La scienza moderna riconosce alla follia un valore duplice: da una parte essa è un mondo profondamente diverso da quello dei 'sani'; dall'altra rivela qualcosa che è in tutti gli uomini. Riconoscere questa realtà significa educarsi al rispetto dell'altro e a una maggiore consapevolezza di sé. A questa coscienza la cultura europea arriva dopo un lungo percorso. La storia della follia inizia tra il XV e il XVI secolo: l'ha ricostruita Michel Foucault in un saggio celebre del 1963 (La storia della follia in epoca classica).
Nell'antichità e nel Medioevo la follia non ha un'esistenza autonoma e si confonde con le manifestazioni del sacro. La convivenza quotidiana con la dimensione magico-religiosa della realtà instaura un profondo legame tra follia e forze divine o demoniache. Nella mitologia greca la 'furia' delle baccanti scatenate in sfrenate danze orgiastiche è un effetto dell'invasamento di Dioniso. Sempre Dioniso, nel dramma di Euripide intitolato Le Baccanti (406 a. C. circa), fa impazzire chi non riconosce la sua divinità: prima le donne di Tebe, poi Pènteo, che verrà squartato dalle baccanti. Nell'Aiace di Sofocle (445 a. C.) l'eroe è fatto impazzire da Atena, si scaglia così contro il suo esercito e infine, rinsavito, non potendo sopportare questa vergogna si uccide. La follia è dunque punizione divina che si manifesta nella forma dell'inganno (Aiace crede che l'esercito sia un gregge, le baccanti scambiano Penteo per un leone) e dell'invasamento.
Nel Medioevo il folle è ancora tollerato ai margini della società poiché in lui si riconosce un 'segnato da Dio'. Un esempio emblematico è costituito dalla figura eccentrica di san Francesco. Oppure il folle è un indemoniato, da esorcizzare. La pazzia è dunque sintomo di santità o di possessione diabolica. La strega stessa è una pazza, ma solo nel Cinquecento incuterà un tragico terrore. L’età umanistica e rinascimentale legge in genere la pazzia come l'altra faccia della ragione, quasi una sua possibilità costante.
Solo all'inizio del Seicento, quando vengono istituiti i primi ospedali generali (quello di Parigi è aperto nel 1657), i pazzi iniziano ad essere rinchiusi. Eppure significativamente essi non stanno da soli: li si interna insieme a mendicanti, poveri, sodomiti libertini, individui che danno pubblico scandalo per il loro comportamento e il loro pensiero. La follia è una delle tante forme della "sragione"; e il folle fa parte di un'umanità colpevole e socialmente dannosa. Perciò deve essere internato, punito e corretto: nel Sei-Settecento non si è folli perché si è malati, ma perché si è immorali, perché non si rispettano le norme della comunità. Il folle diventa e resterà a lungo, fino al XX secolo, l'emblema di un'oppressione sociale.
Nel suo bisogno di ordine e di razionalità la cultura umanistica è costretta a confrontarsi con le forze oscure che sfuggono al controllo dell'uomo e lo fa in due modi: o condannando la pazzia, che viene percepita come una colpa, addirittura la madre di tutti i vizi, o razionalizzandola, riconoscendovi cioè una forma paradossale di saggezza, che svela cecità e ipocrisie occulte del mondo dei sani.
la nave dei folli
Un nuovo oggetto, tra Quattro e Cinquecento, fa la sua comparsa nella realtà e nell'immaginario europeo: è la "nave dei folli", una nave carica di pazzi spinta alla deriva lungo i fiumi dell'Europa del Nord. Il tema esplode contemporaneamente in letteratura e nell'arte figurativa. È coniato dal tedesco Sebastian Brant con il suo Vascello dei matti (Das Narrenschiff, 1494), un poemetto che mette alla berlina tutte le condizioni sociali. Ogni vizio è impersonato da un pazzo incurabile: sfilano così i rappresentanti della cultura e del potere, della vita civile, politica e religiosa, tutti rapiti dalla cecità degli istinti in una vorticosa navigazione verso l'inferno. Negli stessi anni il motivo è ripreso dal pittore olandese Hieronymus Bosch. La sua nave dei folli imbarca gli stessi stolti di quella di Brant, ma la satira morale si esprime in un linguaggio visionario e allucinato che ha interessato nel Novecento surrealisti e psicoanalisti. Poco dopo Erasmo scriverà il suo Elogio della follia (1509). Pieter Bruegel il Vecchio in pieno Cinquecento ne continua temi e forme con la sua folla di mentecatti, contadini, storpi, ciechi, che si aggirano senza meta nel caos dell'esistenza in preda alla bestialità deformante delle passioni.
Il folle, posseduto da un maleficio misterioso, incarnava nel Medioevo il senso della vita che confina con l'aldilà, con il regno del sovrannaturale. Con l'allentarsi, in età umanistica, della visione religiosa del mondo, il folle si affaccia sull'abisso inquietante dell'inconoscibile. Gli stessi mostri gotici, svuotati della loro carica religiosa, si trasformano nel Rinascimento in immaginazione grottesca, visionaria e macabra che non parla altro linguaggio se non quello ambiguo e oscuro dell'insensatezza. Non è difficile intravedere nel segno oscuro della follia una conoscenza occulta, temibile e inaccessibile ai sani, come sembrano suggerire le opere di Bosch e dello stesso Bruegel.
C'è follia e follia
Per sentieri diversi da quelli esoterici, la follia s'incontra con il sapere anche presso gli umanisti. Il primo libro del Vascello dei matti di Brant è dedicato ai sapienti e fa la satira dell'intellettuale da strapazzo che si circonda di libri, ma porta in testa il berretto a sonagli del matto per celare le orecchie d'asino. I pazzi di Erasmo sono ancora quelli messi alla berlina da Brant. Gli intellettuali si trovano al primo posto nella sua ronda dei folli. Dopo gli uomini di scienza, i grammatici, i poeti, i retori, gli scrittori, i giuristi viene anche la turba dei teologi che interpretano in modo dogmatico e distorto la Scrittura e la usano per giustificare le guerre dei cristiani. Per Erasmo tuttavia c'è follia e follia. La pazzia di cui tesse l'elogio non è la furia scatenata dalle dee infernali, ma una dolce illusione, «una specie di alienazione mentale» che libera l'animo dai suoi dolorosi tormenti, inondandolo di «inesauribile voluttà». La follia erasmiana è una dama sorprendente e ambigua, cambia continuamente maschera e ruoli: ora è la leggerezza stolta, ora diventa saggia, ora ubriacona, ora scavalca la prudenza stessa poiché, liberando gli uomini dalla timidezza e dalla vergogna, li spinge a cimentarsi in grandi imprese. Si trasforma alla fine nella follia della Croce: «perché Dio ha scelto la follia del mondo a confondere la saggezza». La follia di Erasmo non si esaurisce perciò in una satira moralistica, ma diventa un rapporto complesso che l'uomo intrattiene con se stesso, con le sue molteplici verità.
Se per gli antichi il primo passo verso la padronanza di sé era l'autocoscienza (conosci te stesso), si capisce come nel periodo rinascimentale - osserva lo storico Ronald Bainton - il folle fosse spesso rappresentato nell'atto di guardarsi in uno specchio con aria problematica. Giunge così a intravedere che qualunque uomo è folle, incluso se stesso. La sua esistenza profonda dipende da uno slancio vitale che non è interamente riconducibile alla ragione. Questa intuizione lo porta a sorridere di se stesso come fa Erasmo e come in Italia fa Ariosto. Erasmo infatti scorge la follia da lontano e può tenerla facilmente a bada: «Se poteste guardare dalla luna [ ... ] le innumerevoli agitazioni sulla terra, vi sembrerebbe di vedere una folla di mosche e di moscerini che si battono fra di loro, lottano e tendono insidie, rubano, giocano, saltellano, cadono e muoiono». È la stessa prospettiva che nell'Orlando furioso caratterizza lo sguardo di Astolfo sulla luna. Partito alla ricerca del senno di Orlando, Astolfo si imbatte sulla luna nel senno di tutta l'umanità.
Amore e insania
Il grande antagonista della ragione per Ariosto è l'amore. Nell'esordio del canto XXIV Ariosto stabilisce un'equivalenza tra amore e insania che accomuna tutti gli uomini; anche se ciascun non smania come Orlando «suo furor mostra a qualch'altro segnale. / E quale è di pazzia segno più espresso / che per altri voler perder se stesso?». Tale legame era già stato istituito dagli antichi, ma per incontrare una rappresentazione di pazzia amorosa bisogna aspettare il Rinascimento.
Il tema della follia non fa solo da sfondo all'intero poema ariostesco ma balza in primo piano, al centro dell'opera, nella pazzia di Orlando. Orlando, cavaliere esemplare, insegue inutilmente la bella Angelica e quando scopre che ella ha sposato un umile fante saraceno perde il senno. La follia è, come spesso l'amore, pura irrazionalità; e, di più, cancellazione dei tratti umani: Orlando non perde solo il senno ma perde tutto se stesso. Perciò getta via la corazza (la sua identità sociale), dimentica l'uso della parola, non riconosce più nessuno, distrugge tutto quanto gli capiti a tiro. La sua ragione finita sulla luna sarà recuperata da Astolfo che vi giungerà a cavallo dell'ippogrifo. E sulla luna si scoprirà quanta follia ci sia nelle vane occupazioni di tutti gli uomini.
Dalla vicenda del paladino lo sguardo di Ariosto si allarga all'umanità intera. Terra e luna diventano speculari, invertono immagine e funzioni. Vista da quassù la terra diventa il satellite della luna. Se la ragione degli uomini si conserva sulla luna - ce n'è una montagna immensa - vuol dire che sulla Terra non è rimasta che pazzia.
Lo stesso Astolfo che riacquista la completa saggezza, aspirando dall'ampolla una parte del suo senno fuggito, non riesce a conservarlo, perché «un errar che fece [ ... ] un'altra volta gli levò il cervello».
Eppure, la follia non ha per Ariosto natura tragica: è oggetto di ironia e di autoironia, giacché il poeta stesso confessa che il suo ingegno è roso dall'amore. La ragione, in realtà, ne trionfa dominandola, esorcizzandola e mostrando il suo superiore distacco da essa. Scherzare sulla follia e riconoscerla ovunque vuol dire smorzarla, accettarla, considerarla una parte ineliminabile della vita e, dunque della ragione stessa. Follia e ragione anche in Ariosto come in Erasmo entrano in una relazione irreversibile dove ciascuna è misura dell'altra.
Malinconia, genio e follia
La follia di Orlando fa intravedere la violenza della bestialità insita nell'uomo, ma scongiura il pericolo di una sua deflagrazione. Non ha un'esistenza assoluta e irreparabile. Per il virtuoso cavaliere è un'esperienza formativa che prelude a un più sano equilibrio.
Nella seconda metà del Cinquecento, nell'atmosfera inquieta della Controriforma, le cose cambiano. Per Tasso la tradizionale "malinconia" dell'artista, immortalata in un celebre quadro di Dürer, diventa esperienza tragica, angosciosa «prigionia» materiale e spirituale. La pazzia non è solo una ferita biografica. Le Lettere di Tasso costituiscono anche la prima lucida esplorazione dei suoi percorsi mentali. Quella che il poeta analizza non è più la malinconia antica o medievale, legata al corpo e ai suoi umori, ma è la moderna malattia dell'animo, che sconfina nella follia e rende vana ogni cura. La malinconia di Tasso inoltre non è un dato autoreferenziale, ma si radica nella vita e nella cultura della sua epoca. È un modo di gridare il disagio dello scrittore nel sistema costrittivo di regole e modelli del classicismo controriformistico. La follia infatti rappresenta il conflitto insanabile tra le due pulsioni dell'artista, quella della fantasia, del sogno, del fantasma e quella della cultura e delle norme. La Controriforma, ricostruendo ordini e gerarchie precise, potenziando il senso dell'autorità e il senso di colpa per ogni tipo di trasgressione, produce esclusione. Non a caso si moltiplicano in questo periodo gli artisti irregolari. Il conflitto si interiorizza sino a farsi dramma interiore ed anche follia.
Tasso è il poeta che meglio rappresenta questa condizione a rischio. Dopo il ricovero nell'ospedale di Sant'Anna affiora sempre più in lui la consapevolezza della contiguità tra malinconia e alienazione mentale: «io sono tanto malinconico, che son riputato matto da gli altri e da me stesso, quando non potendo tener celati tanti pensieri noiosi e tante inquietudini ... d'animo infermo e perturbato, io prorompo in lunghissimi soliloqui». E un soliloquio è il dialogo con lo spirito, intitolato Il Messaggero, un colloquio del poeta con l'altro se stesso, proiettato in un demone celeste che fa da tramite tra gli dei e gli uomini. In questo contesto il discorso cade sulla distinzione fra malinconia «per infermità» e «per natura» (quella tipica degli ingegni singolari): Tasso le rivendica per sé entrambe. La «nova pazzia» è da una parte assimilata a quella dei poeti e dei filosofi, dall'altra rimanda a uno stato di vera e propria malattia di cui il poeta è consapevole ma che non sa spiegare.
La «prigionia» di Tasso non è solo reclusione fisica, ma è anche l'«assedio minaccioso di un mondo inafferrabile di fruscii, di voci ... di fantasmi che egli crede di percepire e di cui si sente vittima, prigioniero infelice. Le "larve", le ombre, gli incubi tortuosi descritti da Tasso a più riprese nel "diario" delle Lettere o delle Rime testimoniano che cosa fu per lui il fascino dell'orrore, la paura e la familiarità dell'ignoto». In tal modo il critico Ezio Raimondi stabilisce un legame tra l'esperienza allucinatoria del poeta e l'importanza che assume il tema magico e demoniaco nella Gerusalemme liberata.
Lo scrittore Michel de Montaigne, visitando Tasso in preda al delirio all'ospedale di Sant'Anna, prova pietà per il poeta ma soprattutto ammirazione, costatando quanto sia impercettibile la distanza tra la follia e «gli arditi innalzamenti di uno spirito libero, e gli effetti di una virtù suprema e straordinaria». E si chiede se Tasso, uno dei poeti più geniali del tempo, non si trovi in uno stato così pietoso proprio per «questa vivacità omicida», «questa chiarezza che l'ha accecato». In tal modo, riprendendo l'idea platonica dell'ispirazione come furore, che pone l'anima in contatto con le forze più profonde della natura, Montaigne gettava le basi del futuro mito di Tasso e dell'idea romantica di genio.
All'inizio del Seicento il tema della follia assume nella letteratura una centralità inedita. La sua immagine esce irreparabilmente dal dominio della ragione e dilaga nel teatro di Shakespeare e nel romanzo di Cervantes come metafora privilegiata del disordine del mondo. È inoltre, a differenza di quella rinascimentale, una follia senza rimedio.
La sua presenza nelle opere di Shakespeare assume volti molteplici, quello della malinconia amletica, della finzione e della maschera, del buffone di corte, del rimorso e del castigo (Lady Macbeth). La follia domina tuttavia come esperienza tragica; si sposa all'assassinio e alla morte. Nel Don Chisciotte è invece fuga dalla realtà e totale alienazione nei deliri dell'immaginazione. Qualche decennio dopo, in piena epoca barocca, la coscienza della crisi e della precarietà dell'esistenza darà vita al topos della pazzia del mondo, ma in forme che ne scongiurano il contenuto tragico. La pazzia verrà derisa, normalizzata e riassorbita nella festa, nel teatro, nel gioco inestricabile di verità e finzione. Shakespeare e Cervantes anticipano, drammaticamente, la percezione dell"'anormalità" dei fatti che li circondano in un'epoca afflitta da continue calamità: dagli sconvolgimenti monetari all'aumento della povertà e delle tensioni sociali, all'imperversare di guerre devastanti, al ritorno del flagello della peste. Il senso di minacciosa instabilità dell'individuo è inoltre acuito dalla coscienza sempre più diffusa delle implicazioni della teoria copernicana. Sono sconvolte gerarchie secolari: la terra non è più al centro dell'universo, i mondi sono molteplici. Svanisce l'incorruttibilità dei cieli: l'uomo, svincolato da un ordine divino, diventa il luogo del disaccordo e della lacerazione tra forze contrastanti, come si legge in tanti monologhi di Shakespeare e nella grande invettiva di Lear all'inizio del III atto. Passioni e affetti infuriano (Otello). Il cervello è offuscato da fantasmi e ingannevoli fantasie. I tradizionali criteri di giudizio non riescono più a mettere ordine in una realtà sempre più vasta e imprevedibile. La fiducia nel potere della ragione ormai vacilla.
La coscienza tragica della follia
Due tragedie di Shakespeare, Amleto (1600-01) e Re Lear (1605-06) ruotano o sono interamente costruite intorno al tema della follia. Questa non si presenta dunque come un incidente, anche di singolare importanza, sul percorso della ragione. L’interesse sempre più forte per la fenomenologia dei comportamenti anormali, che caratterizza i drammi shakesperiani compresi nei tredici anni tra l'Amleto e la Duchessa d'Amalfi, denuncia un crescente pessimismo verso la natura umana. Lo scrittore è spinto a vedere sempre più la qualità esistenziale del male che minaccia l'uomo.
La pazzia non si manifesta solo come degenerazione della passione ma comporta una metamorfosi della personalità. L’evento esterno scatena le forze oscure dell'io, Ofelia e re Lear soggiacciono sì alla pazzia in seguito a un trauma, ma rivelano fin dall'inizio la fragilità di un comportamento strano ed eccentrico, che lascia intravedere i germi dell'alterazione psichica. La giudiziosa ubbidienza di Ofelia, così mite e arrendevole con tutti, esplode sotto il duplice choc del rifiuto di Amleto e dell'uccisione del padre in un delirio schizofrenico tipicamente adolescenziale. La pazzia ha dunque una radice psicologica: non è semplicemente dolore o amore offeso ma perdita dell'identità di figlia e di promessa sposa.
Il temperamento collerico di re Lear prepara la demenza per un processo di naturale deterioramento connesso alla vecchiaia, che le ferite inferte dalle figlie all'amor paterno non fanno che aggravare. All'umore malinconico di Amleto, scatenato dal fantasma del padre, rimanda di continuo l'enigmatico comportamento del principe.
La pazzia, tuttavia, nel teatro di Shakespeare non è solo l'emergere di una patologia. In Re Lear la follia diventa il luogo emblematico dell'isolamento e della emarginazione. Il Matto, un finto matto (Edgar), un cieco (Gloucester), sullo sfondo di una natura selvaggia e solitaria, costituiscono l'unico corteggio del vecchio re esiliato dalla corte e dal consorzio umano. E proprio da questa condizione estraniata egli giungerà a comprendere il proprio errore di giudizio e l'alienazione che travolge il mondo del potere.
La pazzia, da cecità verso il mondo circostante diventa fonte di più acuta penetrazione. Perciò il lessico relativo agli occhi, al vedere, all'accecamento, alla cecità ricorre con tanta insistenza nel dramma. Non a caso un equivalente simmetrico della storia di Lear è quella del conte di Gloucester che, finché non è accecato, non sa vedere nulla. Solo dopo l'accecamento sarà capace di vedere il giusto e l'ingiusto nei suoi figli, lui che aveva prediletto il traditore e cacciato il figlio devoto. La cecità porta a vedere ciò che agli occhi era nascosto, la pazzia ciò che il sapere comune aveva offuscato (Melchiorri). La dialettica pazzia/conoscenza ritorna in Shakespeare, ma a condizione dell' esilio in un'alterità senza scampo.
La pazzia che viene dai libri
Nel Don Chisciotte (1605-15) di Cervantes il tema della follia è associato alla decadenza storica della cavalleria. Segna insomma il tramonto di un'epoca.
Don Chisciotte, schiacciato tra la grande nobiltà e la ricca borghesia dedita ai traffici con il Nuovo Mondo, reagisce alla perdita di ruolo sociale e alla caduta di senso e di ordine riempiendo quel vuoto di un sogno eroico. Don Chisciotte crede fermamente di combattere per il bene e la giustizia in un mondo che invece non ha alcun bisogno di lui. Il deserto e la desolazione caratterizzano infatti gran parte del paesaggio delle sue avventure. La genesi della follia sta proprio in questa scissione a priori tra idea e realtà che rende velleitaria ogni affermazione di valori.
Quello che più turba, ma aiuta anche a capire la natura della follia di don Chisciotte, è la lucida coscienza del proprio autoinganno. In don Chisciotte, il rapporto tra illusione e realtà è infatti mediato da un «volontarismo della pazzia», che costituisce l'unico modo di dare un senso alla vita. Perciò la follia del cavaliere errante non si scarica nel segno comico della risata liberatoria, ma esprime valenze più complesse. Talora appare l'unica condizione di sopravvivenza di una generosa illusione in un mondo degradato da una follia criminale, ben più pericolosa di quella dell'hidalgo.
Nella seconda parte del romanzo, la volontà di credere di don Chisciotte s'incrina sempre più e la pazzia cambia segno. Un duca e una duchessa, per farsi beffe di lui, gli costruiscono intorno un mondo a misura della sua follia: in altre parole, organizzano uno scenario per le sue imprese. La follia qui come in Amleto, si lega al teatro, all'illusione, all'inganno. Al continuo scontro tra realtà e illusione subentra ora una nuova dimensione più ambigua, mobile e relativa del reale, in cui la distinzione tra essere e apparire perde consistenza. Questa follia esprime bene la visione della vita come artificio che sarà tipica dell'età barocca, in cui è difficile distinguere il vero dal falso, e la coscienza dell'uomo si smarrisce.
La follia come metafora
La follia ritorna come tema prediletto nella cultura romantica. La realtà sociale e medica della malattia è però censurata dagli scrittori e la follia diventa un fenomeno spirituale che rivela la natura più profonda dell'individuo. La pazzia agli occhi degli artisti è una metafora del genio, dell'inquietante, della passione stessa, di cui rappresenta l'eccesso. Allude insomma a qualcos'altro. È così anche per molti eredi della cultura romantica. In Fedor Dostoevskij (1821-1881), il più grande romanziere russo del secondo Ottocento insieme a Lev Tolstoj, la follia assume un valore allegorico. La esprimono due figure contrapposte: Ivan Fedorovic, uno dei Fratelli Karamazov (1879-80), e il principe Myskin, protagonista dell'Idiota (1868-69). In entrambi i casi, la follia è una risposta, se pure diversa, alla verità considerata come problema morale. Nei Fratelli Karamazov Ivan impazzisce quando si rende conto che il padre è stato assassinato dal servo Smerdjakov, sotto l'influsso delle sue stesse idee. Ivan ha infatti sostenuto che Dio è morto e che quindi tutto è permesso.
Smerdjakov non ha fatto che trarne le conseguenze pratiche, ma considera Ivan il vero assassino. Nel dialogo in cui ascolta questa confessione, Ivan sente qualcosa lacerarsi nel cervello. Torna a casa e, colpito da «delirio cerebrale», vede apparire davanti a sé un piccolo gentiluomo: il diavolo. Ivan sa che il diavolo è una parte del suo io e che il battibecco con lui teatralizza un conflitto morale. La follia di Ivan è dunque, dal punto di vista psicologico, l'esasperazione di un senso di colpa lacerante. Ma dal punto di vista morale la follia è un segno dello spirito dei tempi. È conseguenza della negazione di Dio e del nichilismo in cui Dostoevskij riconosce il male che mina la cultura russa e occidentale di fine Ottocento.
Psicoanalisi e follia
Una svolta decisiva nella storia della follia è segnata nel Novecento dalla nascita della psicoanalisi. Freud riconduce infatti i meccanismi del disturbo psichico a quelli dell'inconscio di ogni uomo. Perciò la follia non è una semplice assenza di ragione, non un mondo estraneo da rifiutare, come lo era per la medicina positivista del secondo Ottocento. In questo modo Freud ne rivendica il potere di conoscenza, la capacità cioè di rivelare qualcosa che giace al fondo di tutti noi, mettendo in crisi le categorie tradizionali di io e di realtà.
Nei suoi Studi sull'isteria (1895) Freud spiega come la terapia psicoanalitica deve riportare alla coscienza i contenuti profondi dell'inconscio, rimossi e dimenticati. La cura presuppone perciò l'attiva partecipazione del malato. Questo è il limite della psicoanalisi di fronte alla follia: occorre che il paziente conservi una lucida coscienza di sé; con i folli che hanno smarrito il senso della realtà, essa rimane inefficace. Se la psicoanalisi non può curare la follia, può spiegarne tuttavia le manifestazioni e le cause.
La follia nella vita e nell'arte
Scuotendo la consueta percezione della realtà in nome di una verità più oscura e profonda, la psicoanalisi interessa profondamente gli artisti e gli scrittori del Novecento, che cercano contenuti nuovi e mirano a rompere gli schemi del linguaggio tradizionale. La follia nelle sue violente deformazioni del reale offre un terreno di indagine ricco di risorse espressive e dal potere eversivo.
Un precursore di questo atteggiamento è il pittore olandese Vincent van Gogh (1853-1890), artista irregolare, segnato dalla stravaganza e dalla malattia mentale. Per lui la follia diventa una tragica esperienza esistenziale. Durante una lite con Paul Gauguin nel 1888, lo minaccia con un rasoio, poi si taglia un pezzo di orecchio che incarta e porta a una prostituta. Nel 1889 gli abitanti di Arles richiedono con una petizione l'internamento del pittore che viene ricoverato nel manicomio di Saint-Rémy. Qui egli continua a dipingere per sfuggire all'abbrutimento. Sarebbe tuttavia semplicistico ricondurre alla follia la maniera pittorica di quest'ultimo periodo che, dopo varie crisi, si conclude con il suicidio nel 1890. Ciò che conta semmai è la rappresentazione di sé come malato e del manicomio, dove egli esprime la coscienza che ha della follia, come momento distruttivo e terribile.
Anche la scrittrice inglese Virginia Woolf (1882-1941) fu soggetta a crisi depressive e a momenti di follia. Ella stessa morirà suicida. La sua esperienza le permette di trattare il tema della follia dall'interno. Nella Signora Dalloway (1925), la follia, da una parte, è percezione più profonda e "poetica" delle cose; dall'altra è anche disgregazione dell'io e occasione di sperimentalismo narrativo. Septimus Warren Smith ha partecipato alla prima guerra mondiale e vive a Londra con la moglie di origine italiana, Lucrezia. Ciò che lo tormenta è l'inesauribile ricchezza di forme della vita. Nel suo pensiero tutto si deforma, diventa minaccioso e insostenibile. Anche i morti sembrano tornare a intessere un dialogo inquietante. Di fronte a tanta sofferenza, neppure l'amore di Lucrezia può salvare Septimus che, in preda a un accesso di panico, si uccide. Il racconto è condotto come monologo interiore. La follia esprime dunque direttamente la sua verità, scardinando le tradizionali convenzioni narrative.
La maschera della follia
In Italia è nell'opera di Luigi Pirandello che la follia acquista un ruolo preminente. La riflessione su questo tema è sollecitata dall'esperienza biografica della malattia della moglie. La donna, a partire dal 1903, mostra i primi sintomi di squilibrio e nel 1919 sarà internata in una casa di cura. Tuttavia l'interesse di Pirandello per la follia trascende questa occasione e si lega ai temi centrali (il relativismo, l'identità) del suo teatro.
Per Pirandello la follia non ha un solo significato. Può apparire come dimensione autentica di fronte all'inautenticità delle convenzioni, come nella novella Il treno ha fischiato (1914). In tal caso si oppone polemicamente ai falsi valori, anche se non può vincerli poiché si chiude su se stessa e rinuncia a cambiare il mondo.
La follia ha inoltre un significato metaforico, quello di mettere in dubbio fino a dissolvere la nozione stessa di verità. È questo il tema di Così è (se vi pare). Alla fine è la verità, di cui la signora Ponza è un simbolo, a essere inconoscibile. Non esiste alcuna verità. Questo paradosso rivela un potenziale tragico nell'Enrico IV (1922). Caduto da cavallo durante una festa in maschera in cui indossava i panni di Enrico IV, il protagonista è impazzito credendosi davvero l'imperatore. Ritornato in sé, mantiene la finzione. Dopo anni giungono a trovarlo nel suo castello Matilde, che aveva amato invano, Tito Belcredi, suo rivale e attuale amante di Matilde, Frida la figlia di Matilde. Enrico non sopporta di essere stato escluso dalla vita reale. È ancora innamorato, ma di Frida che è per lui come la Matilde di un tempo. Si avventa così sulla giovane, rivelando di avere simulato. Belcredi tenta di fermarlo, ma è ferito a morte. D'ora in poi non gli resterà che tornare a essere per sempre l'imperatore Enrico.
La follia di Enrico IV è inoltre una follia recitata. Quale legame esiste fra teatro e pazzia? Il pazzo è in un certo senso uno che recita poiché si rappresenta come qualcuno che non c'è, spogliandosi della propria identità per assumerne un'altra. È appunto quanto accade nell'Enrico IV. In questo dramma la follia non mette più in questione solo la verità, ma l'identità personale. Questa si disgrega e viene sostituita da una maschera. Il folle è dunque uno che, per esistere, ha preso un'identità diversa dalla propria, ma non meno convenzionale delle altre. In questo dramma la follia inoltre si riempe di contenuti emotivi e psicologici: è una fuga dallo scorrere del tempo e dunque dalla vita. Dapprima è la pazzia che allontana Enrico dagli altri, poi è Enrico stesso a scegliere di fissarsi nella maschera dell'imperatore eternamente ventiseienne.
Scienza, società e malattia mentale
Grazie a Freud e alla sensibilità di scrittori che, come Cechov, la Woolf e Pirandello, conobbero per esperienza diretta o indiretta la malattia di mente, nella coscienza del Novecento si affermano sempre più due convinzioni: in primo luogo che l'internamento dei pazzi serva alla società per liberarsi di individui scomodi; in secondo luogo, che la psichiatria e il manicomio siano incapaci di comprendere la sofferenza o anche solo il discorso del folle. A partire dagli anni Cinquanta la critica alle istituzioni manicomiali viene raccolta anche dai medici.
Contro i sistemi di repressione e di tortura, dall'elettroshock alla lobotomizzazione (asportazione di una parte del cervello) praticati dalla psichiatria ottocentesca, insorge il movimento dell'antipsichiatria. I primi rappresentanti sono medici americani: Ronald Laing, David Cooper, Erving Goffman e Thomas S. Szasz. In Italia il suo esponente di punta è Franco Basaglia, che apre i cancelli dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia per trasformarlo in una comunità terapeutica.
La follia non è più criminalizzata ma diventa una modalità di esistenza: il folle non è qualcuno da allontanare e isolare, ma un essere umano che si deve imparare ad ascoltare. Soprattutto si rifiuta il manicomio visto come un carcere in cui la società rinchiude chi non accetta le sue regole. Al posto del manicomio nascono così le comunità, in cui il folle è restituito alla sua libertà e può esprimersi in modo alternativo rispetto a quello che si regge sulle gerarchie del potere e sulla repressione del diverso. Ma non basta curare il malato in un'oasi protetta, se poi è circondato da una società piena di pregiudizi e di ostilità. Occorre cambiare la società e spostare l'intervento sul piano politico. Proprio per questo l'iniziativa di Basaglia è diventata nel 1978 una legge dello Stato (legge 180). Mentre in altri paesi come l'Inghilterra e l'America ci si è limitati a ridurre il numero dei manicomi, in Italia si è disposta la loro abolizione.