La prima parte del romanzo è un monologo dove vengono messi alla berlina gli ideali ottimistici del positivismo, che secondo l'autore non potrebbero mai condurre alla tanto agognata società del benessere, fondata su scienza e ragione, perché l'essere umano - o meglio, l'individuo - avrebbe un segreto desiderio di sofferenza, di sporcizia e di auto-umiliazione che non può essere arginato da nessuna teoria della ragione, né tanto meno da teorie religiose che propongano mielosi ideali di fratellanza umana.
Esempio lampante di questa irragionevolezza e di questo desiderio di sofferenza è il protagonista delle "memorie". Egli, infatti, racconta in che modo non sia riuscito a «diventare nemmeno un insetto». Il suo dramma è una profonda interiorizzazione della complessità della realtà; si ritiene un uomo eccessivamente riflessivo, troppo impegnato a ricercare la causa prima del suo agire, e quindi afflitto da una sostanziale accidia, opposto agli uomini cosiddetti d'azione, i quali riescono ad imporsi delle mete e a seguirle fino in fondo, grazie al loro disinteresse per le cause profonde del loro agire.
Da un lato egli invidia quest'ultima categoria di uomini e condanna lo spirito del suo tempo, il XIX secolo, che definisce «un secolo negatorio», ma d'altra parte si autodefinisce «uomo evoluto del nostro disgraziato secolo diciannovesimo». All'obiezione che gli si potrebbe formulare e che egli stesso prende in considerazione, ovvero che la sua condotta è irrazionale e svantaggiosa, egli risponde elencando le prove che, a suo avviso, dimostrerebbero l'irrazionalità dell'uomo nella Storia: le guerre di Napoleone Bonaparte e Napoleone III, la guerra di secessione americana e la seconda guerra dello Schleswig.
La causa dell'irrazionalità e della preferenza dell'uomo per la sofferenza starebbe, secondo l'uomo del sottosuolo, nella sua facoltà più cara: quella di volere, in ossequio alla quale egli è anche disposto a rinunciare ai suoi vantaggi. Questo va contro le leggi di natura, esemplificate dal prodotto 2 x 2 = 4, al quale il protagonista contrappone il 2 x 2 = 5, una delle possibili conseguenze del trionfo della volontà individuale. Per il protagonista, le uniche conseguenze di queste considerazioni sono l'accidia e l'inattività, da cui deriva il ritiro dalla vita sociale, ovvero il suo rifugiarsi nel sottosuolo che dà il titolo al romanzo.
Nelle Memorie del sottosuolo, Dostoevskij traccia uno spaccato quanto mai suggestivo di tutto il cammino successivo della sua poetica. Ci sono in questo manifesto almeno tre punti qualificanti della sua concezione; in primo luogo la polemica, diretta contro positivismo e utilitarismo, davanti ai quali vale l'argomento circa il significato del progresso nel quale Dostoevskij mostra l'imbarazzo di tale progressismo ottimistico davanti al dramma della storia e dei suoi misfatti:
«Per lo meno la civiltà ha reso l'uomo, se non più sanguinario, certamente sanguinario in modo peggiore, più infame di prima. Prima vedeva nello spargimento di sangue un atto di giustizia e con tranquilla coscienza sterminava chi occorreva ora invece, sebbene consideriamo lo spargimento di sangue come un'infamia, tuttavia ci occupiamo di quest'infamia, e ancora più di prima. Che cosa è peggio? Giudicate voi. Dicono che Cleopatra (scusate se prendo un esempio dalla storia romana) amasse piantare degli spilli d'oro nel petto delle sue schiave e provasse un godimento ai loro urli e spasimi. Voi direte che questo accadeva in tempi, relativamente parlando, barbari; che anche ora i tempi sono barbari, perché (sempre relativamente parlando) anche ora si piantano spilli; che anche ora l'uomo, sebbene abbia imparato a veder le cose talvolta più chiaramente che nei tempi barbari, è però ancora lontano dall'essersi abituato ad agire nel modo che la ragione e le scienze gli additano. Ma tuttavia siete perfettamente sicuri che vi si abituerà senza fallo, quando saranno passate del tutto alcune vecchie cattive abitudini e quando il buon senso e la scienza avranno pienamente rieducato e normalmente indirizzato la natura umana. Siete sicuri che allora l'uomo cesserà da sé, spontaneamente, di sbagliare e, per cosi dire involontariamente, non desidererà che la sua volontà si allontani dai suoi normali interessi».
Dostoevskij ritrova le radici del problema della ragione matematizzante moderna: «Che cosa sa la ragione? La ragione sa solamente quello che è riuscita a conoscere (certe cose, magari, non le conoscerà mai; anche se non è una consolazione, perché non dirlo?), mentre la natura umana agisce nella sua interezza, con tutto quello che contiene, coscientemente e inconsciamente, e magari dice il falso, ma vive». Questo perché si è sopravvalutata la ragione in modo mitologico ben al di là delle sue possibilità proprie: «Vedete: la ragione, signori, è una bella cosa, è indiscutibile, ma la ragione non è che la ragione e non soddisfa che la facoltà raziocinativa dell'uomo, mentre il volere è una manifestazione di tutta la vita umana, con la ragione e con tutti i pruriti. E sebbene la nostra vita, in questa manifestazione riesca sovente una porcheriola, pur tuttavia è la vita, e non è soltanto un'estrazione di radice quadrata».
Questa decisa affermazione di vita integrale sviscera sino in fondo le ragioni della vita contro le mutilazioni razionalistiche e la loro ricerca di sicurezze ottimistiche. Un contrappunto polemico che emerge da un'altra densa pagina di Dostoevskij con al centro proprio la metafora della strada:
«D'accordo: l'uomo è un animale per eccellenza costruttivo, condannato a tendere coscientemente verso la meta e ad esercitare l'arte dell'ingegneria, cioè a tracciarsi eternamente ed incessantemente una strada, sebbene diretta dove che sia. Ma gli viene voglia, alle volte, di sgattaiolare di fianco forse appunto perché è costretto ad aprir questa strada, e magari, ancora, perché, per quanto stupido sia in generale l'uomo d'azione e immediato, tuttavia gli viene in mente qualche volta che la strada risulta quasi sempre diretta dove che sia, e che la cosa principale non è dove essa vada, ma che abbia una direzione, e che il ragazzo morigerato, trascurando l'arte dell'ingegneria, non si abbandoni ad un funesto ozio, che, come è noto, è il padre di tutti i vizi. L'uomo ama costruire e tracciar delle strade, è indiscutibile. Ma perché mai egli ama fino alla passione anche la distruzione e il caos? Ditemelo un po'! Ma su questo anch'io ho voglia di dire due parole a parte. Non può darsi ch'egli ami tanto la distruzione e il caos (perché è indiscutibile che a volte li ama molto, è proprio così), in quanto lui stesso istintivamente teme di raggiungere la meta e di ultimare l'edificio in costruzione? Che ne sapete? forse l'edificio lo ama solo da lontano, e niente affatto da vicino; forse ama unicamente costruirlo, e non viverci dentro, riservandolo poi aux animaux domestiques, come formiche, montoni ecc. ecc. Ecco, le formiche hanno tutt'altro gusto. Esse hanno un solo meraviglioso edificio dello stesso genere, inalterabile in eterno: il formicaio».
Se dunque si deve ammettere una strada essa non può rinunciare alla complessità della vita, come nell'ottimismo ottocentesco perché è il paradosso che anima ed agita la vita nei suoi chiaroscuri:
«E perché voi siete così fermamente, così solennemente sicuri che soltanto quello che è normale e positivo, in una parola, soltanto la prosperità sia vantaggiosa all'uomo? La ragione non s'inganna nei vantaggi ? Può darsi che l'uomo non ami la sola prosperità. Può darsi che ami esattamente altrettanto la sofferenza. Può darsi che proprio la sofferenza gli sia esattamente altrettanto vantaggiosa quanto la prosperità. E l'uomo a volte ama immensamente la sofferenza, fino alla passione, anche questo è un fatto. Qui poi non c'è nemmeno da consultare la storia; domandate a voi stesso, se siete un uomo e poco o tanto avete vissuto. Per quanto poi riguarda la mia opinione personale, amare soltanto la prosperità è perfino, in certo modo, sconveniente. Bene o male che sia, ma anche rompere a volte qualcosa è molto piacevole. Io, del resto, qui non sono propriamente partigiano per la sofferenza, e nemmeno della prosperità. Sono partigiano... del mio capriccio e che mi sia garantito quando occorra. La sofferenza, per esempio, nei vaudevilles non è ammessa, lo so. In un palazzo di cristallo sarebbe perfino impensabile: la sofferenza è dubbio, è negazione, e che palazzo di cristallo sarebbe quello in cui si potesse dubitare? Eppure sono sicuro che l'uomo all'autentica sofferenza, cioè alla distruzione e al caos, non rinuncerà mai. La sofferenza... ma è l'unica causa della coscienza».
La concezione filosofica di Dostoevskij non è ottimistica perché non minimizza la realtà del male, ma non è nemmeno propriamente pessimistica, perché non afferma l'insuperabilità del male, anzi proclama la vittoria finale (escatologica) del bene. Essa è piuttosto una concezione tragica, che mette la vita dell'uomo sotto l'insegna della lotta fra bene e male.