e di ebraico; era un poeta piacevole, un dilettante geniale di filosofia e un curioso di questioni astrologiche, geografiche e scientifiche. Professava estremo rigore ed una religiosità apparentemente profonda, ma fece mostra in più occasioni di particolare crudeltà e non disdegnò di impiantare nella sua corte di Palermo un harem e degli eunuchi. Amministrò il suo dominio italiano nel solco di una tradizione che da Bisanzio arrivava ai Normanni, costruendo uno stato accentrato, burocraticamente efficiente e con un coerente codice di leggi (le cosiddette "Costituzioni di Melfi", 1231); fondò l'università di Napoli, emise provvedimenti a sostegno delle attività economiche e coniò l'Augustalis (1232), ossia la prima moneta d'oro occidentale dai tempi dei Carolingi.
L’uso del volgare in letteratura si afferma in Italia durante tutto l’arco del Duecento, in diverse zone della penisola, tra le quali un posto rilevante occupano la Sicilia e la Toscana. A questo proposito, è fondamentale ricordare che, parlando di "volgare", non si fa riferimento ad un inesistente volgare nazionale, che verrà concepito (e per di più in forma diversa dalla realtà della lingua parlata) solo qualche secolo più tardi. Ogni gruppo intellettuale agisce nell’ambito di una cultura geograficamente limitata, usando la lingua che comunemente si parla all’interno di essa, e cerca di piegarla, attraverso un continuo processo di elaborazione e di raffinamento, alle esigenze della scrittura. V’è di più: poiché manca l’unità politica, anche le esperienze di vita a cui la letteratura fa riferimento sono fortemente differenziate, tanto che sarebbe più corretto, per gli inizi, parlare di centri di cultura, piuttosto che di cultura nazionale.
Il più importante di questi centri è la corte palermitana di Federico II di Svevia, imperatore dal 1220, che rappresenta una tappa fondamentale nello sviluppo della letteratura italiana. La corte di Federico II è infatti sede di una splendida fioritura culturale, punto d’incontro tra civiltà diverse (araba, cristiana, ebraica), e precorre il fenomeno, destinato ad avere rigoglioso sviluppo durante il 1400 e il 1500, del mecenatismo, ossia della protezione e dell’incoraggiamento dato dai Signori agli "intellettuali", e quindi dello sviluppo della cultura. In quest’ambiente si colloca la scuola poetica siciliana, nella quale confluiscono importanti tematiche letterarie e filosofiche.
Ad essa appartengono in primo luogo lo stesso Federico e i suoi figli, Manfredi, Enzo e Federico di Antiochia, circondati da un folto gruppo di intellettuali, molti dei quali sono funzionari di corte (notai, magistrati, amministratori). Tra loro, spiccano alcuni nomi: il primo è quello di Giacomo da Lentini (definito da Dante il "notaro"), considerato un vero e proprio caposcuola, cui si attribuisce l’"invenzione" del sonetto. Pier della Vigna, anch’egli notaio, ha lasciato alcune opere in latino e poche composizioni in volgare, ma deve la sua fama soprattutto al ritratto che ne ha dipinto Dante nel XIII canto dell’Inferno. Di Giacomino Pugliese ci resta invece un canzoniere più nutrito.
Una personalità di rilievo è Rinaldo d’Aquino, forse parente di san Tommaso. È autore sia di testi in stile elevato, sia di poesie di tono popolaresco (celebre tra queste la canzonetta Già mai non mi conforto, o "lamento del crociato"). La critica, soprattutto quella romantica, ha attribuito a lungo la presenza di questa vena popolare a una presunta spontaneità del poeta, ma essa appare oggi piuttosto il frutto di una meditata scelta stilistica, che rispetta i canoni retorici del tempo e testimonia la formazione dotta dell’autore. Altrettanta abilità di verseggiatore denota Guido delle Colonne, che riassume con eccezionale eleganza i temi tipici della scuola.
Merita una citazione a parte Cielo d’Alcamo, sulla cui vita si hanno poche e incerte notizie. Egli è autore di un famoso contrasto, dialogo vivacissimo tra un caparbio corteggiatore e una ragazza dapprima restia, poi sempre più arrendevole di fronte alle profferte d’amore del giovane, sino alla resa finale. Il componimento (Rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state) riprende modelli tematici e stilistici già presenti nella letteratura provenzale, che ci testimoniano la familiarità del poeta con la cultura del suo tempo. Tuttavia, a differenza di altri, Cielo inserisce nel testo forme e battute proprie del linguaggio popolare, che hanno una forte connotazione realistica. Ciò induce a supporre che con lui sia cambiato, almeno in parte, il pubblico cui l’opera è destinata: non solo uomini di corte, e dunque di cultura, ma anche uditori di ceti più bassi, di fronte ai quali il dialogo può essere cantato o, tra l’altro, sceneggiato.
L’abilità con cui stile alto e stile umile sono alternati e fusi esclude, tuttavia, che si possa pensare ad un autore "popolare": siamo di fronte, semmai, ad un accorto uso di modi popolareggianti da parte di un letterato, di un uomo colto che si compiace di sperimentare diverse forme espressive.