Dopo Fichte, l'altro grande rappresentante della filosofia idealistica, Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, nasce a Leonberg, vicino Stoccarda, nel 1775. Nel 1790 entra nella scuola teologica di Tubinga, dove stringe amicizia con Hegel e Holderlin. L'incontro con il pensiero di Fichte determinerà la riflessione concretizzatasi negli scrittiSulla possibilità di una forma della filosofia in generale e Sull'Io come principio della filosofia del 1795. A questo periodo di confronto con il pensiero di Fichte appartengono anche le Lettere filosofiche sul dogmatismo e il criticismo (1795-96).
Ma i suoi interessi si orientarono sempre più verso l'ambito delle scienze della natura: nel 1797 scrive le Idee per una filosofia della natura, a cui fa seguito il saggioSull'anima del mondo (1798) e il Primo progetto di un sistema della filosofia della natura (1799).
Alla riflessione sulla filosofia della natura si affianca l'elaborazione di una filosofia trascendentale: il Sistema dell'Idealismo trascendentale (1800) prepara il passaggio alla filosofia dell'identità, che vede il suo primo manifesto teorico nell'Esposizione del mio sistema filosofico (1801). Nel 1802 esce il dialogo Bruno, in cui Schelling approfondisce il sistema dell'identità. Questo sistema sancisce la definitiva rottura, anche personale, con Fichte, e il progressivo deteriorarsi del suo rapporto con i romantici del circolo di Jena, anche a seguito della sua relazione con Carolina Michaelis, moglie di A.W. Schlegel. Ottenuto il divorzio da questi, Carolina sposerà Schelling nel 1803. Nel 1804 scrive il Sistema dell'intera filosofia (postumo) in cui tenta di dare completezza e organicità alla filosofia dell'identità. Viene dato alle stampe, sempre nel 1804, anche lo scritto Filosofia e religione.
Nel 1806 Schelling si trasferisce a Monaco e diviene segretario dell'Accademia delle Scienze presieduta da Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), con cui entrerà poi in forte polemica. Nel 1809 pubblica le Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana, scritto che è un vero e proprio punto di svolta di tutto il suo filosofare. Ma il 1809 è per Schelling un anno determinante anche per l'evento più tragico della sua vita: la morte dell'adorata Carolina. Tra il 1811 e il 1815 lavora attorno all'opera Le età del mondo, ma il progetto complessivo naufraga di fronte a indecisioni teoriche. Dal 1820 al 1827 Schelling si trasferisce a Erlangen, dove tiene una serie di lezioni (Lezioni di Erlangen).
Con il 1827 si apre il secondo periodo monacense di Schelling, che segna la nascita dell'ultima fase del suo pensiero, contrassegnata dallo sforzo di elaborare una filosofia negativa cioè puramente razionale e una filosofia positiva, completamente nuova e originale, che si confronta con i contenuti di fede mitologico-religiosi. Di questa fase di pensiero sono testimonianza i seguenti scritti pubblicati postumi: Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna (1827), Esposizione dell'empirisrno filosofico (1836), Filosofia della mitologia (1842-54), Filosofia della rivelazione (1854). Nel 1837 Schelling è chiamato a Berlino a occupare il posto del suo grande rivale, Hegel. La chiamata di Schelling a Berlino susciterà molte aspettative, ma provocherà anche tante delusioni in coloro che, come ad esempio Kierkegaard, speravano in un pensiero filosofico realmente alternativo a quello hegeliano. Schelling muore il 20 agosto 1854 a Bad Ragaz, in Svizzera, ove si trovava per una villeggiatura. Il pensiero di Schelling è un pensiero in evoluzione, in continua revisione e in perenne approfondimento. Esso attraversa molte fasi che possiamo così schematizzare: il giovanile periodo fichtiano; la filosofia della natura; il sistema dell'idealismo trascendentale, la filosofia dell'identità; la filosofia della libertà; la filosofia positiva. Di questa intensa e continua rielaborazione del suo pensiero è testimone anche il fatto che Schelling preferì non pubblicare molte delle sue opere, in attesa forse di una sistemazione ultima e definitiva che non avvenne mai: esse vennero infatti pubblicate dal figlio Karl Friedrich August solo dopo la sua morte.
Il punto di partenza della riflessione del giovane Schelling è la filosofia di Fichte, da lui accolta con entusiasmo, ma anche rimeditata allo scopo di colmare ciò che ai suoi occhi appariva insoddisfacente. Da un lato vi è infatti in Schelling l'esigenza di superare il punto di vista trascendentale, limitato all'ambito soggettivo della coscienza e della riflessione, e dall'altro, conseguentemente, d'insediare la prospettiva filosofica in un concetto oggettivo di assoluto conoscibile attraverso l'intuizione intellettuale: era questa, come abbiamo visto, un'esigenza analoga a quella che aveva costretto Fichte a rivedere la sua prima dottrina della scienza. Da qui il tentativo di Schelling, avviato a partire dai primi scritti fichtiani (Sull'Io come principio della filosofia, 1795; Lettere filosofiche sul dogmatismo e il criticismo, 1795-96), di coniugare la filosofia di Fichte con quella spinoziana dell'hén kai pan, dell'uno-tutto (nel senso cioè che il principio divino permea il tutto della natura), ovvero di compensare il lato soggettivistico dell'Infinito con uno più oggettivo. Come si ricorderà, infatti, per Fichte l'io assoluto è innanzitutto soggetto, e l'oggetto, il non-io, non è l'assoluto, ma è posto da questo. Schelling invece si porrà la seguente domanda: in che misura esiste nell'assoluto anche un aspetto oggettivo?
Nello scritto del 1795 Schelling critica il carattere di astrazione soggettiva e arbitraria che contraddistingue secondo lui l'io puro fichtiano, posto semplicemente dal filosofo. L'assoluto fichtiano non avrebbe secondo Schelling una dimensione universale, oggettiva, ma coinciderebbe solo con l'atto di astrazione della riflessione filosofica, con quell'atto per cui, il filosofo, attraverso il primo principio della dottrina della scienza, «costruisce» l'io; ad esso egli oppone un io sostanziale, un assoluto, che «contiene ogni essere, ogni realtà», e non si isola da questa assolutizzandosi. In parole povere, l'assoluto esiste di per sé, oggettivamente, (Schelling), o è solo il prodotto della riflessione del filosofo, che si isola e astrae da tutta la realtà, e proprio perciò proverà poi difficoltà a dedurla (Fichte)?
Infatti l'idealismo fichtiano, secondo Schelling, è incapace di risolvere il «conflitto tra l'io puro e l'io empirico, condizionato», ovvero è incapace di dedurre (nel senso fichtiano già visto e non kantiano) il finito, se non negandolo: è infatti non-io. Già qui si affaccia l'esigenza di un diverso trattamento della realtà finita, in quanto la soluzione fichtiana di lasciarla semplicemente fagocitare dall'io infinito, sacrificandone il valore e l'autonomia, appare a Schelling insoddisfacente.
Si tratta dunque di ricercare un principio assolutamente unico in grado di ricomprendere e salvaguardare al contempo il soggetto e l'oggetto, l'ideale e il reale.
Nelle Lettere filosofiche preciserà infatti che l'opposizione tra realismo e idealismo, ovvero tra dogmatismo e criticismo, non è originaria, poiché si pone solo nel momento in cui si abbandona la giusta prospettiva da cui riguardare l'assoluto, per il quale quella opposizione non ha senso, essendo esso al di là del dualismo di soggetto e oggetto.
Per «giusta prospettiva» Schelling intende quella dell'intuizione intellettuale, in opposizione a coloro che intendono l'assoluto come un oggetto ancora esterno e trascendente (una cosa in sé).
Che poi nella scelta tra dogmatismo e criticismo sia in gioco una più radicale scelta per o contro la libertà, è ciò che anche Schelling è disposto a riconoscere sulla scorta di Fichte: chi nei confronti dell'assoluto adotta un atteggiamento di passività e di abbandono sceglierà il dogmatismo, mentre chi sottolinea il valore dell'attività e della libertà si orienterà verso il criticismo, che tende a superare i limiti posti dall'oggettività. Per il criticista dunque l'assoluto è il termine mai raggiungibile di un compito infinito, in cui consiste l'attività libera stessa, mentre il dogmatico pensa che l'assoluto sia oggetto di un possesso attuale, che esige dal soggetto di perdersi in esso e di annientare la sua libertà.
La revisione del pensiero fichtiano, la quale viene però sentita in questi anni più come una coerente continuazione che non come una rottura rispetto alle idee di Fichte, conduce Schelling a confrontarsi con la filosofia della natura dell'epoca, cercando di conciliarla con la prospettiva dell'idealismo trascendentale. In quel contesto culturale, la filosofia della natura era l'insieme di conoscenze scientifiche relative alla fisica e alla biologia, cioè alle dimensioni meccanica, organica e chimica della natura: da qui nasce il progetto di una fisica speculativa, vale a dire di una filosofia della natura che dia orizzonte speculativo unitario alle scienze naturali e alle loro scoperte.
La dottrina che Schelling elabora nelle Idee per una filosofia della natura (1797), nel saggio Sull'anima del mondo (1798) e nel Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura (1799), mira a dimostrare l'identità originaria e non l'opposizione tra lo spirito e la natura, tra l'ideale e il reale: «La natura deve essere lo spirito visibile, lo spirito la natura invisibile» (Introduzione alle Idee per una filosofia della natura, p. 47).
Il fondamento di questa identità originaria si deve individuare in quel comune impulso all'organizzazione che si articola in un incessante superamento delle opposizioni e, di nuovo, delle sintesi parziali a cui tale superamento ha condotto. La natura è una totalità vivente animata tanto da una dualità oppositiva - una forza positiva e una negativa, ad esempio, attività e recettività (passività) - quanto da un principio unitario (anima del mondo) che ne assicura la struttura organica, l'intima coappartenenza di parti e tutto. Questo principio impedisce l'esito auto distruttivo di quella opposizione, e cioè che il polo negativo e quello positivo semplicemente si annientino, senza dar origine ad alcun fenomeno.
Ad esempio, i fenomeni magnetici ed elettrici sono resi possibili dall'opposizione tra due poli, positivo e negativo, che non si annullano reciprocamente, ma danno origine ai loro rispettivi fenomeni. In ogni processo naturale quindi né l'unità è possibile senza un'opposizione che essa attraversa e sintetizza, né l'opposizione è possibile senza un'unità che la contenga. Come afferma Schelling, è vero che «in natura non c'è propriamente che dualità» (Introduzione al Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura, p. 169), ma nell'unità complessiva della natura, «gli opposti sono eliminati in modo non già negativo, ma positivo; non è negata la loro diversità, ma è posta la loro assoluta identità» (Aforismi sulla filosofia della natura, p. 41).
Nonostante il tentativo di coniugare l'idealismo fichtiano con la riflessione sulla natura, presto apparvero agli occhi di Schelling quei punti della dottrina di Fichte che non potevano più essere conciliati con il suo progetto. Ciò che della filosofia fichtiana non è più sostenibile è la concezione della natura come limite, come semplice non-io al servizio della volontà di potenza dell'io morale che sottomette a sé la natura. In un passo molto ironico Schelling afferma che Fichte ammette la natura solo se essa «si lascia mutare in bei giardini e appartamenti, mobili decorosi» (Esposizione del vero rapporto della filosofia della natura con la dottrina fichtiana migliorata, p. 244) insomma, in senso economico-utilitaristico, laddove noi vediamo un bosco, Fichte vede materiale da costruzione.
Inoltre la filosofia fichtiana non riesce a dare ragione di quel livello precedente la riflessione filosofica - l'esistenza di un mondo oggettivo e naturale - in cui il filosofo si trova già ad essere inserito e che dimostra il carattere non originario della riflessione stessa: detto in altri termini, la riflessione del filosofo giunge dopo e non prima della natura e della realtà su cui esso riflette. Il fatto è che Schelling non vuole opporre, come ai suoi occhi ha fatto Fichte, soggetto e oggetto, spirito e natura, ma li vuole ricomprendere pariteticamente all'interno di una realtà più originaria, l'assoluto, che li fonda entrambi: ciò verrà dimostrato spiegando come nello spirito vi sia una componente naturale e come nella natura vi sia un elemento spirituale.
Per dimostrare quest'ultimo punto Schelling invita a interpretare in maniera oggettiva, e non più semplicemente soggettiva e trascendentale, il finalismo naturale che Kant aveva studiato nella Critica del Giudizio, e soprattutto a riconoscere quell'impulso spontaneo della natura verso una propria organizzazione, impulso che pervade tutta la natura e che così permette di osservare la continuità esistente tra natura inorganica e organica. In questo modo si può concludere che l'attività della natura non appare dissimile da quella dell'io, ovvero che tale attività si deve leggere in termini di soggettività e di libertà: la natura dunque, lungi dall'essere un non-io, è piuttosto un io oggettivo.
Per rilevare anche nella natura quella medesima dialettica oppositiva di soggetto-oggetto, io-non io, che è propria della vita dello spirito, Schelling si appella ai risultati delle scienze contemporanee, che gli consentono di individuare tre ambiti generali di fenomeni: il magnetismo, l'elettricità e il chimismo. Il magnetismo permette di dedurre la coesione esistente tra le parti della natura, l'elettricità l'opposizione di forze e il chimismo la metamorfosi come principio di trasformazione reciproca dei corpi naturali. L'opposizione che pervade tanto la natura inorganica quanto quella organica viene definita più precisamente da Schelling come opposizione tra una forza repulsiva (ideale, illimitata) e una attrattiva (reale, limitante), che trovano il loro equilibrio, seppure parziale, in un punto di indifferenza, ovvero nella costituzione di un prodotto finito:
«Ad opera dell'opposizione originaria e del tendere all'indifferenza nasce un prodotto, ma il prodotto abolisce solo in parte l'opposizione» (Introduzione al Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura, p. 182), per cui poi nasce una nuova opposizione e così via secondo un processo infinito. Se nel prodotto naturale prevale un equilibrio definitivo tra le forze opposte si hanno i corpi non viventi; se l'equilibrio viene rotto e ristabilito si ha il fenomeno chimico; se l'opposizione tra le forze si dimostra permanente si ha il fenomeno della vita, nel senso che la vita si nutre di opposizioni, cessando le quali subentra la morte. Ma ciò che questa struttura dialettico-polare consente di articolare è un universo di analogie che mostrano non solo la presenza dello schema polarità-indifferenza (cioè ripristino dell'equilibrio e dell'unità dopo l'opposizione e prima di ogni altra successiva tensione) nei diversi ambiti della natura, ma anche l'intreccio e la sovrapposizione di questi ambiti stessi, per cui, ad esempio, si può rinvenire il fenomeno dell'elettricità anche nel mondo animale.
L'articolazione del processo naturale viene presentata da Schelling come il succedersi di gradi o potenze in progressione ascendente da un livello più materiale a uno più spirituale (l'organismo):
- la prima potenza è la gravità, grado in cui si costituisce la materia;
- la seconda potenza è la luce, che svela l'aspetto ideale della natura stessa;
- la terza potenza è l'organismo, caratterizzato dai fenomeni della sensibilità, dell'irritabilità e della riproduzione.
La caratteristica di questa struttura potenziale è quella di ripresentare a un livello superiore, potenziato appunto, i gradi propri dei livelli precedenti. Il principio dell'analogia, in base al quale cioè è possibile accostare e paragonare tra loro tutti gli esseri della natura, permette inoltre di rinvenire le seguenti corrispondenze tra organico e inorganico: la sensibilità nel mondo organico richiama il magnetismo dell'inorganico e così vale per l'irritabilità e l'elettricità, la riproduzione e il chimismo. Rinvenendo polarità e reciproche connessioni, tutta la filosofia della natura di Schelling ha il compito di mostrare soprattutto come anche il non-io sia riconoscibile come io e come dal non-io, dall'oggetto, si possa giungere all’io, all'uomo, al soggetto, all'autocoscienza. Lo sviluppo progressivo della natura dai prodotti inorganici ai corpi organici evidenzia così una sempre maggiore idealità e soggettività, che la filosofia ricostruisce come graduale spiritualizzazione della natura stessa, che dalla materia inerte culmina nel suo prodotto più spirituale, l'uomo.
In virtù del principio dell'identità di spirito e natura, riconosciuto da Schelling, il processo spirituale (e la filosofia trascendentale che lo studia) deve mostrare il cammino inverso, rispetto alla filosofia della natura, ovvero come dal soggettivo si giunga all'oggettivo, come dall'uomo possa sorgere la coscienza di una natura. Insomma se la filosofia della natura mirava a rinvenire nella natura lo spirito e le sue leggi, la fìlosofìa trascendentale rinviene nello spirito la natura. Infine essa deve mostrare come si giunga ad intuire oggettivamente l'assoluta unità di soggetto e oggetto che presiede alla totalità del processo, sia naturale che spirituale: a questa ricostruzione dello «storia» dello spirito Schelling dedica il Sistema dell'Idealismo trascendentale (1800). Come si vede la distanza dalla prima dottrina della scienza fichtiana risiede da un lato nella complementarità di filosofia della natura e filosofia trascendentale (io e natura non si oppongono, ma si includono reciprocamente) e dall'altro nel tentativo di cogliere, oltre l'io, quella più originaria realtà metafisica che è l'assoluto, la cui attività è alla base sia dell'io che della natura.
Come nella natura, così nello spirito Schelling individua l'opposizione di due attività - l'attività ideale, illimitata e quella reale, limitante - il cui equilibrio dà origine a vere e proprie figure che vengono progressivamente lasciate alle spalle secondo un movimento ascendente e, anche qui, di potenziamento. Se l'opposizione determina la vita dello spirito (come d'altronde, la vita in generale), si tratta di comprendere i diversi modi in cui tale opposizione si articola e la via verso il suo superamento definitivo in direzione di un'unità assoluta, ovvero in direzione di quell'assoluto che fonda e spiega sia la vita della natura che quella dello spirito. È questo il compito che Schelling assegna alla filosofia teoretica e a quella pratica.
La filosofia teoretica esposta nel Sistema presenta un impianto sostanzialmente idealistico-fichtiano. Si parte cioè anche qui dall'autocoscienza o io come principio che, in virtù dell'intuizione intellettuale, pone se stesso e produce la realtà esterna. Solo che proprio nell'interpretazione del principio dell'autocoscienza avviene un deciso allontanamento dall'io fichtiano. Giacché il rapporto tra spirito e natura in Schelling non è tanto un rapporto di opposizione, ma di polarità. Ciò significa che come nella filosofia della natura lo spirito non era un concetto opposto alla natura, ma una dimensione produttiva ad essa immanente, così ora allo spirito, inteso come soggetto conoscitivo, non si oppone in modo estrinseco, dall'esterno un non-io (anche se esso viene poi recuperato all'interno dell'io, come posto da questo), ma si cerca di rinvenire nell'io stesso una struttura polare che possa spiegare come l'io produca il non-io. Altrimenti, secondo la reinterpretazione di Schelling, un io concepito nella sua purezza ed esclusivo di ogni principio naturale non potrebbe spiegare l'originarsi, da esso, della natura stessa, proprio come non si potrebbe comprendere come la natura culmini nello spirito se essa stessa non fosse già, in una certa misura, spirito. Dunque non è che all'io si opponga il non-io, ma l'io porta tale opposizione già in sé come polarità di due attività contrapposte.
Queste due attività operanti nell'io Schelling chiama (analogamente a quanto ha già fatto nella filosofia della natura) attività limitata (o reale) e attività illimitata (o ideale):
· la prima produce l'oggetto, inteso fichtianamente come limite, in un modo inconscio, inconsapevole, per cui poi l'io, non avendo consapevolezza della propria produzione, si trova davvero l'oggetto opposto a sé come reale e indipendente;
· la seconda attività supera il limite rappresentato dall'oggetto, riconoscendolo come un proprio prodotto.
Questo processo di posizione inconscia del limite e del suo superamento ideale è continuo: cioè, come in Fichte, l'io subito dopo aver superato un limite se ne trova un altro da superare e così all'infinito. Ma, come si è detto, l'orizzonte fichtiano è stato ormai abbandonato perché l'io è ora, insieme, ideale e reale, spirito e natura, soggettività e oggettività, conscio e inconscio.
Questo percorso dialettico che caratterizza la vita teoretica dell'io si articola attraverso tre tappe o epoche che Schelling tende a individuare, per analogia, anche nel mondo della natura.
La prima conduce dalla sensazione all'intuizione produttiva: qui l'io, avvertendosi come senziente, prende coscienza del suo carattere attivo di fronte all'oggetto che inizialmente lo limitava; del resto, come spiega Schelling, l'io non sente la cosa stessa, bensì soltanto se stesso, la sua attività limitata, soppressa. Nel mondo della natura questa epoca corrisponde alla costituzione della materia a partire da due forze originarie, quella repulsiva e quella attrattiva e all'identificazione delle diverse potenze attive nella molteplicità dei fenomeni, chimici, elettrici, magnetici.
La seconda va dall'intuizione produttiva alla riflessione: qui l'io si differenzia come intelligenza dal mondo degli oggetti; questa tappa corrisponde alla seconda potenza della filosofia della natura quando si rivela l'organizzazione della natura che culmina nell'uomo.
La terza va dalla riflessione alla volontà, in cui culmina il processo di emancipazione dagli oggetti e l'io coglie il suo carattere di autodeterminazione. Con ciò la filosofia teoretica transita in quella pratica, come nella fisica speculativa la terza potenza coincideva con lo studio dell'organismo.
Nella filosofia pratica il limite, che nella filosofia teoretica era in fondo ideale e soggettivo, diventa reale e oggettivo. In ambito pratico l'antitesi dominante è quella tra necessità e libertà, che è l'ennesima riformulazione dell'opposizione reale-ideale, inconscio-conscio. E anche qui il compito consiste nel superare l'opposizione mostrando l'intima unità sussistente tra i due termini.
L'io, innalzatosi a volere, si imbatte in un nuovo limite costituito dalla soggettività degli altri io che ostacolano l'esercizio della sua libertà. Ma questo limite costituito dalla libertà degli altri favorisce la coscienza che l'io ha di sé, perché l'io è tale solo per mezzo degli altri.
Si pensi al fatto che la nostra identità si costruisce anche grazie agli altri che ci giudicano, ci apprezzano, ci criticano, insomma che ci rimandano, come uno specchio riflettente, l'idea che abbiamo di noi, correggendola e integrandola: se fossimo completamente isolati avremmo un'immagine distorta di noi stessi fino al limite della psicopatologia, in quanto spesso il malato respinge e demonizza l'opinione che gli altri hanno di lui, rinchiudendosi nel proprio sé astratto.
Con la storia l'io acquista una dimensone collettiva, universale e non più soltanto particolare e individuale, e l'opposizione che si era acquietata nell'ambito del rapporto tra l'io e gli altri io si ridesta, trovando presto una rinnovata conciliazione che coincide con una prima rivelazione dell'assoluto.
Nella storia l'uomo agisce infatti liberamente, ma il prodotto delle sue azioni è predeterminato da una forza oggettiva vissuta come destino, natura e infine come provvidenza, la quale sembra volgere le intenzioni dei singoli in direzione di un'armonia prestabilita: nella storia i singoli agiscono perseguendo i loro scopi (il consueto aspetto libero e conscio), ma in realtà portano a compimento disegni più ampi che li sovrastano e che loro ignorano (l'aspetto necessario e inconscio).
Ma l'assoluto nella storia si manifesta solo parzialmente, anche perché in essa la sintesi dell'opposizione non è ancora giunta a termine; finché cioè c'è storia è difficile dimostrare tale unità: la possiamo solo ipotizzare, ma occorrerebbe attendere la fine del corso storico, l'esaurirsi del tempo, per coglierla effettivamente in una sintesi assoluta: «La storia [...] è una rivelazione mai interamente avvenuta dell'assoluto» (Sistema dell'idealismo trascendentale, p. 275).
Solo l'arte mostra la coincidenza completa e attuale tra attività libera e necessaria, e dunque solo l'intuizione estetica può cogliere l'assoluto che, come ormai sappiamo, è per Schelling unità di spirito e natura, di libertà e necessità, di attività cosciente e inconscia. Il genio creatore di opere d'arte, infatti, opera da un lato in modo inconscio, animato da un'ispirazione che lo trascende (è l'aspetto poetico della creazione artistica), e dall'altro in modo consapevole, disciplinando la sua incontenibile ispirazione con la tecnica e con l'osservazione di regole (è ciò che Schelling chiama arte in senso ristretto).
L'esperienza estetica, come intuizione dell'assoluto, si mostra così come il «vero e eterno organo e documento insieme della filosofia» (Sistema dell'idealismo trascendentale, p. 579) superiore all'intuizione intellettuale del filosofo, la quale, rinchiusa nella soggettività interiore di questi, non giunge ad esporre oggettivamente (attraverso un'opera), e dunque in modo universale, il proprio contenuto.
Inoltre, come spiega Schelling, a differenza dell'opera d'arte, la riflessione filosofica, ma anche la semplice attività del pensare, per la sua natura rappresentativa, coscienziale, scinde l'assoluto, il quale, originariamente, è unito, identico a se stesso: «solamente l'opera d'arte mi riflette ciò che non viene riflesso da nient'altro: quel medesimo assolutamente identico che nell'Io si è già scisso; l'arte opera il miracolo di irradiare dai suoi prodotti quello che il filosofo ha lasciato che si scindesse già nel primo atto della coscienza, e che altrimenti è inaccessibile a ogni intuizione» (Sistema dell'idealismo trascendentale, p. 575).
L'assoluto come identità o indistinzione, di natura e spirito, di reale e ideale, riconosciuto a fondamento della filosofia della natura e della filosofia trascendentale, può adesso venire esplicitamente tematizzato ovvero posto come punto di partenza per la deduzione (nel senso metafisico già visto in Fichte) di tutto l'essere.
In altri termini, se l'assoluto è unità di ideale e reale, attraverso di esso si può spiegare sia l'essere reale che quello ideale, in quanto esso si pone a loro fondamento. Ciò però coincide con l'abbandono definitivo della prospettiva trascendentale, che adottava come punto di partenza pur sempre il finito, e conduce a una posizione intuizionistica che colloca l'indagine speculativa, sin dall'inizio, nella prospettiva dell'assoluto. Insomma, se l'intuizione con cui si coglieva l'assoluto, nella prospettiva trascendentale, era il culmine di un processo che aveva preso le mosse dal finito, ora si parte subito da questa unità intuitiva tra finito e infinito, si parte subito dall'assoluto, dato per acquisito e riconosciuto come originario. Ma questo significa che Schelling, partendo dall'identità assoluta, si trova di fronte al problema di spiegare e di giustificare il sorgere della differenza (e del finito), laddove l'itinerario del periodo precedente era quello di giungere a riconoscere l'identità che giaceva a fondamento dell'opposizione (e del finito).
Nell'Esposizione del mio sistema filosofico (1801) Schelling illustra questa prospettiva che, a partire dall'assoluta identità chiamata anche ragione, deduce (in senso metafisico e non trascendentale) tutto l'essere.
La ragione, nel senso di assoluto, che trova la sua formulazione più adeguata e la sua legge nella proposizione A=A, è l'«indifferenza totale del Soggettivo e dell'Oggettivo», dell'ideale e del reale, e costituisce l'essenza infinita ed eterna di tutte le cose: «tutto ciò che è, è l'Identità assoluta» (Esposizione del mio sistema filosofico, p. 17). Se la ragione, l'indifferenza o l'assoluta identità (termini tutti sinonimi) è tutto, è l'essenza di tutte le cose, queste (il finito in generale) sono solo una differenziazione dell'indifferenza, una differenziazione quantitativa, una ripartizione proporzionale di tale indifferenza sotto la prevalenza dell'aspetto reale o ideale: ciò che Schelling, impiegando una terminologia matematica, chiama potenze, nel senso appunto dell'innalzamento a potenza.
Il finito, concepito nella sua vera essenza, e non, falsamente, come caducità e temporalità, è essenzialmente identico all'assoluto, e si distingue da esso solo per la forma, per l'aspetto quantitativo del reale e dell'ideale che è prevalente.
Ad esempio l'ideale non è differente assolutamente dal reale o da questo separato, bensì è l'equilibrio tra ideale e reale posto sotto il segno dell'ideale, ossia con una prevalenza di questo, e lo stesso, ma in senso inverso, si deve dire del reale. Proviamo a formulare questo pensiero in termini più chiari. La natura per quanto riguarda la sua essenza è identità di ideale e reale, di spirito e natura, ma per quanto riguarda la sua forma, in modo quantitativo, presenta una prevalenza dell'aspetto reale, e perciò è natura: è per una minore misura spirito e per un'altra maggiore misura natura, ma la sua essenza è la totalità, l'identità di spirito e natura. A loro volta i singoli esseri della natura presenteranno quelle proporzioni in modo variato, a seconda che si avvicinino di più allo spirito o di meno. Identico discorso si deve fare per l'ambito spirituale: sarà per maggior misura spirito, ideale e per misura minore natura, reale.
Detto questo occorre però distinguere la differenza quantitativa, il finito in quanto è ricompreso nella totalità indifferente dei suoi aspetti reali e ideali, dalla differenza qualitativa, dal finito isolato da tale totalità: il primo è il finito vero, identico col tutto, con l'essenza razionale, il secondo è il finito singolo e temporale, puramente apparente e inessenziale, colto dall'immagine e dalla sensibilità. Solo in modo apparente e per colpa dell'immaginazione le cose possono dunque intendersi come limitate e immerse nella temporalità, perché «nulla considerato in sé è limitato».
Con ciò si è ottenuta una fondazione metafisica del finito, del finito infinito, che è tale cioè solo se identico con l'infinito. Il finito infinito, identico cioè con l'infinito, è il finito a livello di perfezione ideale, ancora nel grembo eterno dell'assoluto, differente dal finito finito, effettivo, reale, limitato e imperfetto in quanto separato dall'infinito e dall'assoluto; ma la riflessione schellinghiana di questi anni non ritiene che sia compito della filosofia giustificare il finito reale, temporale, il finito finito.
Il finito infinito, questa particolarizzazione solamente quantitativa e formale dell'assoluto, e dunque non distinta essenzialmente da esso, viene anche definito, a partire dal Bruno o il divino e naturale principio delle cose (1802), idea, in un senso non distante dagli archetipi platonici, i quali per, Platone allora, come per Schelling ora, sono i modelli eterni (il finito infinito) delle cose singole, sensibili, inserite nel tempo (il finito finito): «Così tutte le Cose, in quanto sono in Dio, sono anch'esse assolute, fuori di ogni tempo, e ciascuna in lui gode di una vita eterna» (Bruno, p. 52).
Il problema del finito finito, sottomesso al divenire e alla temporalità, emergerà solo nello scritto del 1804, Filosofia e religione. Il finito effettivamente esistente, soggetto al divenire, non può infatti considerarsi, a fronte dell'assoluto, come un essere autentico: esso è piuttosto un nulla che, come tale, non può derivare dall'assoluto. Se dunque, «non c'è nessun passaggio continuo dall'Assoluto al reale, l'origine del mondo sensibile può essere pensata soltanto come un completo distacco dall'assolutezza mediante un salto», (Filosofia e religione, p. 53) cioè mediante una caduta. «ll fondamento della realtà della caduta» si trova dunque nel reale, che recide quel legame con l'ideale che aveva nell'assoluto e si rinchiude in sé, volendo valere egoisticamente per sé. In altri termini, posto l'assoluto, perfetto, donde deriva il finito finito, reale, imperfetto? Dal perfetto no di certo, perché questo produce solo perfezione.
È l'imperfetto, il finito finito che trae la propria realtà, imperfetta appunto, in quanto si è distaccato dalla perfezione, ovvero in quanto egoisticamente ha voluto condurre una vita autonoma. Come si vede Schelling sta articolando in modo filosofico, all'interno del suo sistema e della sua concettualità, il mito religioso della caduta, come volontario distacco dell'uomo, e con esso di tutto il finito, dall'Infinito, dalla ragione, dall'assoluto, da Dio.
Tuttavia se la caduta trova il proprio principio nel reale che si rinchiude egoisticamente, cioè nell'uomo, questi è al contempo il punto di partenza per un consapevole ritorno di tutto il finito nel seno dell'assoluto, attraverso l'attività spirituale: filosofia, arte, moralità e religione. Ma questa conciliazione risulta essere «lo scopo finale della storia», così che lo stesso episodio della caduta viene piegato a semplice strumento (felix culpa), necessario, di un disegno provvidenzialistico, le cui parti principali sono «l'uscita dell'umanità dal suo centro» e il suo «ritorno».
Già in Filosofia e religione si erano affacciati alla riflessione schellinghiana quegli aspetti quali il male e la libertà che non potevano trovare un adeguato spazio nella filosofia dell'identità, la quale tendeva panteisticamente a risolverli nell'apparenza o a ricomprenderli all'interno di una superiore necessità. Spetterà allo scritto del 1809, le Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana, approfondire quegli spunti esposti in modo problematico in Filosofia e religione, primo tra tutti il problema della libertà umana nel suo rapporto con quella divina.
Un primo passo verso la ridefinizione - che prelude al suo abbandono - anche della filosofia dell'identità Schelling lo compie, in queste Ricerche filosofiche, tentando di riformulare il concetto stesso di panteismo. Il problema del panteismo, secondo Schelling, è quello per il quale esso nega il carattere personale di Dio, concependolo come sostanza coincidente con l'infinito spaziale e temporale dell'universo. Questa concezione sostanzialistica, priva di vita interiore e di sviluppo dialettico, non poteva certo dare ragione del fenomeno della libertà, ricomprendendo tutto l'essere, tanto quello del finito che quello di Dio, all'interno di una cornice di necessità e di fatalità.
Concepire invece tutto l'essere, non solo quello divino, ma anche la natura, alla luce dell'idea di personalità e di spiritualità rende possibile delineare un diverso rapporto tra Dio e il finito, fondato appunto sulla libertà e sull'idea di libera creazione.
Ora Dio (ma anche l'uomo) può essere concepito come libera personalità solo se si rinviene all'interno della sua vita quell'aspetto dinamico e dialettico che è invece assente nel Dio-sostanza spinoziano, ma anche nel Dio della filosofia dell'identità, statico ed eternamente identico a sé secondo la formula A=A. Per Schelling il Dio autentico è un Dio che diviene, che giunge cioè a costituirsi come persona attraverso un vero e proprio conflitto. Questo conflitto, che ha luogo nella vita interiore del divino, avviene tra il principio ideale e quello reale, principio reale che ora viene interpretato come volontà cieca e oscura, come desiderio egoistico. La personalità divina emerge gradualmente nella misura in cui questa natura oscura viene sconfitta e riportata in Dio sotto il principio ideale e luminoso dell'intelletto.
Ma a questo fondamento abissale e oscuro che è in Dio quale principio reale si deve anche ricondurre l'origine del male. Ciò non vuol dire che Dio o il suo fondamento siano la causa del male, poiché questo trova nel fondamento solo la sua possibilità, ma non la sua realtà. In Dio il fondamento, giacendo sempre soggiogato dal principio ideale e in unità con questo, non ha la possibilità di innalzarsi effettivamente a male vero e proprio; invece nell'uomo, in cui tale unità originaria viene perduta, il fondamento si rende autonomo, si separa dal principio luminoso e diventa potenza del male: «Quell'unità che in Dio è inseparabile deve dunque essere separabile nell'uomo - e questa è la possibilità del bene e del male» (Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana, p. 100).
Con ciò tuttavia viene fondata anche la libertà dell'uomo, e, più in generale, si riconosce quell'autonomo carattere di essere del mito stesso che la filosofia dell'identità non era disposta a riconoscere. È l'uomo infatti che liberamente può scegliere di allontanarsi dal centro divino e di costituirsi esso stesso (egoisticamente) a centro; è l'uomo che in questo movimento centrifugo decide di attualizzare e di ridestare quella tentazione a compiere il male assopito in lui, trascinando con sé alla rovina anche il mondo della natura.
Tuttavia si deve ammettere che si dà autentica libertà, come principio del bene, solo se essa è, al tempo stesso, principio del male: la libertà vera, nella sua concretezza, è dunque decisione tra bene e male. È, come si vede, il principio idealistico già discusso, per il quale solo attraverso il confronto con l'ostacolo, con il limite, con la tentazione, con la possibilità di compiere il male si può parlare di vera libertà: è libero, e dunque responsabile o meritevole di premio, solo colui che pur potendo compiere il male, sceglie però consapevolmente di stare dalla parte del bene. Non è libero, e non ha quindi neanche merito, colui che compie il bene in modo ingenuo, per caso o per necessità, perché per lui il bene è una scelta come un'altra, indifferente, privata del suo valore morale che le deriva solo dall'aver rifiutato consapevolmente, liberamente, appunto, il male. Da questo punto di vista anche Dio ha provato la tentazione (poteva anche non creare o essere malvagio), ma l'ha superata eternamente, per sempre: con ciò la sua libertà e il suo amore sono diventati autentici e concreti; l'uomo invece (si pensi al peccato originale) non ha superato la prova cedendo alla tentazione, anche se pur sempre mediante una libera scelta: questa scelta per il male ha però indebolito la sua libertà.
Il fatto che Schelling sia ora disposto a riconoscere al male (e al finito) un'autonomia che non aveva nella filosofia dell'identità, in quanto veniva ridotto in generale ad apparenza, non esclude che esso possa essere concepito come un mezzo, come uno strumento necessario del disegno divino di redenzione dell'universo, consistente nella «separazione finale del bene dal male». Anzi, questa separazione, per essere completa, deve attendere che il male si attualizzi integralmente, e possa così venire sconfitto da Dio per sempre. D'altronde, il male stesso è la condizione dell'amore e della rivelazione di Dio, «giacché ogni essere può rivelarsi soltanto nel suo opposto, l'amore solo nell'odio, l'unità nella discordia» (Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana, p. 106). Le Ricerche filosofiche costituiscono così un'autentica cerniera tra la riflessione del periodo dell'identità e quella teistica - più aperta al confronto con il contenuto di fede cristiano - che caratterizzerà l'ultimo periodo del filosofare di Schelling.
L'ultima filosofia di Schelling, quella che egli elabora tra Monaco e Berlino a partire dal 1827, affronta il problema del rapporto tra Dio e il pensiero filosofico. Come è possibile pensare Dio, se questo non è più l'assoluto concepito dalle filosofie razionalistiche, ma è un Dio libero, personale e creatore?
La fìlosofìa che Schelling definisce negativa concepisce Dio e l'essere in generale solo nel puro pensiero, prescindendo da ogni riferimento all'esistenza effettiva che tale filosofia, d'altronde, trincerandosi nella pura ragione, non può nemmeno cogliere: Schelling ammette con Kant che l'esistenza è infatti posizione assoluta e non un predicato come argomentato dalla dialettica della ragion pura che aveva confutato la prova ontologica, negando la possibilità di equiparare il piano del pensabile a quello dell'esistere. La filosofia negativa rimane nell'ambito del logicamente possibile, coglie dunque l'essenza, il Was (il che cosa), delle cose, non il loro esistere effettivo, il Dass (il che), il quale ci viene fornito non dalla ragione, ma dall'esperienza e dall'intuizione. Come precisa Schelling, «la filosofia negativa deve riconoscersi come scienza in cui non si parla affatto di esistenza, di ciò che realmente esiste, (...) ma soltanto dei rapporti che gli oggetti assumono nel pensiero puro» (Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna, p. 100).
Con ciò si esclude anche il passaggio diretto dall'ordine logico a quello ontologico. Il concetto infatti, di per sé, non può condurre all'esistenza uscendo fuori dal suo orizzonte puramente mentale. Era questo un problema già emerso nella filosofia dell'identità nei termini della giustificazione della realtà, ossia di ciò che concretamente esiste.
In realtà il compito della filosofia negativa resta fondamentale anche per una filosofia che voglia cogliere l'esistente nella sua effettività, in quanto questo esistente deve pur sempre trovare fondamento in una struttura logica, ossia deve comunque essere concepibile e non risultare assurdo; prima di essere reale, l'esistenza deve pur essere possibile. Come scrive Schelling, «tutto ciò che è deve avere anche un rapporto con il concetto» (Saggio sull'origine delle verità eterne, p. 647), e infatti solo il nulla non ce l'ha. Tuttavia la filosofia negativa smarrisce questo ruolo quando vuole innalzarsi a filosofia positiva oltrepassando il proprio limite, credendo cioè di giungere alla posizione extralogica di ciò che effettivamente esiste o di ridurre l'effettivamente esistente all'ambito del concetto.
Ma l'origine dell'esistenza rimanda a un orizzonte pratico e non teoretico, deriva cioè da un libero atto di volontà. Insomma se è vero che tutto ciò che è ha un fondamento logico, essenziale, che si può cogliere con la ragione, non tutto ciò che è pensabile esiste anche effettivamente: che esista, ce lo può dire solo l'esperienza, e in ogni caso la sua esistenza non può derivare dal fatto che un soggetto lo pensi teoricamente, ma dal fatto che un soggetto lo voglia praticamente.
Se la filosofia negativa si limita però a ricostruire l'impalcatura logica dell'esistente, essa può conservare un valore per l'intero sistema, al di là delle oscillanti interpretazioni che Schelling ne darà, proponendola da un lato come semplice propedeutica della filosofia positiva, dall'altro come vera e propria «scienza dei principi».
I principi di tutto l'essere, il «prototipo», il modello logico di ciò che esiste effettivamente è costituito dallo schema delle potenze. Schelling riprende la dottrina delle potenze che, comparsa nella giovanile filosofia della natura, aveva accompagnato tutto il suo itinerario di pensiero: solo che ora essa viene impiegata in un contesto teorico profondamente mutato.
La prima potenza, la «potenza di essere» (Seinkennende), è, come possibilità pura, l'origine del processo che porta all'articolazione e alla differenziazione di tutto l'essere: è cioè una possibilità che può essere tutto, è ancora indecisa, non ha ancora preso forma, è solo materia amorfa e plasmabile. La prima potenza (simbolizzata da Schelling con -A o A1) ha una natura ambigua, può cioè innalzarsi illegittimamente a principio di per sé sussistente (chiamato B: nelle Ricerche filosofiche, il fondamento che si autonomizza, dando origine al male), smarrendo però così la sua originaria identità, o permanere, in modo più autentico, a fondamento della seconda potenza.
La seconda potenza (+A o A2), il puramente essente, è atto, è il limite che delimita e dà forma all'essere assoggettando a sé la prima potenza illimitata (secondo la consueta dialettica limite-illimitato).
La terza potenza (±A o A3) risolve in sé l'opposizione e l'unilateralità dei due principi precedenti. Solo in essa le prime due potenze possono rimanere autenticamente tali, in equilibrio, possono essere salvaguardate nella loro posizione originaria, senza degenerare come principi autonomi, egoistici.
Il movimento dialettico che innesca il divenire non solo dell'essere cosmico, ma anche di quello divino, passa attraverso un processo di tensione e di separazione delle tre potenze dalla loro unità originaria.
Se -A, infatti, invece di porsi legittimamente a fondamento di +A, s'innalza autonomamente a B, tale usurpazione di quell'essere che spettava solo alla seconda potenza provocherà un contraccolpo su tutte le altre potenze che verranno poste al di fuori della loro posizione originaria: +A ad esempio da atto che era, verrà abbassata a possibilità. Questo movimento di inversione di posizioni e di frantumazione dell'unità divina originaria Schelling lo definisce universo, atto con cui Dio sospende il suo essere per ripristinarlo autenticamente, assieme all'unità originaria delle potenze, dopo che ogni possibilità sarà stata realizzata.
In ciò consiste il processo della creazione infradivina che si mantiene ancora cioè all'interno dell'essere divino.
Si tratta cioè della possibilità della creazione, di una creazione per ora solo ideale e archetipica, essenziale e non realmente effettiva o extradivina. Per Schelling la creazione avrebbe dunque innanzi tutto luogo solo in Dio, nella sua mente, mentre come vedremo tra poco, la creazione effettiva della realtà finita è da attribuirsi all'atto di distacco e di insubordinazione dell'uomo, il quale, al centro di quel fenomeno già analizzato della caduta, ha trascinato con sé tutto l'essere rendendolo ora finito e imperfetto in conseguenza di tale allontanamento.
Lo scopo di questo processo e di questa tensione, cioè della creazione ideale, interna ancora a Dio, è, da parte di Dio, emanciparsi dalla sua natura necessaria, primitiva, per guadagnare quell'autentica divinità che consiste nella personalità, nella libertà. Dio, per essere autenticamente libero, deve essere libero anche dalla propria natura, dalla propria essenza, che coincide con la struttura delle potenze. Ma se questa struttura è a fondamento anche del mondo, Dio, liberandosi da essa, si mostrerà libero anche di fronte al mondo, libero cioè di porlo o di non porlo: con ciò Schelling rifiuta uno dei principi della filosofia panteistica che consiste nell'identificazione necessaria di Dio e mondo. Liberarsi dalla propria essenza potenziale non significa annientarla, ma solo, secondo il consueto concetto di libertà idealistica, porla con consapevolezza, portarla alla coscienza. Dopo averle messe in tensione Dio ripristina infatti l'originaria unità delle potenze, di cui ora è consapevole, mentre prima, in quanto tale unità era identica con la sua natura, non ne era consapevole.
E così ciò che vale per Dio, vale per tutto l'essere e per l'uomo: solo rompendo l'equilibrio, l'unità iniziale, rendiamo oggettive le potenze che ci costituiscono, elevandole a componenti consapevoli della nostra libera personalità. Se sono solo preda del mio carattere collerico, non sono libero nei suoi confronti, non posso trattenermi, penso che sia un comportamento normale o l'unico a me possibile; solo dopo essermene reso conto posso controllarmi, il che non significa mutare carattere, ma solo esserne consapevole, e dunque non essere più vittima di un cieco impulso: lungi dall'essere dominato da esso, sono io ora che lo domino.
La filosofia negativa si limita a ricostruire il progetto logico che sta a fondamento dell'essere effettivamente esistente: di ciò che esiste nella realtà, mostra lo scheletro. Ma per comprendere questo reale effettivamente esistente la filosofia negativa si dimostra, come abbiamo già detto, insufficiente e spinge, dal suo interno, verso il superamento in direzione della fìlosofìa positiva, che sola può affrontare l'analisi dell'esistenza. Questo superamento, ovvero il passaggio dalla filosofia negativa a quella positiva, può avere un'origine teoretica o pratica.
Nel primo caso Schelling muove dal risultato ultimo a cui giunge la filosofia negativa e razionale, il quale consiste nel riconoscere un essere supremo che è atto puro: ciò che esiste in modo necessario e indubitabile. Come esempio si pensi al modo in cui Aristotele giunge al concetto di Dio come atto puro. Dio veniva posto cioè alla fine di un processo che di causa in causa rimontava a ciò che era causa prima (o ultima) del movimento e del divenire di tutto l'essere. E come causa ultima esso non poteva più essere suscettibile di movimento. Ma dato che il movimento è da rinvenirsi nella materia, Dio come motore immobile era per Aristotele atto puro, privo di materia.
Ma a questo livello per Schelling, la ragione, che ha raggiunto il suo ultimo concetto, subisce un radicale ribaltamento, ammutolisce di fronte a ciò che, pura esistenza priva di essenza (è qualcosa di essente, qualcosa che è, è un Dass, ma non sa cosa, Was), non offre alcun appiglio alla concettualizzazione e si mostra così come infondato e inspiegato: Schelling definisce questo stato come estasi della ragione, la ragione si trova spiazzata, non sa cosa dire. Compito della filosofia positiva è recuperare questo atto puro al concetto (alla definizione), riconoscendone, solo a posteriori, attraverso l'esperienza, e non a priori, la divinità: ciò significa rintracciare la sua divinità nella natura e nella storia, e non dimostrarla attraverso argomentazioni logiche. D'altronde il Dio a cui giunge la filosofia negativa è un Dio solo concettuale, un Dio il quale, come termine finale di un processo meramente logico, non può porsi, positivamente, come autentico inizio (Dio come creatore). Anche Aristotele lo poneva infatti alla fine, era cioè semplice motore di un movimento già esistente, già presupposto.
Il Dio aristotelico si limita cioè a muovere ciò che già c'è, ma ciò che già c'è da dove è venuto fuori? In altri termini, con la ragione si giunge solo a un assoluto, a un principio ultimo. Come interpretare ora questo principio? È Dio? Occorre provarlo. Ma questa prova la ragione non può darla, almeno non può da sola, perché tutto ciò che essa poteva l'ha fatto conducendoci al Principio ultimo. La ragione deve dunque rivolgersi all'esperienza e interrogarla per definire quel principio, del quale, senza consultare l'esperienza, la natura e la storia cioè, non si può ancora dire che sia Dio. Come dice Schelling, «il Prius (il Principio assoluto a cui ci ha condotto la ragione e la dimostrazione razionale di Aristotele, ma anche di ogni sistema solamente logico in generale) viene conosciuto attraverso ciò che a esso segue» (Filosofia della Rivelazione, p. 215) e la filosofia positiva dovrà «prova[re] per posterius che il prius è Dio». Ora ciò che segue al principio sono la natura e la storia: se in esse la filosofia positiva trova tracce di divinità, allora tale prius sarà Dio.
La seconda modalità del passaggio alla filosofia positiva fa leva sulle esigenze pratico-religiose dell'individuo. Se la filosofia negativa può giungere, al culmine del suo sforzo, a un Dio solo razionale, a un assoluto, tale risultato non appaga certo «l'Io che, essendo esso stesso personalità, esige una persona che sia al di fuori del mondo e al di sopra dell'universale, una persona che lo comprenda, un cuore che sia uguale a lui». (Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, p. 615).
Compito della filosofia positiva è dare risposta a questa richiesta dell'uomo rintracciando nel divenire storico, a posteriori come si è detto, la verità per la quale il necessariamente esistente della dimensione logico-negativa è positivamente il Dio della fede. In ciò risiede anche il particolare rovesciamento che Schelling propone dell'argomento ontologico: non dal concetto all'esistenza, ma da questa a quello attraverso l'indagine della coscienza che l'uomo ha del divino. Da qui il duplice ambito di indagine della filosofia positiva: la religione mitologica e quella rivelata, momenti diversi della manifestazione del divino nella coscienza degli uomini. A fondamento dunque di queste riflessioni di Schelling vi è la consapevolezza per cui il Dio razionale, dei filosofi (l'assoluto, il motore immobile, il principio, primo o ultimo che sia), non sempre coincide con il Dio della fede.
Alla base della filosofia della mitologia schellinghiana vi è una mutata interpretazione del valore di verità del mito, i cui contenuti non debbono essere considerati come semplici prodotti di una immaginazione poetica, né come allegorie che celerebbero delle verità astratte. Il mito ha invece un carattere oggettivo perché esso non è frutto dell'invenzione, della fantasia di un singolo, ma è il modo in cui la coscienza vive in una determinata epoca il divino.
Lo schema del processo mitologico è il seguente. L'uomo originario, culmine della creazione ideale, in quanto in esso le potenze ritornano all'unità dopo essere entrate in tensione reciproca, viveva, in una dimensione sovrastorica, in un'intimità sostanziale con il divino, non avendo però di esso consapevolezza.
Tuttavia l'uomo originario ridesta nuovamente la tensione tra quelle potenze che avevano trovato in lui la quiete, ponendosi così al di fuori dell'armonia divina: è questa la spiegazione filosofica dell'episodio biblico della caduta. Cadendo, l'uomo pone al contempo il mondo extradivinamente, si fa, in un certo modo, creatore del mondo reale, sensibile che si è originato dopo la caduta, deresponsabilizzando Dio, che era creatore solo del mondo perfetto, infradivino, reale solo nella sua mente.
Infatti per Schelling «non si può pensare Dio come causa, autore, di ciò che nelle cose vi è di extra» - o antidivino -, ovvero «sarebbe una contraddizione affermare: Dio è un creatore di fenomeni», delle cose in quanto soggette al tempo, perché «la creazione è creazione di cose in sé» (Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, p. 309). Il mondo materiale, fenomenico, deriva allora da quell'atto di insubordinazione dell'uomo che si distacca da Dio per far valere la propria volontà: «L'atto impenetrabile dell'egoità di ognuno è al contempo l'atto attraverso il quale viene posto per lui questo mondo, il mondo al di fuori dell'Idea», (Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, p. 413) cioè di Dio.
Dapprima l'uomo vive ancora in una certa armonia con Dio, il quale viene riconosciuto come unico: ma è questo un monoteismo solamente relativo rispetto a quello originario, più vero, precedente la caduta. Ad esso seguirà il succedersi delle rappresentazioni mitologiche.
Attraverso il processo mitologico l'uomo caduto ricostituisce quell'unità originaria, vissuta dapprima necessariamente e ciecamente con il divino. Anche qui appare centrale l'idea di una tensione tra le potenze, poiché il politeismo non è altro che il succedersi delle potenze nel loro dominio sulla coscienza umana.
Il culmine di questo processo viene individuato da Schelling nei misteri greci, in cui si annuncia l'avvento del dio spirituale e che rappresentano perciò la religione «più vicina al cristianesimo». Il politeismo viene così riconosciuto da Schelling come momento necessario di transizione verso l'autentico monoteismo e dunque non viene interpretato come un insieme di false rappresentazioni, bensì come strumento provvidenziale di un processo che giunge a ripristinare, gradualmente, la verità.
Ma la riconciliazione definitiva tra Dio e l'uomo può avvenire solo grazie alla Rivelazione cristiana, la cui parte centrale è costituita per Schelling dalla dottrina della Trinità, interpretata secondo lo schema filosofico delle potenze.
Ad ogni persona della Trinità corrisponde un'epoca del processo teo-cosmogonico, un eone (dal greco, età), in cui ogni persona regna come sovrano esclusivo:
• nella prima epoca (corrispondente all'Antico Testamento) sia l'essere in generale che il Figlio sono indistinti nel Padre, il quale era prima di ogni tempo: non si ha dunque qui un autentico essere extradivino;
• nell'epoca del Figlio (corrispondente al Nuovo Testamento), che è l'epoca presente della storia del mondo originata dalla caduta, si compie la distinzione della seconda persona trinitaria e dell'essere dal Padre;
• richiamandosi al teologo e mistico calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1202), Schelling individua infine nell'epoca dello spirito, quella del «Vangelo eterno», l'epoca in cui si compirà il disegno escatologico (in cui si svelerà il senso ultimo, in greco éskhatos, della creazione) di Dio e si realizzerà compiutamente la sua signoria. Questa epoca si pone dunque dopo il tempo (coincide con l'eternità) e segna il ritorno della creazione nel seno del Padre, con la conseguente rigenerazìone di tutto l'essere, anche del male, poiché il peccato non è eterno.
Con queste parole, Schelling sintetizza le tre epoche della Trinità e il loro significato complessivo, mostrando come l'età dello spirito non annulli i precedenti domini del Padre e del Figlio, ma sopraggiunga a inverare, a realizzare in maniera compiuta e definitiva la Rivelazione stessa: «Per noi quella successione ha qui il senso più largo e universale che tutto, cioè l'intera creazione, l'intero grande svolgimento delle cose, esce dal Padre - attraverso il Figlio - verso lo Spirito. Il Padre era prima cioè prima di ogni tempo, il Figlio è nel tempo, egli è la Personalità dominatrice durante la creazione presente, lo Spirito sarà dopo il tempo come l'ultimo Signore della creazione compiuta, ritornata nel suo principio, dunque rientrata nel Padre: non che allora la Signoria del Padre e del Figlio cessi; solo, la Signoria dello Spirito sopravviene a quella del Padre e a quella del Figlio. Solo con questo la Signoria è compiutamente rivelata e realizzata». (Filosofia della rivelazione, p. 1003)
Parallelamente alle tre epoche trinitarie, Schelling interpreta il ruolo degli apostoli Pietro, Paolo e Giovanni, posti a scandire le tre epoche della Chiesa. Pietro è il legislatore (e con ciò, erede della tradizione dell'Antico Testamento), colui che pone il fondamento della Chiesa: questi caratteri sono ancora presenti nella Chiesa cattolica. Paolo è il principio di rinnovamento e di libertà della Chiesa: la sua opera è stata proseguita dalla riforma protestante; con Giovanni si apre invece l'epoca futura della Chiesa in cui giungeranno a conciliazione il tratto fondativo del cattolicesimo e quello della grazia proprio del protestantesimo.