Sviluppiamo in sintesi tutti i punti cruciali del confronto critico che abbiamo instaurato tra Platone e Kant per aver uno sguardo d'insieme dei vari problemi sollevati nel corso dello sviluppo delle varie pagine precedenti. Il percorso sarà condizionato dall'ordine con cui i vari problemi emergono nello sviluppo delle due opere kantiane: partendo dunque dall'analisi della Critica della ragion Pura e proseguendo con la Critica della ragion pratica.
Il primo punto riguarda il concetto stesso di Idea. La forma del pensiero universale si affaccia in Platone dallo stimolo offerto dalla definizone socratica e trova un primo importante elemento di intepretazione nel Menone e nel Fedone. Nel primo dialogo Platone immagina la radice ultima del sapere come frutto del ricordo dell’anima preesistente che conosce la verità a contatto col mondo delle Idee, dove esse risiedono. Nel secondo comincia a porre una definizone coerente di questi principi superiori e trascendenti che rappresentano i criteri ultimi del pensiero razionale e dunque la verità stessa.
Questa definizione implica dunque un ruolo preciso delle Idee e un valore ontologico: sono i criteri ultimi del sapere, i principi mediante i quali si sviluppa la nostra conoscenza della realtà e si trovano in un mondo superiore trascendente il nostro mondo. Fatto che spinge Platone a negare valore alla conoscenza sensibile a vantaggio della razionalità. In realtà questa caratterizzazione ci mostra la vicinanza all’a priori kantiano: anche qui esistono criteri razionali per l’organizzazione del sapere. Il metodo per individuarli è definito trascendentale perché deve risalire oltre l’esperienza e le modalità della conoscenza concreta sino a cogliere le condizioni prime, a priori, della razionalità. In altri termini la funzione dell’a priori razionale kantiano e delle Idee platoniche sono certamente simili.
Si potrà obiettare che però in Kant anche la sensibilità ha le sue intuizioni a priori: lo spazio e il tempo.
In effetti questo aspetto poteva valere per il Platone della Repubblica ma non per il Platone della maturità. La soluzione è offerta proprio dall'affresco del Timeo dove lo spazio e il tempo sono rappresentati come immagini del mondo ideale. Sono dunque l’a priori di ogni realtà sensibile e di ogni forma di misura del cosmo. Dunque si trovano in una posizione analoga alle intuizioni sensibili dell’Estetica trascendentale che giustificano la realtà delle qualità primarie e fondano geometria e aritmetica. Il principio della misura che ordina il cosmo è il fondamento di quell'ordine geometrico matematico di cui è fatto il cosmo del Timeo mentre in Kant i criteri spazio temporali son insiti nella capacità dell'uomo di fare esperienza: non sono nel cosmo nel quale siamo immersi ma siamo noi, per così dire, a fare il cosmo perché siamo noi a dare ordine e misura all'esperienza, grazie alle intuizioni spazio-temporali. In effetti la differenza resta altrettanto importante quanto le vistose analogie.
Ma non bisogna dimenticare che se Kant non si addentra nel terreno mitico e ontologico che anima il discorso platonico è anche vero che Platone vede il suo cosmo demiurgico come somiglianza col mondo ideale, dunque come discorso umano. Sotto le vesti del mito la finalità resta quasi identica; per entrambi si tratta di dare un criterio razionale di ordine matematico alla realtà dell’esperienza. E per entrambi si tratta di superare una visione scettica del sapere razionale: il problema sofistico in questo senso non è molto differente dal problema di Hume. Certo con le dovute differenze: i Sofisti mettevano in discussione il valore dell’esperienza mentre Hume poneva in discussione il valore della scienza. Ma il relativismo di entrambi trova nel principio matematizzante della misura una risposta solida che può dare oggettività alla conoscenza del mondo sensibile.
Un’acquisizione platonica che ha influenzato profondamente il metodo sperimentale galileiano e che resta sullo sfondo dell’analisi kantiana.
L’analogia nella visione del mondo sensibile rafforza la possibilità di proseguire il parallelismo anche sul piano propriamente razionale.
In Platone lo sviluppo della concezione delle idee passa attraverso tutti i suoi dialoghi. Il passaggio cruciale è determinato, come abbiamo visto, dal Parmenide. Nei dialoghi successivi il pensiero razionale smette di essere quasi un oggetto, come parrebbe nell’ontologia eleatica. Pensare razionalmente smette di essere una meccanica reminiscenza di cose di un mondo superiore per diventare soprattutto un sistema di principi capaci di unificare la realtà. Questo passaggio ulteriore avvicina ancora il modello di apriorismo presente in entrambi.
In Kant i principi di unificazione dell’esperienza sono le categorie: quantità, qualità, relazione e modalità. Ma una visione analoga dei principi razionali del reale si trova anche in Platone nel Teeteto. Esattamente nel testo che abbiamo già visto, Platone sviluppa una profonda riflessione sul fatto che è l’anima «a stabilire ciò che nelle cose c'è di comune» che sembra decisamente in sintonia con l’io penso kantiano nonostante le differenze. E se l’anima-io penso sta sul fondo della realtà unificante del pensiero le stesse categorie, i principi unificanti, sono raggrupati nel dialogo in modo molto simile, visti i riferimenti platonici alla quantità, alla qualità alla relazione e all’essere. La differenza maggiore sembrerebbe terminologicamente nel quarto gruppo di categorie che Kant definise della Modalità ma se sis guarda al senso di quell’espressione e al fatto che le tre categorie del gruppo - possibilità, realtà e necessità - riguardano l’essere in rapporto al tempo possiamo dire che Platone colga esattamente il problema partendo dall’essere visto che «l'anima indaga l'essere, soprattutto con l'esaminare i rapporti che hanno tra loro nel passato, nel presente e nel futuro», mostrando ancora una volta la forte analogia dei temi, seppure letta da punti di vista differenti. Non va domenticato che il problema del tempo i raporto all’essere in Kant è lla base anche del gruppo di categorie di relazione. Sono entrambi gruppi di categrie dinamiche che riguradno al conosnceza scientifica (cioè fisica) della realtà. Sono i cardini del metodo sperimentale, fatto che spiega la distanza e l’analogia che intercorre tra le due prospettive.
Sul piano dei primi due gruppi di categorie l’analogia risulta più forte anche sul piano della stessa classificazione interna. Infatti al primo gruppo (quantità) vanno ascritte:Unità, Pluralità, Totalità che rappresentano la dimensione stessa del probema dell’unità del molteplice oggetto di tutti i dialoghi dialettici. Così come non meno affini appaiono le categorie di qualità: Realtà, Negazione, Limitazione. Esse rappresentano nella loro struttura lo stesso metodo diairetico che sviluppa la dialettica platonica a partire dal Sofista. In effetti, la struttura della divisione tra idee segue un andamento che risulta familiare con la logica delle categorie di qualità di Kant. Fermo restando che il loro campo di applicazione risulta pur sempre la scienza sperimentale e non sono completamente sovrapponibili le realtà significate nelle due diverse filosofie.
Un ultimo punto decisivo va individuato nel problema dello schematismo trascendentale kantiano che poggia sull'immaginazione produttiva. Stando a quella definizione l’immaginazione può essere definita da quanto scrive Cassirer «lo schema non è il fantasma sbiadito di un oggetto empirico e concreto, ma per così dire l'archetipo e il modello per gli oggetti possibili dell'esperienza». Certo si tratta di un modello archetipo che si snoda lungo il carattere proprio della conoscenza scientifica moderna ma mostra i caratteri salienti dell’attività del demiurgo platonico. Anche il demiurgo plasma la materia secondo un modello che si ispira all'archetipo ideale. In un certo senso la conoscenza scientifica che poggia sull'immaginazione produttiva tratta il materiale che viene dai sensi dandogli forma attraverso l’attività plastica determinata& dall'immaginazione produttiva attraverso gli schemi. Certo una differenza essenziale resta tra le due visioni ed è la stessa questione che divide il “platonico” Galilei dal Timeo stesso. In Platone la forma plastica che il Demiurgo attribuisce alla materia resta solo immagine e somiglianza col mondo ideale e determina una conoscenza della natura solo verosimile. In Kant l’attività demiurgica, per così dire, realizzata attraverso gli schemi trascendentali, che sono il ponte tra ragione e intuizioni sensibili, non produce una conoscenza verosimile ma una conoscenza universale e necessaria visto che sono regolati dalle categorie. Sono queste ultime a decretare la necessità della scienza kantiana in opposizione alle obiezioni di Hume.
In tal senso il parallelo suggerisce un’ulteriore riflessione sul ruolo del mondo delle idee nel mito del Demiurgo platonico rispetto al ruolo dell’a priori categorico nello sviluppo dello schematismo trascendentale. Certamente un tratto comune esiste anche qui. Entrambe le posizioni sono una risposta al problema dei rapporti tra mondo razionale e mondo sensibile ed entrambe hanno al centro il problema dei rapporti tra l’unità razionale e il molteplice sensibile.
Ma diversa è la posizione strategica del razionale tra il mondo ideale platonico e il giudizio sintetico a priori. In Platone la razionalità affonda le sue radici in una realtà indipendente e trascendente che è al di là delle realizzazioni umane. In Kant la realizzazione umana attraverso gli schemi è definitiva e non risponde del tutto al problema del rapporto uno-molti perché dà per scontata l’esistenza di una comune razionalità negli uomini ma non spiega perché questa comunanza dovrebbe essere identica in tutti. Non spiega l’unità del molteplice razionale di cui tutti gli uomini partecipano.
La presenza (parusia) di una comune razionalità fa tutti gli uomini partecipa (metessi) della stessa unica e identica idea di ragione o è solo una somiglianza (mimesi)? Come si vede è esattamente uno dei problemi del Platone dialettico: in effetti ogni io penso kantiano potrebbe essere paragonabile a un'idea platonica e aprirebbe un dibattito analogo a quello platonico circa i rapporti tra le idee. Non sono le idee realtà razionali alla stessa stregua dei vari io penso, cioè dei singoli uomini dotati di ragione? Una questione interessante che Kant, fermandosi alla realtà dell'io penso come struttura formale della conoscenza non investiga perché, dal suo punto di vista, sarebbe uno sconfinamento in quella dialettica delle illusioni con cui ha liquidato i problemi del pensiero circa i presupposti ultimi della realtà e della conoscenza. In effetti per Kant l'unica conoscenza autorizzata è quella del metodo scientifico che si ferma prima della dialettica della ragione.
Per Kant la conoscenza scientifica esige la certezza e l’universalità del suo metodo. Solo così si sfugge all'obiezione di Hume e si giustifica l’ideale della scienza come conoscenza razionalmente certa fatta di leggi la cui necessità è nella logica razionale con cui sono sintetizzate dall'intelletto.
Naturalmente siamo sul piano della scienza post-galileiana che parte dalle qualità primarie dell’esperienza e Kant pone come premessa della conoscenza le intuizioni sensibili pure a priori per giustificare la percezione intuitiva dei fenomeni spazio-temporali sui quali fonda la geometria e l’aritmetica. Ma anche l’aspetto propriamente attivo e razionale dell’a priori che giunge trascendentalmente alle categorie e allo stesso io penso, come principio unitario sintetico della conoscenza razionale, si completa attraverso la dottrina dello schematismo trascendentale nella quale la sintesi diventa figurata nel senso che si sviluppa creando le regole per la comprensione razionale dell’esperienza in termini matematico-geometrici secondo il metodo sperimentale così come Galilei lo ha concepito.
Se dovessimo immaginare di costruire una linea della conoscenza, secondo lo schema elaborato da Platone nella Repubblica, dovremmo pensare a una concettualizzazione che dovrebbe seguire questa sequenza.
In primo luogo la conoscenza sensibile, la doxa platonica. Platone parlava di conoscenza apparente su due livelli distinti ma entrambi al di sotto della conoscenza scientifica che era di natura puramente razionale. Questa posizione della conoscenza sensibile è estranea al pensiero di Kant per il quale anche la sensibilità e le sue intuizioni pure, spazio-tempo, sono parte integrante della conoscenza scientifica, ne sono il punto di partenza oggettivo nell’esperienza attraverso la geometria e l’aritmetica. L’esperienza per Kant, a differenza di Platone, è misurabile, fatta di quelle qualità primarie teorizzate da Galilei.
Tuttavia anche per Kant c’è una conoscenza opinabile secondo lo schema ipotizzato da Platone. Si tratta anche qui di una forma di immaginazione, come l’eikasia platonica, che in Kant è l’immaginazione riproduttiva, da non confondersi con l’immaginazione produttiva dello schematismo trascendentale, come scrive lo stesso Kant:
«Ora, per ciò che l'immaginazione possiede di spontaneità, io la designo talvolta anche col nome di immaginazione produttiva, distinguendola così dalla riproduttiva, la cui sintesi ubbidisce semplicemente a leggi empiriche, cioè a quelle dell'associazione, la quale non è in grado di dare alcun contributo alla spiegazione della possibilità della conoscenza a priori, e rientra, anziché nella filosofia trascendentale, nella psicologia».
Questa immaginazione, ripetiamo, non è ovviamente quella produttiva dello schematismo perciò è fuori dalla scienza, dal trascendentale. Allo stesso modo, per analogia, si può ritrovare un livello di conoscenza sensibile paragonabile alla pistis, credenza, che può essere individuato nel giudizio sintetico a posteriori. Sono tali i giudizi che si formulano solo dopo aver fatto esperienza e per questo, essendo collegati alla sensibilità, non hanno universalità e necessità ma sono estensivi della conoscenza. Questo è il tipo di giudizio usato da Hume che considera pertanto la scienza solo abitudine e credenza.
Dunque la conoscenza opinabile di Platone ritrova i suoi riferimenti anche in Kant nei due livelli che abbiamo individuato. Certo rispetto alla visione della conoscenza de La Repubblica diventa difficile, a tutta prima, ricollocare la struttura della conoscenza trascendentale kantiana, visto il suo stretto legame tra sensibilità e intelletto. La conoscenza razionale platonica, l’episteme, riguarda infatti la pura conoscenza razionale suddivisa in dianoetica e noetica. La prima in Platone simboleggia la conoscenza matematica la seconda la dialettica. Quest’ultima sarà oggetto del confronto nelle pagine successive, partendo dalla dialettica trascendentale della ragione in Kant. Mentre la prima, la conoscenza dianoetica, stimola ulteriori riflessioni nell’accostamento tra le due visioni della conoscenza. Per Platone la conoscenza discorsiva, dianoetica, è rappresentata dal procedimento ipotetico deduttivo della geometria che implica una dimensione deduttiva e dunque un antecedente e un conseguente. Questa struttura razionale in Kant è sempre legata in qualche misura alla capacità di conoscere razionalmente l’esperienza in quella scienza mista che sta proprio esattamente a metà strada tra doxa ed episteme platonica. A dire il vero quella scienza media come doxa vera si ritrova nel lungo lavoro di affinamento ed approfondimento delle idee che Platone sviluppa nei dialoghi dialettici a partire dalle riserve critiche del Parmenide. Ma per ciò che interessa il confronto con Kant, partendo dalla questione della scientificità, i parametri de La repubblica sono già molto ricchi di implicazioni critiche.
Visto il ruolo e il senso che la conoscenza dianoetica assume all'interno dell’impalcatura della scienza kantiana ipotizziamo che questo ruolo discorsivo spetti di diritto alle categorie e all'io penso. L’insieme delle categorie e della deduzione trascendentale, che culmina nell’io penso quale principio sintetico del pensiero, ha i caratteri di discorsività che Platone attribuiva alla conoscenza dianoetica della geometria perché ne mantiene la valenza e il significato ordinatore nei confronti dell’esperienza. Sono il piano razionale superiore al quale Kant affida, attraverso l’analisi trascendentale, il compito di dare universalità razionale all'esperienza. Esattamente quel compito che discorsivamente anche per Kant esercitano le categorie.
Se infine affidiamo all'immaginazione produttiva il compito di scienza media, visto che produce schemi da applicare all'esperienza, si può dire che la linea del sapere kantiano può essere così riassunta:
doxa composta da eikasia (immaginazione riproduttiva di ordine psicologico) e pistis (giudizio sintetico a posteriori non necessario ma semplice incremento della conoscenza senza alcuna necessità).
Scienza media o mista nella quale si ritrova l’immaginazione produttiva capace di dare regole costruttive per raggiungere l’esperienza attraverso modelli di spiegazione definiti con la dottrina dello schematismo trascendentale.
Infine Episteme come pura conoscenza discorsiva ottenuta attraverso l’impiego delle categorie e della loro deduzione trascendentale in quanto basate su giudizi sintetici a priori. Manca del tutto una riflessione sulle dinamiche razionali delle unificazioni prodotte dalle categorie e una trattazione della dialettica in senso positivo perché, come vedremo, per Kant, almeno qui nella Critica della ragion pura, la dialettica e sinonimo di illusione ingannevole e non possiede alcuna rilevanza scientifica.
Ecco dunque lo schema che accomuna le due visioni della filosofia:
Demiurgo
Opinione Vera
Platone Eikasia Pistis Dianoia Noesis
____________|_____________ ________________|______________________
Doxa Episteme
Kant immaginazione | giudizio sint. Io penso+ | ?
riproduttiva | a posteriori categorie |
Schematismo Trascendentale
Scienziato (demiurgo?)
lo schema riproduce passo passo il rapporto tra i gradi della conoscenza di Platone e i punti paralleli in Kant. Il primo grado dell'apparenza è l'immaginazione riproduttiva che è parallela all'eikasia. L'immaginazione riproduttiva, come già detto, nella classificazione kantiana rappresenta in realtà l'immaginazione psicologica, il normale processo della nostra fantasia, distinto da quella che Kant chiama immaginazione produttiva. Alla pistis corrispondono i giudizi sintetici a posteriori. Platone considera la pistis conoscenza vera e propria ma priva di quella necessità razionale propria dei gradi successivi. Esattamente come Kant che considera il giudizio sintetico a posteriori un giudizio capace di aumentare la nostra conoscenza ma non dotato di quella necessità che appartiene solo alle categorie, il fondamento della conoscenza razionale. Il passaggio alla conoscenza razionale avviene attraverso la dianoia la conoscenza discorsivo-razionale che Platone identifica soprattutto nella matematica e Kant svolge analogamente nei giudizi sintetici a priori che assieme all'Io penso, il principio dell'unità del sapere e dell'identità dell'io, rappresenta la struttura razionale mediante la quale conosciamo. La differenza su questo punto è comunque già significativa. Per Kant le categorie sono strutture definitive razionali mentre in Platone la conoscenza dianoetica ha una funzione mediatrice con le idee trascendenti che stanno oltre di noi. In Kant l'a priori delle categorie si definisce trascendentale perché risulta alla radice razionale dell'io in modo immutabile. Una prospettiva che non appartiene alla mentalità di Platone che vede nella ragione umana, e nel complesso di relazioni che instaura per comprendere la realtà, un riflesso della vera realtà superiore, del mondo divino e prefetto delle idee che non possiamo conoscere direttamente in questa vita.
Solo l'anima risalendo nell'iperuranio senza il corpo può contemplare la verità assoluta delle idee. Questa differenza di prospettiva aiuta a meglio inquadrare la polemica kantiana contro la metafisica. Per Kant la razionalità è nel singolo individuo e non a oltre. Non c'è alcun mondo superiore dal quale la razionalità umana tragga giustificazione e realtà. Per Platone l'esistenza stessa della razionalità individuale ci spinge ad approfondire le domande che riguardano l'origine di questo mistero della conoscenza e della nostra stessa realtà: chi siamo da dove veniamo e dove andiamo. Per comprendere pienamente la differenza& dobbiamo rivolgerci ai problemi comuni che scaturiscono da una visione della realtà nella quale il rapporto tra ragione ed esperienza, tra episteme e doxa, deve essere giustificato. Sappiamo che questo è uno dei problemi sui quali si concentra la meditazione dei dialoghi dialettici di Platone.
Ma questo stesso problema dei rapporti tra ragione ed esperienza esiste anche in Kant che lo sviluppa nella dottrina dello schematismo trascendentale. Questa dottrina risulta parallela al rapporto tra mondo delle idee e mondo sensibile in Platone e si trova ad avere la stessa funzione di collegamento. Infatti così come Platone deve spiegare il rapporto tra i singoli individui nel mondo sensibile e le idee universali, così Kant deve chiarire il rapporto tra le categorie a priori (universali) e l'esperienza fenomenica sempre individuale. Si potrebbe dire che Platone, in tal senso, ha un qualche vantaggio perché esiste una simmetria tra la conoscenza razionale e quella sensibile. Si tratta di saper analizzare i caratteri propri della realtà per ottenere attraverso il metodo diairetico una conoscenza razionale corrispondente alle caratteristiche della realtà stessa delle cose.
In Kant l'inconoscibilità di fondo della realtà in sé degli oggetti dell'esperienza (in quanto noumeni), ricostruiti attraverso ciò che ci appare nello spazio tempo della nostra sensibilità (fenomeni), rende più problematico il collegamento tra ragione e fenomeno.
In altri termini, il collegamento tra ragione ed esperienza in Kant, rispetto a Platone, non può avere a disposizione la realtà di un mondo superiore oggettivo come punto di appoggio. Per questo motivo Platone può costruire la doxa vera, cioè l'immagine vera della realtà, grazie alla diairesis dialettica che può cercare di comprendere la struttura della realtà del cosmo(la metafora del macellaio, utilizzata dallo stesso Platone, che sa dove e come tagliare le parti è molto eloquente), come analoga al mondo superiore in base a quanto afferma il Timeo sul Demiurgo il quale plasma la materia per formare il cosmo come immagine bella del mondo divino. Kant, invece, può solo affidarsi alle immagini, meglio, ai modelli o schemi trascendentali mediante i quali possiamo decifrare l'insieme dell'esperienza. Tuttavia anche con questa limitazione esiste una forte analogia tra le due prospettive. Se in Platone l'imitazione del mondo vero mette il Demiurgo al riparo dall'ipotesi che quanto afferma sia legato al puro arbitrio (e dunque a un'ipotesi vicina al relativismo dei Sofisti), in Kant la vera figura che si staglia sullo sfondo è quella dello scienziato.
Così come il demiurgo plasma la materia secondo ordine e misura, lo scienziato trova già la materia (il fenomeno) misurata grazie allo spazio e al tempo delle intuizioni sensibili, in quanto fondamento matematico dell'esperienza, ma procede all'ordine razionale del cosmo grazie all'io penso e alle categorie. La sua unica garanzia di oggettività, per paradossale che possa sembrare, è affidata alla razionalità presente in ciascun uomo.
Razionalità che, peraltro, non è garantita da nessuna ipotesi in grado di giustificarne la reale esistenza: chi garantisce che davvero universalmente gli uomini siano dotati di quelle caratteristiche razionali che Kant sostiene essere in ciascun uomo? Chi o cosa garantisce questa realtà razionale come vera? Il dubbio su questo nodo porterebbe molto vicino alla posizione di Hume e dunque molto vicino anche ai Sofisti. Rispetto al momento della nascita della scienza moderna in Galilei, Kant sembra aver rovesciato quella fiducia dello scienziato italiano nel valore delle conoscenze scientifiche che poggiava, in modo originale, su alcuni spunti del Timeo di Platone. Galilei è convinto di avere una metafisica che spieghi e giustifichi il valore assoluto e definitivo delle leggi scientifiche da lui sviluppate, attraverso i suoi esperimenti e le sue osservazioni. Proprio perché le leggi scientifiche sono le stesse con cui Dio ha creato il mondo.
Ma Kant ha rinunciato, proprio nella dialettica trascendentale, a qualunque possibilità di spiegare e sondare i problemi metafisici:«l'assoluta (incondizionata) unità del soggetto pensante,la seconda l'assoluta unità della serie delle condizioni del fenomeno ,la terza l'assoluta unità della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale» sono solo illusioni. Dunque non sono in grado di fornire elementi per comprendere il valore del nostro pensiero e della stessa realtà.
E proprio questa rinuncia al sapere metafisico, cioè al sapere che va al di là delle apparenze per cogliere il significato profondo della realtà, rappresenta il punto di maggior distanza tra le due prospettive.
Per comprendere le differenze e le analogie nel concetto di scienza abbiamo integrato lo schema dei quattro gradi della conoscenza della Repubblica col sapere dalla scienza media dove l'opinione vera di Platone ha un ruolo analogo a quello dello schematismo trascendentale di Kant. Ma abbiamo collocato sotto la noesis platonica (il sapere dialettico inteso come momento intuitivo della conoscenza) un punto interrogativo in corrispondenza dei punti paralleli di Kant, a indicare l'impossibilità, almeno presunta, di parlare dei temi metafisici (l'immortalità dell'anima, la libertà dell'uomo e l'esistenza di Dio) in quanto frutto di illusioni.
La ragione è data dal fatto che per Kant l'unica forma di conoscenza attendibile è quella che si lega strettamente all'esperienza applicando le categorie, cioè la scienza sperimentale. Nella scienza all'oggettività delle qualità primarie delle cose, di cui parlava Galilei, si assommano le caratteristiche razionali della nostra ragione che afferra e concettualizza l'esperienza attraverso lo schematismo trascendentale, cioè attraverso i suoi modelli concettuali (=le struttura dello schematismo che servono per comprendere l'esperienza in modo adeguato alla nostra razionalità, cioè alle categorie).
Alla luce di quanto Kant stesso afferma, possiamo completare la trattazione sin qui svolta ricordando come,
il mondo sensibile (fenomenico) è conoscibile mediante l'applicazione delle categorie della facoltà intellettiva ai fenomeni con la conseguente svalutazione della dialettica che non avrebbe alcuna possibiltà di fornire conoscenze adeguate del mondo superiore che sta al di là dell'esperienza cioè noumeno, puro pensiero non verificabile sperimentalmente.
Ma questa che sembrerebbe l'ultima parola d Kant trova una soluzione differente quando il discorso si sposta dall'ambito scientifico all'ambito etico.
In questo secondo caso il mondo intelligibile (noumenico) è oggetto possibile di un'esperienza morale quando il soggetto agisce conformando i propri desideri all'idea di libertà e alla legge morale presenti a priori nella facoltà razionale. Fatto questo che merita un approfondimento per verificare se questo apparente spostamento di ambito che, secondo Kant, nulla ha a che fare con la metafisica non sia, in realtà, anche un recupero di quella dialettica svalutata nella Critica della ragion pura.
L'aspetto che occorre verificare riguarda la possibilità che Kant abbia di fatto introdotto la dialettica nella Critica della ragion pratica quasi negli stessi termini nei quali la introduce Platone nei suoi scritti come metodo noetico, cioè come strumento per afferrare quel mondo superiore che in questa vita non è mai perfettamente conoscibile ma si può solo scorgere e ipotizzare nei suoi elementi portanti, aoprattutto attraverso l'ausilio del mito. Il metodo noetico, come recita la Repubblica, partendo da ipotesi si eleva sino agli archetipi fondamentali della realtà, cioè alle idee. Con questa ultima verifica delle caratteristiche dialettiche della Critica della ragion pratica si conclude, dunque, la ricerca.
Ripercorriamo in breve i passi principali. Tutta la trattazione delle illusioni della dialettica trascendentale presuppone la distinzione di tutti gli oggetti in fenomeni e noumeni
Il noumeno infatti non deve essere inteso in senso positivo come l'oggetto di un'intuizione non sensibile ma puramente intellettuale, poiché sappiamo che tale tipo di intuizione (intellettuale) non ci appartiene; esso deve invece essere inteso in senso negativo, come ciò che non è oggetto della nostra intuizione sensibile.
Noumenoè quindi soltanto un «concetto limite per descrivere le pretese della sensibilità e di uso perciò puramente negativo. Esso tuttavia non è foggiato ad arbitrio, ma si connette con la limitazione della sensibilità, senza perciò porre nulla di positivo al di fuori del dominio di essa».
In altre parole si cade in forme illusorie quando si pretende di considerare queste affermazioni e la loro plausibilità alla stessa stregua delle affermazioni che scaturivano dalla corretta applicazione del metodo sperimentale, base e fondamento della conoscenza prodotta dall’unione di sensazioni e categorie. Di quel grado della conoscenza che abbiamo considerato come la conoscenza dianoetica in Kant.
Tuttavia la soluzione mostra le difficoltà e l’impaccio nel quale si trova il grande pensatore tedesco. Non si può ricorrere ai noumeni per dare risposte così importanti alla condizione umana ma non se ne può fare a meno, visto quello che Kant scrive nell’Appendice della dialettica trascendentale in cui sviluppa il versante "positivo" della dialettica della ragione:
«Si dice allora, ad esempio: le cose del mondo debbono esser considerate, come se traessero la loro esistenza da una intelligenza suprema. In tal caso, l'idea è propriamente solo un concetto euristico, per nulla ostensivo; essa non mostra in qual modo un oggetto sia costituito, ma in quale modo noi dobbiamo procedere, sotto la guida di quel concetto, a cercare la costituzione e la connessione degli oggetti dell'esperienza in generale. Pertanto, se si può mostrare che, quantunque le tre idee trascendentali (psicologica, cosmologica e teologica) non importino un riferimento diretto ad alcun oggetto che corrisponda a esse, né una determinazione dell'oggetto, tutte le regole dell'uso empirico della ragione, una volta presupposto l'oggetto nell'idea, portano a un'unità sistematica e ampliano comunque la conoscenza sperimentale, senza mai contrastarla - il procedere in base a tali idee costituisce una massima necessaria della ragione. E in ciò consiste la deduzione trascendentale di tutte le idee della ragione speculativa, nella loro qualità non già di princìpi costitutivi per l'estensione della nostra conoscenza a oggetti non compresi nella nostra esperienza, ma di princìpi regolativi dell'unità sistematica del molteplice della conoscenza empirica in generale, che è consolidata e ordinata dentro i suoi limiti; il che non potrebbe aver luogo senza tali idee e col semplice uso dei princìpi dell'intelletto. Renderò la cosa più chiara. Seguendo le suddette idee in qualità di princìpi, prima di tutto collegheremo (nella psicologia) tutti i fenomeni, le operazioni e la recettività del nostro animo secondo il filo conduttore dell'esperienza interna,come se il nostro animo fosse una sostanza semplice, esistente permanentemente (nella vita, almeno) con identità personale, mentre i suoi stati, in cui quelli del corpo rientrano soltanto come condizioni esterne, sono in costante cambiamento. In secondo luogo (nella cosmologia), attraverso un'indagine che non potrà mai aver sosta, incalzeremo la serie delle condizioni, tanto dei fenomeni naturali interni come degli esterni,come se essa fosse in sé infinita e sprovvista di un termine primo e supremo, benché ciò non importi da parte nostra la negazione, fuori di tutti i fenomeni, dei fondamenti primi, puramente intelligibili, di essi fenomeni, anche se non ci è mai permesso di inserirli nella connessione delle spiegazioni naturali, visto che non ne abbiamo conoscenza. Infine, in terzo luogo, dovremo (in relazione alla teologia) assumere tutto ciò che può in qualche modo far parte della connessione dell'esperienza possibile, come se questa esperienza desse luogo a un'unità assoluta, e tuttavia pienamente dipendente e pur sempre condizionata rispetto al mondo sensibile, e come se l'insieme di tutti i fenomeni (il mondo sensibile stesso) avesse, fuori di sé, un unico fondamento, supremo o onnisufficiente, cioè una ragione, per così dire, autosufficiente, originaria e creativa, in rapporto alla quale noi disponiamo ogni uso empirico della nostra ragione nella sua massima estensione, come se gli oggetti provenissero da quel prototipo di ogni ragione. Questo vuol dire, che non bisogna far derivare i fenomeni interni dell'anima da una sostanza semplice pensante, bensì gli uni dagli altri, in base all'idea d'un essere semplice; che non bisogna derivare l'ordine e l'unità sistematica del mondo da una suprema intelligenza ma, invece, dall'idea d'una causa sommamente sapiente, occorre ricavare la regola secondo cui la ragione, nella connessione delle cause e degli effetti nel mondo, sia usata nel modo migliore per la propria soddisfazione.»
Questo testo merita una riflessione vista l’importanza che riveste rispetto al nostro percorso. Abbiamo lasciato sospesa a un punto interrogativo la trattazione della noesis in Kant. Abbiamo già detto qual è il suo ruolo in Platone e vi ritorneremo per completare il raffronto. La nostra trattazione ha assunto come decisiva l’affermazione kantiana sulla inaffidabilità della dialettica. Ma quest’ultimo testo sembra affinare e chiarire meglio il punto di vista kantiano e prepara anche la svolta morale, per così dire, che Kant attuerà nella Critica della ragion pratica.
Qui nel testo dell’Appendice le idee trascendentali, illusorie sul piano della conoscenza, mostrano il loro valore “euristico” cioè la loro utilità come principi attorno ai quali strutturare le concrete conoscenze acquisite dalla scienza sperimentale. In altri termini sono i “principi regolativi” della scienza perché pur non avendo un oggetto (sperimentale) sono fondamentali nel dare un ordine e un senso all’insieme globale della nostra esperienza. L’unità trascendentale dell’io, del mondo e la sua coerenza rispetto all’unità totale espressa dall’idea di una causa sommamente sapiente non sono elementi che io posso afferrare attraverso la conoscenza sperimentale ma che devo presupporre per render degna di significato la stessa scienza concreta. Si tratta dunque di una supposizione che riconosce i noumeni come l’orizzonte stesso nel quale la nostra effettiva conoscenza è possibile e spiegano perché Kant abbia difeso così strenuamente l’esistenza dei noumeni e del mondo esterno. I fenomeni, senza i noumeni, sarebbero incomprensibili e non avrebbero più alcun senso. Tuttavia i noumeni sono appunto oggetti del pensiero, cioè della noesis, e questo ci riporta al genuino significato platonico della dialettica che non sembra essere del tutto estraneo alla trattazione kantiana.
In effetti, la conclusione del testo ci ricorda che l’idea di una causa sommamente sapiente richiede che la ragione sia usata nel modo migliore. Un’affermazione che non può passare inosservata se paragonata a quelle analoghe di Platone sul metodo noetico e sul Bene.
Nel VI libro della Repubblica Platone, come abbiamo visto, definisce la noesis,cioè la dialettica, come il vertice del sapere. Ma la raffigurazione e le motivazioni teoriche portate da Platone nel corso del dialogo sembrano decisamente simili al principio euristico appena introdotto nel discorso kantiano, partendo dall'Appendice della dialettica trascendentale. Per comprendere appieno l’argomentazione bisogna partire dall'immagine del sole come simbolo del bene che viene completata dall'affresco del mito della caverna nel VII libro. Il sole è il principio per il quale noi possiamo vedere in piena luce la vera realtà ma è soprattutto indicato come analogo del Bene nel mondo intellegibile, anzi nell’immagine platonica il sole è “figlio” del Bene: «il Bene generò analogo a sé stesso: e che ciò che il Bene è nel mondo intelligibile rispetto all'intelletto e agli intelligibili, altrettanto è questo [il sole] nel visibile rispetto alla vista e agli oggetti visibili» (508c).
L’analogia spiega lo stato dell'anima: o si eleva nell’intelletto alla luce della verità o resta nella penombra delle apparenze mutando le sue opinioni senza mai raggiungere un punto fermo. Essa conduce dunque a una conseguenza determinante per lo sviluppo della conoscenza platonica: «Or questo elemento che conferisce la verità alle cose conosciute e la facoltà al soggetto conoscente, dì pure che è l'idea del Bene. Ed essa, causa di conoscenza e verità, ritienila a sua volta conoscibile; e pur essendo entrambe, conoscenza e verità, così belle, sarai nel giusto ritenendo questa come cosa da esse diversa ed ancora più bella; mentre la conoscenza e la verità, a quel modo che lì la luce e la vista è giusto ritenerle simili al sole, ma non il sole stesso, cosi è giusto qui ritenerle entrambe simili al bene, ma nessuna delle due ritener che sia il bene, la cui condizione va tenuta in ancor più alto pregio» (508e-509a).
Dunque, al di là dell’immagine, è evidente che anche in Platone il bene ha una funzione euristica fondamentale e rappresenta il principio regolativo attorno al quale si sviluppa la conoscenza del molteplice dell’esperienza. Infatti Platone proseguendo nella sua analogia afferma: «Anche ai conoscibili dunque dirai che venga dal bene non solo l'esser conosciuti, ma che l'essere stesso e la sostanza vengon loro da quello, pur non essendo il bene sostanza, ma superandola ancora per dignità e potenza» (509c).
Sebbene Platone sia decisamente meno rigido nell’applicazione dei principi trascendentali del sapere è indubbio che la sua visione del bene abbia ispirato la visione regolativa dell’ideale della ragione: «dall'idea d'una causa sommamente sapiente, occorre ricavare la regola secondo cui la ragione, nella connessione delle cause e degli effetti nel mondo, sia usata nel modo migliore per la propria soddisfazione».
Il bene platonico rappresenta questa causa sommamente sapiente usata nel modo migliore, cioè bene, che è al di là dello stesso concetto di sostanza. Esattamente come in Kant dove l’idea regolativa della somma sapienza non scaturisce da una suprema intelligenza ma da un principio al di là della sostanza.
E su questo punto un’ultima comparazione risulta particolarmente stimolante. L’idea regolativa kantiana, non va dimenticato, è un noumeno e per questo è oltre la conoscenza scientifica sperimentale. Il noumeno, come già detto rappresenta un ideale negativo, nel senso che parla del limite insuperabile della conoscenza fenomenica indicando che esiste qualcosa che la oltrepassa: oltre il fenomeno che mi appare c’è una realtà che non posso conoscere come i fenomeni ma che è il presupposto dell’esistenza dei fenomeni stessi. Per ciò che riguarda Platone, nonostante il differente registro del discorso, il Bene ha tratti descrittivi non molto distanti da questa sensibilità kantiana. Nel VII libro della Repubblica, mentre sta spiegando il mito della caverna e la sua funzione, così si esprime: «nel campo conoscibile come suprema l'idea del Bene, che a fatica si vede, ma che una volta vista va considerata essa come causa a tutti di tutte le cose rette e belle, generatrice nel visibile della luce e del suo signore [il sole], e nell'intelligibile essa stessa legittima largitrice di verità e di ragione; e che questa deve vedere chi debba saggiamente diportarsi in pubblico ed in privato» (517b-d). Dunque, nello stile più visionario di Platone la funzione regolatrice resta immutata. Certo la logica kantiana parte dal come se mentre Platone parla di verità e realtà intelligibile.
Tuttavia, il parallelismo si mostra ancora più efficace se si va a verificare quali siano le argomentazioni platoniche che accompagnano l’ultimo grado della conoscenza: «l'altra parte invece, non poggiante al principio su ipotesi, l'anima la cerca muovendo da ipotesi ma senza le immagini a essa relative, e compiendo l'indagine proprio con le idee e per mezzo di esse» (510c) l’altra parte della conoscenza razionale è quella noetica che per analogia con la conoscenza sensibile non parte dalle immagini (cioè dall'equivalente dell’eikasìa com’è invece il grado dianoetico) ma dalla realtà stessa delle cose e si sviluppa mediante le idee. Così infatti la spiega lo stesso Platone: «Intendi ora che io dico l'altra sezione dell'intelligibile quella attinta dalla ragione stessa con la forza della dialettica, facendo delle ipotesi non già dei principi bensì dei veri «presupposti», quasi punti d'appoggio e di lancio, affinché movendo sino a ciò che non ha più presupposti, al principio del tutto, ed esso attingendo, e poi attenendosi via via a ciò che da quello deriva, si torni a scendere verso la fine, senza servirsi assolutamente di nulla di sensibile, ma delle idee stesse, per esse e verso esse, e si finisca nelle idee» (511b-c). Dunque la posizione della dialettica non sembra differente da quell'ideale regolativo proposto da Kant. In entrambi i casi il discorso si rivela rigorosamente trascendentale rispetto alla realtà delle cose.
La differenza si coglie solo se si considera il valore che Platone assegna al discorso dialettico razionale che considera come il più alto e il più sicuro, «tu vuoi definire come sia più chiara quella parte del reale e dell'intelligibile che vien contemplata dalla scienza dialettica» (511c).
Ma forse questa differenza potrebbe ulteriormente modificarsi verificando quanto esposto sul significato dei problemi dialettici nell’ultima parte della nella Critica della ragion pratica.
Nella conclusione della su argomentazione sul valore della virtù in rapporto alla felicità Kant parte dalla distinzione fra piano del fenomeno e piano del noumeno. È possibile che la virtù conduca alla felicità. Dobbiamo però pensare questa relazione nell'ordine dell'intellegibile, non del sensibile. Solo in quest'ordine noumenico può esserci dato il Sommo bene come oggetto totale della ragion pratica, ovvero l'unione della virtù, che rende degni della felicità, e della felicità stessa. Per questo motivo occorre ammettere alcuni postulati della ragion pratica: l'immortalità dell'anima, l'esistenza di Dio e la libertà.
La libertà è la condizione dell'intera vita morale, mentre l'immortalità dell’anima e l'esistenza di Dio sono invece le condizioni stesse dell’esistenza di una volontà morale, cioè del sommo bene. Infatti, il sommo bene contiene in sé il concetto di una virtù perfetta, cioè di una conformità piena della volontà alla legge morale.
Ma questa perfezione, o santità, non è raggiungibile nel corso dell'esistenza di un essere finito ma è pensabile solo all'infinito, come meta di un progresso continuo di perfezionamento morale, e quindi sotto la condizione dell'immortalità dell'anima. Inoltre, il postulato dell'esistenza di Dio è necessario per pensare l'accordo di moralità e felicità. In Dio, infatti, noi pensiamo «una causa suprema della natura che ha una causalità conforme all'intenzione morale», dunque una Causa prima morale, un «sommo bene originario» che è garanzia dell'accordo fra causalità naturale e volontà morale, tra felicità e virtù.
Perciò - conclude Kant - «è moralmente necessario ammettere l'esistenza di Dio». Un postulato - secondo la definizione che ne dà qui Kant - è «una proposizione teoretica, ma come tale non dimostrabile, in quanto inerisce inseparabilmente a una legge pratica che ha un valore incondizionato a priori». Si tratta dunque non di proposizioni dimostrate o di concetti dedotti ma di assunti validi entro i limiti della sfera pratica.
Quest'ultima affermazione, come del resto l'intera dottrina dei postulati della ragion pratica, richiede qualche precisazione. La "necessità morale" di Dio non significa che Kant sia approdato infine a fondare teologicamente la morale. Ciò comporterebbe la rinuncia all'autonomia della volontà, cosa che Kant esclude. L'esistenza di Dio si colloca dunque al centro di una fede morale razionale, per la quale, l'uomo onesto è in condizione di esclamare: «lo voglio che vi sia un Dio!» E la speranza in ultima analisi, che con i postulati della ragion pratica diviene possibile.
D’altra parte, i postulati stessi ci riportano esattamente dinanzi a quelle idee - psicologica, cosmologica, teologica - di cui la dialettica della ragion pura aveva rivelato l'impossibilità a costituire una conoscenza di oggetti. Mediante la legge pratica, afferma Kant, «viene postulata la possibilità di quegli oggetti della ragion pura speculativa, la realtà oggettiva che questa non poteva loro assicurare».
Non abbiamo così superato i limiti posti dal criticismo stesso?
Kant dà a più riprese una risposta negativa a questo interrogativo. Nella vita morale, la realtà soprasensibile acquista per noi oggettività, ma ciò non vuol dire che l'anima, la libertà e Dio ci siano divenuti oggetti di una conoscenza teoretica: infatti «non ci può essere dato niente che spetti all'intuizione di essi [e] non è possibile alcuna proposizione sintetica mediante la realtà che si concede loro». Dunque , nel linguaggio kantiano, non essendoci proposizioni sintetiche, cioè non essendoci una conoscenza oggettiva e sperimentale non abbiamo alcuna possibilità di confermare una conoscenza "scientifica" sui tre postulati.
Non è quindi divenuto legittimo alcun uso speculativo di queste idee, per il fatto che ne è necessario l'uso pratico: il concetto di Dio - ribadisce Kant - «non appartiene alla fisica, e cioè alla ragione speculativa, ma alla morale». Ma questo, ad onor del vero, sarebbe sottoscrivibile pienamente dallo stesso Platone.
Dunque, fermo restando il rifiuto di passare dall'ideale alla realtà, fatto che invece caratterizza la dialettica in Platone, si può certamente affermare che esiste un grado morale della dialettica kantiana che in qualche modo si fa strada nello sviluppo delle sue argomentazioni.
Scrive dunque Kant:«Essi [i postulati] partono tutti dal principio della moralità, il quale non è un postulato, ma una legge per mezzo di cui la ragione determina immediatamente la volontà. La volontà, per ciò stesso che viene determinata così, come volontà pura richiede queste condizioni necessarie all'osservanza dei suoi precetti. Questi postulati non sono dogmi teoretici, ma supposizioni da un punto di vista necessariamente pratico, e quindi non estendono la conoscenza speculativa, ma danno alle idee della ragione speculativa in genere (mediante la loro relazione con ciò che è pratico) realtà oggettiva, e le giustificano come concetti, la cui possibilità altrimenti essa non potrebbe neanche soltanto presumere di affermare».
Kant ritiene che questo tipo di delimitazione del concetto di postulato come supposizione lo ponga al riparo da quella metafisica che ritiene così pericolosa per la scienza e per la stessa vita morale. In realtà la supposizione, senza l’ausilio dell’esperienza, considerata come fondamento dell’universalità dell’imperativo categorico, non è forse analoga a quanto abbiamo visto nella definizione della dialettica stessa in Platone dove partendo da ipotesi (Kant: supposizioni) come punti d'appoggio, «movendo sino a ciò che non ha più presupposti», giunga «al principio del tutto», senza utilizzare alcun argomento della sensibilità (Kant: fenomeno) ma solo le idee stesse?
Certo questo non accorda tra di loro le due prospettive ma mostra la vicinanza e la possibilità di dialogo tra le diverse filosofie e le differenti epoche. E certamente si può azzardare che entrambi, in fondo, hanno anche un problema principale comune. Nessuno dei due ha effettivamente ritrovato una risposta compiuta al rapporto tra mondo intellegibile e mondo sensibile. Kant non nega l’esistenza di un mondo intelligibile: è il mondo dei noumeni che resta semplicemente un presupposto dove non è possibile effettuare alcuna ricognizione e che si fa fatica a inquadrare nell’insieme del mondo dell’esperienza. Platone ha una visione più ampia e meno restrittiva del mondo intellegibile ma anche lui, pur affinando le armi dialettiche col metodo diairetico nei dialoghi della maturità, resta fortemente a disagio nell’individuare un approccio agli individui concreti nel mondo dell’esperienza.
Certo in Kant questa difficoltà di comunicazione tra mondo sensibile e mondo intellegibile sembra in parte compensata dal fatto di aver distinto la scienza sperimentale dalla ragione e dai noumeni. Ma resta molto nel vago quando si tratta di sviluppare una dimensione del reale che non può che essere pensata cioè noumeno. Su questo punto Platone appare invece decisamente molto più ottimista nel suo modo di procedere.
Quella fiducia e speranza che Kant ripone nella dialettica della moralità, in virtù dei postulati, Platone la affida all'insieme dei problemi suscitati dalla scoperta dell’a priori (la reminiscenza) della conoscenza umana. Si direbbe quasi con la stessa cautela critica con la quale Kant parla dei noumeni, Platone parla degli intelligibili, i suoi noumeni, visto che sono immagini e miti con i quali sondare i noumeni ideali altrimenti insondabili: un mondo troppo luminoso per non restarne abbagliati mentre si è in questa vita.