Mentre, attorno al 1848, il romanticismo svoltava in senso quietistico in un’ottica parnassiana di art pour l’art, un pittore come Jean Désiré Gustave Courbet (1819-1877) si affermava pronunciandosi per un’arte impegnata: non politica o ideologica, ma certo distante dalla torre d’avorio romantica.
Dopo essersi già messo in mostra con alcune tele di nuova ispirazione (già giovanissimo nel 1844 aveva partecipato al Salon), nel 1855 Courbet organizzò un "padiglione del realismo", dal momento che gli organizzatori dell’esposizione universale gli avevano accettato solo alcuni dei quadri che egli aveva inviato.
Era il trionfo del realismo: ben distante dalla fotografica copia del reale, ma già trascendente qualsiasi neoclassica o romantica sua trasfigurazione.
Per un altro verso, dal solco di un romanticismo in via di superamento e dal "realismo" di Courbet ci si mosse anche verso direzioni opposte.
Ad esempio, si mosse quello stesso Claude Manet, che poi gli impressionisti considerarono come maestro ed anticipatore. Fu infatti negli anni Sessanta dell’Ottocento che quelli che poi furono detti "impressionisti" iniziarono a radunarsi e fu nel 1874 che tennero per la prima volta una mostra in pubblico, nello studio del fotografo Nadar. A quel punto, dal romanticismo al realismo all’impressionismo, una parte importante del cammino verso l’arte contemporanea era stata fatta.
Honoré Daumier
Nel panorama artistico dell’Ottocento francese, la figura di Honoré Daumier occupa una posizione di primo piano ma piuttosto appartata. Raramente le sue opere vengono esposte nei Salons o esercitano una incisiva influenza presso gli altri artisti.
La fama di litografo e di caricaturista hanno infatti a lungo inficiato persino il giudizio critico sulla sua attività di pittore. Pur essendo il più corrosivo realista dopo Goya, durante la sua vita, l’apprezzamento delle sue opere restò confinato ad una ristretta cerchia che comprendeva però illustri personalità: Baudelaire, Balzac, Corot, Delacroix.
Il realismo di Daumier non sorge mai da una astratta concezione ideologica, ma dall’esigenza di riflettere sull’inabissarsi della moralità umana nelle pieghe di una società dove tutta un’umanità disperata pare non avere nemmeno diritto di esistere. In Rue Transnonain, il giovane in maniche di camicia che avanza urlando diviene agli occhi dell’artista quasi l’emblema esistenziale della sua poetica.
Le immagini di poveri viaggiatori in treni di terza classe, di immigrati sconsolati, di sfinite lavandaie, costituiscono nel loro insieme il paradigma figurativo di una sofferenza che chiede ascolto. Una spiccata propensione descrittiva che affiora anche nell’opera scultorea e, naturalmente, nella dissacrante vigoria caricaturale dei suoi disegni.
La messa in berlina dei costumi della società parigina, la dissacrante critica che egli rivolge agli avvenimenti politici tramite lo sberleffo, sono solo uno degli aspetti della sua composita personalità e della sua altrettanto variegata produzione. I suoi dipinti mostrano chiaramente una padronanza indiscussa del mezzo pittorico. Nel solco di una tradizione che rimonta fino Rembrandt, Daumier padroneggia il colore in un contrasto chiaroscurale che modella le sue vigorose masse plastiche.
Ne La Blanchisseuse, ad esempio, la figura della donna e della figlia che salgono dalla Senna sono raccolte in un monumentale gruppo plastico che si stacca dallo sfondo luminosissimo in cui si scorgono i blocchi di case. O come avviene nel quadro Il Dramma dove, spartita da due ampie zone di luce e ombra, la scena è tratteggiata con una rapidità esecutiva eccezionale, quella stessa che mediante poche pennellate gli permette di suggerire, individuandoli, i caratteri popolari sparsi tra il pubblico.
Millet e il mondo contadino
I contadini come soggetto elevato agli altari della pittura avevano già riscosso successi prima della rivoluzione del 1848, tuttavia si trattava ancora di un’interpretazione idilliaca ed arcadica della loro condizione.
Con Jean-François Millet, artista nato in una famiglia di contadini, le loro energie fisiche e il loro simbolico ruolo di detonatore sociale sul punto continuo di esplodere si affacciano alla ribalta delle arti figurative, sgomberando il campo dall’oleografica rappresentazione di un mondo innocente e semplice, un’interpretazione che Corot e la scuola di Barbizon, frequentata da Millet, avevano del resto reso celebre.
Esposto al Salon del 1857, e realizzato lontano da Parigi nel buen retiro di Barbizon, Le Spigolatrici destò notevole scalpore. Sebbene esso sembri, ad una prima lettura, una immagine idilliaca di alcune donne intente a spigolare il grano, in realtà esso rivela un altro e più profondo significato: un commento alle gerarchie economiche che stanno dividendo, con una frattura cruenta, le varie classi contadine.
Le donne in primo piano appaiono allora lontanissime dalla fattoria ricca e popolata che si profila all’orizzonte. Le protagoniste della tela sono infatti delle braccianti: l’ultimo anello della catena produttiva che governa il ciclo economico delle campagne e che dopo la raccolta hanno il permesso da parte dei latifondisti di recuperare per sé quel poco che resta.
La sensibilità del colore diventa in Millet funzionale all’esigenza della rappresentazione, e la sua tavolozza ha toni cupi: dalla terra alle povere vesti grezze che coprono i corpi delle figure.
L'esaltazione del lavoratore, nuovo eroe nato dalle insurrezioni del 1848, insieme a una profonda comprensione della vita contadina, segna con Millet un momento importante per l'affermazione del realismo e influenza direttamente Courbet.
Il modellato vigorosamente plastico delle figure, l'atmosfera solenne e rituale, l'intonazione sentimentale, a volte esplicitamente religiosa, tardo romantica, caratterizzano le sue opere maggiori da Il seminatore a L’Angelus.
Courbet e il valore sociale dell'arte
Con lo Spaccapietre, Courbet guadagnò un successo che spinse il politico Prudhon a parlare a proposito di quest’opera come di un vero e proprio procedimento d’accusa nei confronti della degradazione morale e una condanna senza appello del capitalismo.
Prudhon approfondì la questione in un breve saggio che ben evidenzia gli atteggiamenti nei confronti della funzione sociale che l’arte doveva avere alla metà del secolo: Sui principi dell’arte e i suoi fini sociali. Agli occhi degli intellettuali, degli scrittori, dei pensatori più avanzati dell’epoca, l’esempio di Courbet andava così incontro ad un nuovo tipo di pittura, finalmente basata sull’uguaglianza di rappresentazione valida per tutti i dati materiali oltreché sulle istanze tese a promuovere un nuovo tipo di società, impegnata ad abbattere steccati sociali ed economici tra tutte le persone.
Ma la rivoluzione più ardita Courbet parve combatterla contro l’ortodossia figurativa che la tradizione, ancora nei suoi anni, ereditava perpetuandola. Così, il Funerale ad Ornans risulta tanto insistentemente antitradizionale da far sembrare la visione della scena raffigurata una specie di anticomposizione: con i margini ad escludere arbitrariamente le persone in lutto.
Le figure tozze delle sue donne, invece, assomigliano più alle immagini naives delle stampe popolari, piuttosto che alle armoniose modelle dei maestri classici. La sua cifra stilistica pare allora una sorta di corrispettivo figurativo agli ideali di democratizzazione dell’arte e della vita, mediante il quale esortare il pubblico alla riflessione.
In Giovani donne di paese danno l’elemosina ad una guardiana di vacche in una vallata - esposto al Salon del 1852 - l’implicazione ideologica s’insinua sottilmente nella tela. E’ un’immagine a un primo sguardo del tutto innocua: un quadretto campestre che vede le tre dame in primo piano concedere l’elemosina ad una pastorella. Il particolare delle mani, tozze e poco probabili per delle signorine di città, e la grazia affettata delle loro vesti mostrano come queste signore siano delle campagnole.
Inscenando una parodia delle Tre Grazie, Courbet insiste su un argomento ben noto al suo tempo: l’industrializzazione, i benefici economici avevano prodotto mutamenti eclatanti e iniqui della condizione di vita di molte classi sociali.
Come gli aristocratici di un quadro rococò queste signorine - autentiche arrampicatrici sociali - sono ormai distanti dalla guardiana di mucche e quindi da ogni legame con una condizione molto simile a quella delle loro origini.
Nel 1855, vedendosi rifiutare dall’Esposizione alcuni suoi dipinti, Courbet li raccoglie e li presenta in un suo spazio, il "salone del realismo". In effetti, dopo il neoclassico ed il romantico, con questo pittore si apre un’altra grande fase della storia dell’arte, non solo francese: quella del realismo.
Courbet è convinto, da buon socialista e proudhoniano, che sarà costretto ad emigrare dopo la Comune e che l’arte - assai prima che nella mente dell’artista - sia racchiusa nel reale, nella società. La sua è art vivant, concreta. Se ad un pittore del passato deve rifarsi non è né al Raffaello di Ingres né al Rubens di Delacroix: ma a Caravaggio.
La sua è una pittura che si scontra con le convenzioni e che non arretrerà dal dipingersi (in Bonjour, Mr. Courbet) non in drappi anticheggianti neoclassici o in pose eroiche romantiche, ma, appunto, realisticamente, in maniche di camicia.
Non si tratta però di una pittura ideologica (come avevano fatto tanto David quanto Delacroix) né di una mera rappresentazione del reale: come (in questa) nella visione che emerge dal suo Studio del pittore, resa ben al di là delle freddezze neoclassiche o dei fremiti romantici e non ridotta né a frammento né ad eroico episodio.
Qui la realtà è importante perché estremamente varia e il pittore ne coglie lati e aspetti che una fotografia, ad esempio, non sarebbe riuscita a cogliere.
La ricerca di una nuova pittura dà i suoi primi, maturi risultati fra il 1867 e il 1869, ma la critica e il pubblico continuano ad avversare questo movimento sviluppatosi in Francia fra il 1867 e il 1880. Nel 1874 viene organizzata la prima esposizione degli impressionisti nello studio del fotografo Nadar; è in occasione di questa mostra che entra nell’uso il termine "impressionismo", derivato dal quadro di Claude Monet intitolato Impression. Soleil levant (1872).
A parte Manet, considerato il precursore dell’impressionismo, i protagonisti del movimento sono Monet, Pissarro, Renoir, Degas, Sisley e, per alcuni aspetti, Cézanne. L’impressionismo non è sostenuto da una vera elaborazione teorica: comune è l’impegno per una pittura dal vero, basata sull’impressione individuale di fronte al soggetto, qualunque esso sia.
Dipingendo en plein air gli impressionisti scoprono che ciò che l’occhio percepisce è l’impressione visiva di un insieme di colori, ma questo muta col variare delle condizioni di luce.
L’esperienza delle infinite possibilità del colore porta all’uso dei colori complementari, all’abolizione dei toni grigi, del disegno, del chiaroscuro e ad una sempre maggiore luminosità del quadro.
Il quadro diventa una pura superficie pittorica: una nuova realtà, che è distinta dalla realtà naturale e la cui materia è il colore. La concezione pittorica dell’impressionismo, fulcro centrale dell’arte moderna, costituì il terreno di confronto.
Manet
Per parecchi anni, fino a quando si recò in Spagna nel 1865, Manet eseguì una serie di dipinti "spagnoli". Le opere di questo periodo svelano con quanta attenzione Manet avesse guardato alla pittura spagnola di Goya e soprattutto a Velasquez.
Probabilmente furono le acqueforti di Goya tratte dai quadri di Velasquez ad attrarre la sua curiosità. Manet riuscì poi ad approfondire la conoscenza di Velasquez proprio con il soggiorno in Spagna, attratto verso il grande pittore di Siviglia dalla composizione del disegno, dalle raffinate tonalità di nero e grigio e dall’atmosfera assolutamente impersonale.
Una delle ragioni per cui Manet può essere giustamente definito "pittore dei pittori" risiede nell’aver saputo elaborare delle straordinarie variazioni "moderne" su temi di altri artisti: in una parola un innovatore geniale che resta ancorato alla tradizione.
Questo fu anche il motivo che spinse critica e pubblico ad attaccarlo. La sua disinvoltura nel riferirsi alla pittura antica si manifestò in modo eclatante nel dipinto Dejuiner sur l’herbe. Urtato dall’accostamento di nudità e abiti moderni, il pubblico non colse l’allusione al Concerto pastorale di Giorgione e rifiutò di vedere gli abiti moderni e la nudità rinascimentale come traduzione di un capolavoro del passato. La composizione stessa, infatti, segue da vicino quella di un’incisione di Marcantonio Raimondi.
Ne Il Pifferaio, i colori semplicemente giustapposti creano invece una resa quasi piatta della superficie cromatica, e il modellato dà consistenza alla figura nello spazio senza far ricorso ai metodi canonici di composizione seguiti all’Accademia.
Quegli stessi che muovendo dallo sfumato consentivano al colore e al disegno, sotto i giochi di luce, di dare fisionomia compiuta e riconoscibile alle forme, e che costituirono l’oggetto della sfida compositiva ingaggiata da Manet nel corso della sua prima produzione.
Monet
Dall’apprendistato presso un artista come Boudin, che lo indirizza verso una pittura incentrata sulla natura, all’ammirazione per Corot, Daubigny, fino alla pittura di Constable e Turner scoperta nel 1870 durante un soggiorno londinese, l’intero percorso di Monet è segnato dall’interesse crescente nei confronti del paesaggio. La resa dei diversi momenti di luce durante la giornata e le sue infinite variazioni atmosferiche lo condurranno a cimentarsi più volte con lo stesso soggetto.
Il primo esempio è costituito dai dipinti dedicati alla stazione di Saint-Lazare, del 1877, in cui lo sforzo del pittore è volto alla resa del fumo delle locomotive mescolato alla luce. La serie dedicata alla cattedrale di Rouen, realizzata negli anni precedenti il 1894, conta circa cinquanta tele e ritrae la chiesa in diversi momenti della giornata, con varie condizioni di luce.
Nel giardino della sua villa di Giverny, paese nei dintorni di Parigi dove si trasferisce nel 1883, Monet fa costruire nel 1893 un laghetto di ninfee. Tra il 1909 e il 1926, anno della morte, il pittore realizza innumerevoli quadri dedicati al soggetto delle ninfee, spingendo la ricerca pittorica al limite dell'informale.
Degas
Al pari di Manet con cui condivise una certa affinità di carattere e di estrazione sociale, Degas svolse la propria formazione e la propria esperienza artistica sotto il segno della solitudine e di un certo isolamento. Nonostante partecipi attivamente alle mostre degli impressionisti, egli resta ai margini del movimento. Realista per vocazione, dotato di spirito acuto, Degas rivolge lo sguardo al costume, alle consuetudini sociali, fornendo prova di una straordinaria sensibilità nel fermare brani di vita contemporanea in cui lascia trasparire sottili ritratti di notevole introspezione psicologica.
Per l’arditezza dei suoi tagli compositivi, l’invenzione estrosa dei suoi ritmi lineari, per la sua osservazione penetrante, Degas è il vero pittore della vita moderna.
Dai campi di corse agli affollati caffè-concerto; dalle ballerine alle modiste. Dopo il soggiorno italiano intorno al 1860 (di questo periodo è Ritratto della famiglia Bellelli, chiaramente ispirato ad Ingres), l'artista comincia a frequentare i caffè, entrando in contatto con pittori antiaccademici come Manet, e soprattutto scopre le stampe giapponesi e la fotografia, che lo indurranno a sperimentare nuove soluzioni formali e compositive.
Abbandonati i soggetti tradizionali, Degas si dedica alle scene di vita contemporanea: le corse dei cavalli (All'ippodromo, 1869-72), il teatro lirico e la danza costituiscono alcuni dei temi più ricorrenti di tutta la produzione dell'artista. Predilige soprattutto le ballerine, ritratte negli spogliatoi o durante gli esercizi (Lezione di danza), con l'intento di bloccare un movimento fuggevole come in una fotografia istantanea.
Il nudo femminile, rappresentato senza alcuna idealizzazione o sensualità nell'atto di compiere gesti intimi e quotidiani, come la cura del proprio corpo, costituirà il modello con cui Degas si misurerà per tutta la vita (Donna che si pettina di schiena, 1885, Donna che si spugna nella tinozza, 1886).
Degas mostra di prediligere, a differenza degli altri impressionisti, più la figura umana che il paesaggio, interessandosi alla resa del movimento piuttosto che allo studio dei mutamenti atmosferici e di luce.
Instancabile sperimentatore di mezzi artistici diversi, l’artista francese si dedica indifferentemente alla pittura ad olio, al pastello, alla scultura e all'incisione.
Soggetti prevalenti delle sue sculture sono i nudi femminili alla toeletta e le ballerine; una delle più celebri è la Ballerina di 14 anni (1880); mentre appartengono all’ultima produzione, una serie di monotipi di valli e praterie, che prendono spunto dai paesaggi osservati durante un viaggio in Borgogna (1890 circa).
L’arte italiana dell’Ottocento, pur interessante, non poté non essere influenzata dalla divisione della penisola in piccoli stati regionali e dall’angusta atmosfera della restaurazione. Peraltro, non si può dire che mancassero i legami con le esperienze artistiche, anche con quelle più avanzate, degli altri paesi europei: mancò tuttavia il grande personaggio, il grande artista.
Anche per questo la partecipazione dell’arte italiana al movimento pittorico romantico è stata definita quindi fiacca e incerta. A Milano operò Francesco Hayez (1791-1882), forse l'esponente più in vista della scuola romantica italiana, incline al quadro davidiano di ambientazione storica. Un romanticismo moderato e accademico caratterizzò i quadri di molti artisti, fra cui Bezzuoli, Ciseri e Ussi. Ai paesaggisti guardò G. Carnevali, detto il Piccio (1804-1873), che dovette conoscere le tele di un Cozens e di Constable e che si interrogò attorno alla "macchia", pur senza mai raggiungerli.
Un altro paesaggista importante fu Antonio Fontanesi (1818-1882). Il gruppo della scapigliatura lombarda, fra cui Tranquillo Cremona (1837-1878) e Daniele Ranzoni (1843-1889), ebbe una certa notorietà, dovuta anche al suo interpretare un certo sentimentalismo ribelle del tempo: il suo prodotto migliore fu però solo assai più tardo e fu uno scultore più che un pittore, Medardo Rosso (1858-1928).
Qualche pittore lombardo, come Eleuterio Pagliani (1826-1903) e Federico Faruffini (1831-1869), ebbe tendenze realistiche di tipo courbettiano: analogamente Giuseppe (1812-1888) e Filippo Palizzi (1818-1899) furono in contatto con i Barbizon.
Oggi però vengono spesso menzionati più che altro per amor di patria. Peraltro, l’azione di questi artisti avvenne in ritardo rispetto a quella degli ispiratori d’oltralpe, come più tarda e sostanzialmente postunitaria fu l’opera del napoletano Domenico Morelli (1826-1901). Un movimento più compatto e numeroso, e nell’insieme caratteristico, fu invece quello dei macchiaioli, sviluppatosi in Toscana a partire dagli anni Cinquanta.
In loro romanticismo e realismo si incontrarono, assieme ad alcune riflessioni originali appunto sulla "macchia": per essi il vero si vedeva come un contesto di macchie di colore e di chiaroscuro, non per precisione della visione. Il più notevole fu Giovanni Fattori (1825-1908), di cui possono essere ricordati i dipinti, al tempo stesso macchiaioli e patriottici, di argomento militare.
Il purismo e la pittura di storia
È nella prima metà del secolo che l’ideale neoclassico di bellezza viene progressivamente avvertito come non più adatto a soddisfare le nuove esigenze estetiche che si fondano adesso sulle suggestioni del sentimento, delle passioni, degli ideali.
Le fascinazioni mitologiche per un passato interpretato come grande bagaglio culturale a cui attingere continuamente vengono sostituite nella prima metà del secolo da soggetti desunti dalla storia vera, in cui lo svolgimento narrativo acquista adesso una funzione pedagogica e politica.
Da queste premesse e dalla rivalutazione del sentimento religioso sorgerà in Italia il purismo, contraddistinto da una predilezione per la pittura antica italiana vista come l’età d’oro dell’arte e dello spirito.
Alla pittura del Raffaello del periodo romano aderirà in una rievocazione non solo formale Mussini e, sebbene in forme più naturalistiche, Bartolini: artisti questi ultimi per i quali sarà fondamentale la conoscenza delle opere di Ingres, a lungo in Italia, e buon amico di Bartolini.
Più vicino invece alle novità del romanticismo europeo appaiono le appassionate rievocazioni storiche di Hayez, così ricche di sentimenti esibiti, di esortazioni alle virtù civili, di allusioni patriottiche, ma anche di immagini sensuali, di soggetti amorosi e patetici.
Il purismo di Hayez e Bartolini
Dopo l’iniziale soggiorno romano che consentì ad Hayez di conoscere l’opera di Raffaello, quella di Ingres e di frequentare lo studio di Canova è a Milano che l’artista giunse a d una compiuta maturazione artistica. A Milano, infatti, Hayez trovò non solo un pubblico entusiasta dei suoi lavori, ma anche un ambiente fervido e culturalmente vivo e moderno.
Nei temi storici trattati dal pittore si poteva infatti riconoscere uno spirito patriottico, appassionato e carico di suggestioni, ma anche la forza di un naturalismo nuovo condotto sugli esempi della pittura veneta del Cinquecento: per i capolavori della fine degli anni Venti, come Pietro l’eremita e i Profughi di Parga, si parla di "pittura civile".
Dagli anni Quaranta prevarranno invece i soggetti orientali ed ellenistici con la serie delle odalische e degli harem, ed i suoi dipinti storici, che ora sembrano recuperare la tradizione veneta settecentesca, eserciteranno per molti anni una forte suggestione sul pubblico europeo. Da analoghe premesse neoclassiche prese avvio anche la cultura artistica di Bartolini.
Per lo scultore toscano fu determinante il soggiorno parigino, dove frequentò l’atelier di David ed entrò in contatto con Ingres. L’interesse per le opere del Quattrocento toscano lo portarono a superare ben presto i dogmatismi formali del Neoclassicismo.
Più che nelle opere del periodo napoleonico, ancora assai legate agli esempi di Canova, questa tendenza si rivelerà pienamente nell’Ammostatore, scolpito a Firenze nel 1818, e nella Carità educatrice del 1824, opere nelle quali Bartolini dichiara la sua ricerca di un "bello naturale", la tensione verso un rapporto diretto con la natura,e che da un punto di vista formale si esprime nella viva rappresentazione dei suoi modelli, nella spontaneità delle pose.
Ne è un esempio chiaro il tardo monumento funebre di Sofia Czartoryska, nel quale la vacua compostezza del volto della donna, immagine di una pace raggiunta, è contrapposta al tormento della coperta, come a ricordare l’ormai trascorso dramma dell’agonia.