Nel corso del Settecento, si sviluppò una polemica nei confronti del melodramma, accusato nel secolo dei Lumi di essere uno spettaco-lo frivolo e irrazionale.
La sua irrazionalità derivava dall’unione di due arti completamente diverse, la musica e la poesia, rivolta la prima al piacere dei sensi, la seconda all’educazione l’intelletto. Poiché la musica prevaricava ormai sull’elemento poetico ed intellettuale, tutte le diatribe sette-centesche furono volte ad un 'ritorno all’ordine' da parte di musici-sti e cantanti, perché lasciassero più spazio al poeta librettista.
Il melodramma conobbe in quest’epoca un momento di grande po-polarità e diffusione. Quello italiano era il più apprezzato, con i suoi libretti ispirati alla storia antica, alla mitologia e alle favole arcadiche. Melodico e sentimentale, esso si opponeva al melo-dramma francese, caratterizzato da una tendenza all’evasione in un mondo pastorale od esotico.
L’opera italiana fin dal Seicento aveva assistito ad una contami-nazione tra parti buffe e parti tragiche, con l’inserimento di figure tratte dalla vita quotidiana come nella contemporanea commedia dell’arte. Ben presto l’opera comica avrebbe preso una sua forma autonoma con la riforma di Christoph Willibald von Gluck (1714-1787), il quale diede la supremazia all’idea drammatica e fece asservire la mu-sica al testo eliminando ogni ornamentazione superflua al dramma.
Diversa fu l’attività riformatrice di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), che riuscì col suo genio a con-ferire nobile tragicità e senso drammatico all’opera buffa.
All’epoca di Vivaldi, il teatro musicale consiste in un solo tipo d’opera, quella italiana, divisa in due generi: "opera seria" e "opera buffa", quest’ultima con le varianti di "opera comica" e di "intermezzo".
Il mondo teatrale è retto da poche ma precise regole, che lasciano tuttavia estrema libertà di realizza-zione. Prevede l’impegno di un "poeta" o librettista e di un compositore di musica e di canti, che scrivono insieme un soggetto nuovo o che assemblano materiali di altre opere per dar vita ad uno spettacolo diver-so; in questo caso, ciò che ne risulta è detto "pasticcio", ma non in senso dispregiativo.
I soggetti nuovi devono essere ricavati dalla storia o dalla mitologia classica (benché i costumi siano in sti-le contemporaneo), l’azione si conclude obbligatoriamente con il lieto fine ed i ruoli vengono rigidamente distribuiti rispettando il rango di ciascun cantante ingaggiato, da cui dipende anche l’entrata in scena, il nu-mero di arie e le relative difficoltà virtuosistiche.
L’azione, specie nell’opera seria, viene condotta mediante "recitativi", cioè una recitazione intonata musi-calmente con l’accompagnamento del clavicembalo o dell’orchestra; nei momenti più salienti dell’azione esplodono le "arie" che hanno il compito di offrire ai cantanti la possibilità di improvvisare passaggi virtuo-sistici destinati a suscitare la meraviglia e l’entusiasmo del pubblico.
Va notato, a questo proposito, che l’opera seria è caratterizzata dalla presenza di sole voci acute, femmi-nili o virili, queste ultime appartenenti ai castrati che sono gli autentici, pagatissimi e viziatissimi divi del-l’epoca. Nell’opera italiana le voci sono infatti trattate come strumenti e addirittura poste a confronto con essi nelle arie; quelle preferita dai singoli cantanti (le cosiddette "arie di baule") vengono necessariamente inserite nei "pasticci" per i quali il divo è espressamente scritturato.
L’opera italiana ai tempi di Vivaldi, segna insomma il trionfo del virtuosismo e della sonorità elementare ma limpida, in cui ogni tentativo di esprimere sfumature di sentimenti e raffinatezze letterarie (già presen-ti invece nella polifonia del rinascimento) viene annullato.
La concezione drammatica di Metastasio (nome grecizzato di Pietro Trapassi, 1689-1782) è tutta basata sull’alternanza e sulla successione di recitativo ed aria e sulla finzione favolosa. Musicati da quasi tutti i compositori del tempo, i suoi libretti hanno un ruolo determinante nella storia del melodramma: dai suoi ventisette drammi sono state tratte oltre ottocento versioni musicali.
Va tuttavia ricordato che certe diciture di libretti settecenteschi: "la poesia è del celebre sig. Metastasio", non erano garanzia di originalità e nascondevano spesso grossolani rimaneggiamenti, nei quali Metastasio non avrebbe saputo riconoscere i suoi versi, così come i compositori più celebri non riconoscevano le loro note nei "pasticci" che gli impresari ammannivano al pubblico senza suscitare il minimo scandalo.
Il successo venne a Metastasio nel 1721 con la cantata Gli orti esperidi, musicata da Porpora, poi il suo cammino fu tutto in discesa, o meglio, in salita verso la fama e la gloria che, nel 1730, lo vide incoronato "poeta cesareo" (ossia poeta della casa imperiale).
Il decennio successivo rappresenta la sua stagione d’oro, ma anche quando il gusto del pubblico dà segni di cambiamento e comincia a staccarsi dallo smalto dei suoi improbabili eroi, dei suoi bizzosi dei o dei suoi magnifici sovrani - Didone, Alessandro, Tito, Semiramide, Artaserse, Mitridate, Olimpiade, Zenobia, Attilio Regolo - egli rimane fino alla morte arbitro incontrastato del melodramma viennese, grazie al favore in-condizionato dell’imperatrice Maria Teresa.
Gluck non amava l’artificiosità del potente Metastasio, ma i soggetti che gli venivano proposti e che il pub-blico ancora voleva erano di Metastasio, e dovette piegarsi.
La sua antipatia fu condivisa (ma per ragioni professionali) dal direttore in capo di tutti i teatri imperiali viennesi - conte Giacomo Durazzo - che fece entrare Gluck in una specie di cricca anti-metastasiana.
Nell’opera seria all’italiana il cantante che esercitava maggiore attrattiva sul pubblico era in genere un evirato o, secondo il termine dell’epoca, "castrato".
L’evirazione di un ragazzo prima della pubertà bloccava la maturazione della voce, perciò il cantante ca-strato possedeva la capacità toracica di un uomo adulto insieme ad un timbro vocale infantile, acuto ma profondamente differente da quello femminile; in confronto alle cantanti donne, egli era capace di virtuo-sismi più prolungati e vigorosi.
In teatro il prestigio dei castrati (sopranisti o contraltisti a seconda del loro registro vocale) era enorme in termini di successo e di guadagno: Senesino (Francesco Bernardi), Farinelli (Carlo Brioschi) o Caffariello (Gaetano Majorano), per fare qualche esempio, condizionarono lo spettacolo operistico in tutta Europa e misero insieme grosse fortune.
Personaggi artificiosi quanto quelli che interpretavano sulla scena, si esibivano anche in vesti femminili. Montesquieu, che ascoltò a Roma i due castrati Mariotti e Chiostra, li definì "le più belle creature che abbia mai visto in vita mia, capaci di ispirare il gusto di Gomorra anche a coloro che in materia hanno gusti me- no depravati".
Händel, nella sua qualità di impresario e di compositore, chiamò a Londra famosi cantanti castrati come il Senesino, che si esibì per diverse stagioni all’Accademia Reale di Musica; con il celebre e celebrato Fari-nelli, che pure lavorò a Londra, ebbe invece cattivi rapporti.
Il pensiero illuminista avversò i castrati in nome della dignità umana, ma questi cantanti continuarono a mietere successi anche in piena età illuministica, prima di sparire per sempre dalle scene: l’ultimo tra i ce-lebri fu Giovanni Battista Velluti (1780-1861)
Di umili origini, autodidatta, Gluck amò la cultura con la passione del neofita. Artista riflessivo e cauto e sapiente imprenditore del proprio talento, a quasi cinquant’anni si rese protagonista d’una rivoluzione: dal suo incontro, nella Vienna cosmopolita, con Ranieri de’ Calzabigi, figura romanzesca, a metà fra l’intellet-tuale e l’avventuriero, scaturì infatti quella riforma dell’opera seria all’italiana che la trasformò in un’azio-ne scenica coesa e ben strutturata.
La sua grandezza fu non solo di portarla a compimento, ma d’esser capace, con la sua musica schietta e colorita, d’imporla al pubblico: le parole-chiave della sua poetica furono da un lato "chiarezza" e "sempli-cità", dall’altro "passione" e forza", per uno spettacolo improntato a verità espressiva e rigore scenico, che rifugge dall’artificio per aderire illuministicamente alla naturalità del sentimento.
La ricerca d’un canto espressivo e non invadente rispetto ai contenuti drammatici, l’attenzione alla funzio-nalità della danza e alla partecipazione del coro e l’importanza della scelta degli strumenti in base alla si-tuazione drammatica, sono i principi basilari del nuovo melodramma concepito da Gluck.
La riforma gluckiana non si presentò come un atto eversivo in ambito musicale: essa rispondeva sicura-mente a fermenti nuovi che maturavano nel clima dell’epoca, ma traeva fondamento da premesse teoriche che riaffioravano nel dibattito critico sul dramma.
Negli scritti teorici di Gluck, dalla prefazione dell’Alceste a quella del Paride ed Elena, alle varie lettere, si intravedono due matrici, quella illuminista e quella classicista, in parte coincidenti, in parte in contrasto. La coincidenza sta nell’anelito alla semplicità e nella necessità di rendere all’arte la sua dignità primitiva: un’esigenza sottolineata dagli enciclopedisti francesi e da Rousseau, ma che paradossalmente stava anche alla base dell’antico melodramma.
La funzione pedagogica dell’arte, tanto cara agli illuministi, ottenuta tramite l’espressione di alti valori etici e il dramma di impegno civile, ben si accorda con la nuova importanza del declamato, che eliminando trilli e sofisticherie esaltava la parola tramite la musica.
Il tentativo di ricondurre il dramma al suo nitore originario e il sostanziale eclettismo con cui questo scopo veniva perseguito in un ottica sovranazionale, attingendo il meglio dalle tradizioni italiana, tedesca e fran-cese, cozzava però contro il concetto illuminista e preromantico di identità nazionale.
Nel suo bilanciarsi fra tradizione ed innovazione Gluck lascia un’eredità che sarà raccolta e sviluppata nella grande stagione del melodramma ottocentesco.
Le opere viennesi
Il cambiamento era nell’aria. Nei "drammi per musica" alla maniera del Metastasio, le arie intonate dai cantanti introducevano continue digressioni dall’azione, confinata nei recitativi, e dalla verosimiglianza.
Un fermento di nuove esigenze era già avvertibile nelle opere di Jommelli, Traetta e De Majo, ma fu l’in-contro viennese fra Gluck, il conte Durazzo, sovrintendente ai teatri, e Ranieri de’ Calzabigi, senza dimen-ticare il coreografo Angiolini, a rendere la riforma dell’opera seria un lavoro sistematico, capace di dar vita a lavori di spirito del tutto nuovo.
La prima opera ad assommare in sé molte delle fondamentali innovazioni della moderna concezione, mo-strando un impianto scenico unitario e ricco, una nuova fusione fra azione e musica ed un nuovo impasto fra voci e orchestra, fu l’Orfeo e Euridice che, con l’Alceste e il Paride ed Elena, merita una collocazione di rango nella storia del teatro musicale.
Orfeo e Euridice
L’opera, o meglio "azione teatrale per musica" in tre atti, debuttò al Burgtheater di Vienna (ossia il Theater bei der Hofburg che lo stesso Gluck aveva inaugurato nel 1748 con la Semiramide riconosciuta), diretta dall’autore e col personaggio d’Orfeo interpretato dal castrato Guadagni.
Una nuova versione andò in scena a Parigi nel 1774. Il cantore tracio Orfeo (in origine un contraltista, ma in successive versioni tenore, baritono o falsettista), incoraggiato da Amore (soprano), scende agli Inferi per riprendere l’amata Euridice (soprano): alle potenze infernali oppone la forza del suo canto, riuscendo ad ottenere il permesso di ricondurre Euridice sulla terra a patto che sulla via del ritorno non si volti a guardarla. Purtroppo Orfeo non rispetta la condizione, ma quando tutto sembra perduto Amore interviene, garantendo il lieto fine.
Attingendo ad uno dei miti più affascinanti della cultura europea, ma anche ad un caposaldo della tradi-zione del melodramma italiano, già frequentato da Peri, Caccini e Monteverdi, e dopo di loro da Haydn, il rivoluzionario team composto da Gluck e dal librettista Ranieri de’ Calzabigi propone al pubblico viennese una composizione profondamente innovativa e arditamente polemica rispetto alla tradizione operistica con-temporanea.
I tratti convenzionali, come l’ouverture poco pertinente alla tessitura musicale dell’opera o la scelta del contralto maschile per il protagonista, non smorzano minimamente le innovazioni introdotte nella rappre-sentazione.
Già all’inizio del dramma il lungo recitativo d’Orfeo, intercalato dal coro con tre strofe cantabili, è un’a-perta sfida alla sequenza recitativo-aria canonizzata dal Metastasio. Gluck sfoggia un’essenzialità che mira a una più compiuta aderenza della musica alla struttura drammatica: parallelamente, il Calzabigi ha strut-turato il racconto in maniera lineare, evitando la dispersione tipica del dramma italiano e della tragédie ly-rique francese in ramificazioni secondarie.
Se la versione originale prevede ancora l’uso del "recitativo secco" (ossia col solo accompagnamento del cembalo) e di "da capo" ricchi di ornamenti nelle arie, la versione parigina dell’opera privilegerà invece il "recitativo obbligato", ossia accompagnato dall’orchestra, con l’aggiunta di alcuni balletti.
Impegno strumentale, varietà strutturale e ritmica, assiduità della danza e stile disadorno del canto sono tutti elementi che fanno dell’Orfeo viennese un momento focale della riflessione riformatrice di Gluck.
Nell’immensa e multiforme produzione di Haydn, il genere del teatro musicale, a cui l’artista si dedicò co-piosamente, con risultati apprezzabili e talvolta eccellenti, negli anni spesi al servizio degli Esterházy, ces-sò con lo sciogliersi del legame di dipendenza dall’augusta famiglia. Il motivo fu forse il timore del con-fronto con gli straordinari capolavori del giovane amico Mozart. È vero, d’altronde, che Haydn non si riten-ne mai appieno un compositore per il teatro, tanto da rifiutare di rappresentare una propria opera a Praga, giustificandosi col dire ch’era stata concepita per il ristretto pubblico della reggia di Esterháza.
La prima composizione del giovane Franz-Joseph destinata alle scene fu un Singspiel scritto per un famoso personaggio del teatro popolare viennese, Johann Joseph Kurz detto Bernardon, intitolato Der krumme Teufel ("Il diavolo zoppo"), andato perduto.
Nel 1761 Haydn prendeva servizio presso gli Esterházy, trasferendosi nel 1766 nella reggia di Esterháza, dove funzionavano due teatri, uno per le opere italiane e l’altro per le marionette tedesche. Ogni giorno, alle sei del pomeriggio, nel teatro grande andavano in scena, alla presenza del principe Nikolaus, un’opera italiana seria o buffa oppure una commedia tedesca: altre opere si rappresentavano, nella bella stagione, nel teatro delle marionette, situato nei giardini, adorno di grottesche pietre multicolori, conchiglie e chioc-ciole, con favolosi giochi di luce e splendide marionette.
Oltre a adattare e dirigere opere altrui, Haydn compose numerosi lavori, sia per le marionette (andati pur-troppo perduti, come Filemone e Bauci del 1773, messa in scena per l’inaugurazione del relativo teatro), che per interpreti in carne e ossa. Alcune opere buffe furono scritte su libretto di Carlo Goldoni: tra esse Lo speziale, del 1768, dramma giocoso in tre atti da un libretto del 1751, che inaugurò il teatro di Esterháza; Le pescatrici, del 1769, dramma giocoso in tre atti rappresentato il 16 settembre 1770; Il mondo della Lu-na, del 1777, dramma giocoso in 3 atti su soggetto di Goldoni adattato da Pastor e utilizzato anche da Pai-siello. Negli anni a venire la produzione teatrale di Haydn assume un carattere più intenso grazie al respiro della scrittura sinfonica, che riesce a coniugare nobiltà di sentimenti e comicità popolare.
Il repertorio comico e brillante è la perla del teatro di Mozart, dove arde tutta la sua gioia di vivere. Anco-ra bambino, Wolfgang assorbe l’impianto tradizionale della commedia in musica italiana, da Piccinni a Pai-siello, e il suo genio inesauribile ne trae sviluppi che porteranno questo genere musicale ben oltre l’opera buffa del primo Settecento. Mozart serra definitivamente le porte ancora aperte dell’Arcadia e spalanca le finestre all’indaffarata aria della città, conferendo dignità artistica a caratteri e dinamiche del vivere quoti-diano. A La finta semplice del 1768 seguono nel 1775 La finta giardiniera e due "burlette" incompiute, L’oca del Cairo e Lo sposo deluso: dopodiché inizia il periodo d’oro della collaborazione col librettista Lorenzo da Ponte, che ci regala Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte.
Le nozze di Figaro
È sull’onda del clamoroso successo tributato dalla Vienna dell’imperatore Giuseppe II nel 1783 a Giovanni Paisiello col suo Barbiere di Siviglia, tratto dalla celebre commedia di Beaumarchais, che Mozart sceglie di creare con Lorenzo da Ponte il suo primo gioiello, improntato ad un altro lavoro del francese, Le mariage de Figaro, ou la Folle journée.
Il 1° maggio del 1786, al Burgtheater di Vienna, vede la luce la commedia per musica in quattro atti Le nozze di Figaro. Il tema è di quelli alla moda: i difficili rapporti fra le classi sociali e la lotta alle discrimi-nazioni, con l’aristocratico legato al passato (il conte d’Almaviva) e il rappresentante del terzo stato in a-scesa (Figaro). Mozart lo affronta in modo impareggiabile, sin dalla celebre ouverture, restituendo musi-calmente quell’umorismo graffiante e quegli approfondimenti psicologici, soprattutto nel personaggio della contessa Rosina, che il libretto gli offre su un piatto d’argento.
Questo sì che è davvero pane per i denti mozartiani: nell’aria di Figaro "Se vuol ballare signor contino" si risente tutta l’irriverenza verso le regole dettate dall’establishment, che aveva portato Mozart verso la li-bera professione. Se uno dei grandi temi è quello del diritto all’eguaglianza, c’è poi l’amore in ogni sua sfaccettatura: dall’estasi dell’aria di Susanna ("Deh vieni o gioia bella") alla vena erotica che, irradiandosi dal personaggio di Cherubino, percorre tutta l’opera. Una creazione musicale pervasa dai veloci ritmi citta-dini, in cui fin dall’ouverture la musica corre per diventare azione quanto il testo, accumulando tutta la ten-sione che poi si scarica nei finali d’atto, che precorrono la verve di quelli di Giovacchino Rossini.
Così fan tutte
Dopo lo strepitoso successo de Le nozze di Figaro, Giuseppe II incaricò Mozart e il librettista Lorenzo da Ponte di scrivere una nuova opera. Fu l’imperatore stesso a suggerire l’argomento, ispirandosi ad un fatto da poco accaduto a Trieste e che era oggetto di pettegolezzo nei salotti viennesi. Mozart compose il dram-ma giocoso in due atti Così fan tutte, ossia la scuola degli amanti in un mese appena, nel dicembre 1789: giusto in tempo per rappresentarlo il 26 gennaio 1790, dopo cinque soli giorni di prove, all’Hofburgtheater di Vienna.
A testimoniare la fretta sono le frequenti abbreviazioni che ricorrono in partitura, abitudine tutta settecen-tesca a cui Mozart non era mai ricorso. L’opera fu accolta con successo dal pubblico viennese, ma dopo cinque serate le repliche furono interrotte dalla morte di Giuseppe II. Nell’Ottocento, questa fu l’opera buf-fa mozartiana giudicata con maggior severità: persino Beethoven ne prese le distanze, giudicandone il sog-getto eccessivamente frivolo.
Visti i tempi strettissimi di realizzazione, Così fan tutte è in effetti la più lineare e schematica fra le opere buffe del maestro di Salisburgo, improntata a simmetria e stilizzazione, sia nella struttura drammaturgica che nella definizione musicale e letteraria dei protagonisti: due giovani napoletani amati da due fanciulle che si dicono fedeli e appassionate, per poi palesare la volubilità dei propri sentimenti, cedendo ciascuna alle lusinghe dell’innamorato dell’altra.
Il perno della vicenda è il razionale e scettico Don Alfonso, che dispone le due coppie di amanti in sempre nuove figurazioni, come fossero marionette. Nei duetti delle coppie scambiate, dalla musicalità immobile e trasparente, che riflette la riduzione di spessore psicologico dei personaggi, è il culmine del freddo invito a guardare in faccia l’instabilità della natura umana. Niente finali d’atto, niente sentimento: solo, lucidissime, tecnica e ragione.
Il Don Giovanni
La vicenda del Don Giovanni, un dramma giocoso in due atti rappresentato per la prima volta nel Teatro Nazionale di Praga il 29 ottobre 1787, si svolge nella Siviglia di inizio Settecento. La struttura dell’opera corrisponde al testo della tragedia di Molière Il convitato di pietra, rielaborata dal da Ponte con contributi, pare, di Giacomo Casanova, all’epoca in Boemia ospite nel castello del conte Walstein a Dux, dove svolge-va le mansioni di bibliotecario.
La storia dell’ultima giornata di vita del dissoluto punito è nota. Il libertino Don Giovanni, aiutato dal servo Leporello, cerca di sedurre donna Anna ma, disturbato dal padre della donna, il commendatore, lo uccide in duello. Anna ed il fidanzato Don Ottavio giurano vendetta per quel sangue, mentre Don Giovanni è in cerca di una nuova avventura. La contadina Zerlina, promessa sposa di Masetto, parrebbe cadere tra le sue brac-cia, ma l’arrivo di donna Elvira, da lui già sedotta e abbandonata, fa fallire ogni suo progetto.
Riconosciuto ormai da Anna quale assassino del padre, Don Giovanni si ostina perversamente nel male, an-che a dispetto dell’intervento di forze sovrumane, come la statua del commendatore che gli appare davanti e gli parla, invitandolo a cambiare vita. Per nulla impressionato, Don Giovanni, la cui ostinazione gli confe-risce ormai un’eroica grandezza, lo invita alla sua mensa imbandita tra cibi prelibati e eccellente vino Mar-zimino.
La statua rifiuta invitando a sua volta Don Giovanni ad andare a cena con lei. Il seduttore accetta l’invito e come pegno gli offre la mano. Mentre il gelo del marmo si diffonde nel suo corpo, la terra si spalanca sotto i suoi piedi avvolgendo l’impenitente libertino tra le fiamme dell’inferno. A poco a poco, tutti i personaggi della vicenda, i quali hanno assistito alla terribile scena, si riprendono e ognuno pensa al proprio futuro: Anna e Ottavio si sposeranno entro un anno, donna Elvira si ritirerà in un convento, Zerlina e Masetto se ne torneranno a casa, mentre Leporello se andrà all’osteria "a trovar padron miglior".
Per soli 100 ducati Mozart, in difficoltà finanziarie, accettò la commissione che gli giungeva da Praga per u-na nuova opera. Lasciò al suo librettista, Lorenzo Da Ponte, tutta la scelta del testo, e l’abate pensò alla leggenda di Don Giovanni, sulla quale in quel periodo erano apparse già ben tre opere. L’opera, in due atti, rientra nel genere buffo pur contenendo pagine di grande caratura drammatica. La leggenda vuole che l’ou-verture, ricca di contrasti, sia stata composta a Praga nella notte precedente il debutto. Molti gli storici e i critici che non hanno mancato di sottolineare, negli anni, le affinità autobiografiche fra il rapporto di Don Giovanni con la Statua del Commendatore e quello di Mozart col padre Leopold.
Quel che è certo è che, attraverso la chiave dell’elemento soprannaturale, Mozart spinge la musica oltre le soglie dell’opera buffa per raggiungere gli apici di una tragedia ultraterrena. Un clima che si rivela in co-struzioni polifoniche, come quella del finale dell’atto I, che paiono echeggiare la solennità di pagine di Bach
I Singspiele
La Vienna di Giuseppe II risuonava di Sinsgspiele in ogni angolo: l’imperatore puntava infatti su questo ge-nere, che all’alternanza di canto e recitazione dell’opéra-comique coniugava i caratteri popolareschi della ballad opera, intessendosi sovente d’elementi fiabeschi, per fondare un’opera nazionale tedesca alternativa a quella "all’italiana". Anche Mozart, il cui esordio nel Singspiel risaliva al 1768, con Bastien und Bastienne, seguito dall’incompiuta Zaide del 1779, si dedicò con rinnovate energie a compiacere i gusti imperiali, riu-scendo anche in questo campo a creare veri capolavori. Con Il ratto dal serraglio il Singspiel conosce altez-ze fino ad allora impensabili anche per i suoi estimatori, superate solo da Mozart stesso, dopo i virtuosismi de L’impresario del 1786, col Flauto magico, il suo canto del cigno.
Il ratto del serraglio
In questo Singspiel in tre atti (il titolo originale è Entführung aus dem Serail), allestito al Burgtheater di Vienna nel luglio del 1782, Mozart condensava molte aspettative e molti stimoli creativi.
La speranza, coronata, di mietere consensi in un genere che l’imperatore Giuseppe II adorava si sovrap-poneva all’esigenza di raccogliere nuove commissioni: non ancora per necessità, bensì per l’entusiasmo d’essersi appena affacciato alla libera professione in una città vitale come Vienna. Col Ratto Mozart, eufori-co per il fatto d’essere del tutto libero, per la prima volta, di scegliersi il libretto, traduceva in una forma teatrale alla moda un tema, quello del lontano oriente turco, altrettanto di moda: a ciò, tramite i personag-gi di Belmonte e Pedrillo, aggiungeva un pizzico di quegli spagnolismi all’epoca considerati tanto affasci-nanti, miscelando il tutto in una rapidità d’azione musicale perfettamente rispondente al gusto viennese.
L’argomento è quello tradizionale, ripreso successivamente anche da Rossini con L’italiana in Algeri, della bella europea, in questo caso Costanza, prigioniera nell’harem del sultano: il compito di ricrearne l’am- biente esotico è affidato in particolare all’orchestrazione, ricca di timpani, triangoli, trombe, flautini e piat-ti, che si fanno intendere sin dalla celebre ouverture.
Il Singspiel ebbe un successo enorme: subito venti repliche con incassi eccezionali, più centinaia di riprese durante il resto della vita di Mozart in tutte le città della Germania. Parte dei motivi che animano il Ratto Mozart li aveva già anticipati nell’incompiuta Zaide, ma solo ora essi giungevano a maturazione, soprat-tutto per l’insuperabile caratterizzazione dei personaggi che con Osmino, un vero briccone volgare e irasci-bile, tocca il suo massimo.
Nato a Vittorio Veneto nel 1749 da una famiglia ebrea, Emanuele Conegliano si convertì nel 1763 al catto-licesimo, prendendo il nome di Lorenzo da Ponte dal vescovo che lo aveva battezzato. Compì gli studi in seminario e fu ordinato sacerdote, ma la sua vita dissoluta e l’accusa di ateismo lo fecero bandire da Ve-nezia. Dopo un periodo trascorso a Gorizia e a Dresda, nel 1782 egli si trasferì a Vienna, dove venne nomi-nato dall’imperatore Giuseppe II "poeta dei Teatri Imperiali".
Avviato così alla carriera di librettista d’opera, iniziò la collaborazione con i musicisti presenti all’epoca a Vienna: l’italiano Antonio Salieri (1750-1825) e lo spagnolo Martin y Soler (1754-1806). La sua fama si le-gò soprattutto alla collaborazione con Wolfgang Amadeus Mozart, per il quale scrisse i testi delle Nozze di Figaro (1786), del Don Giovanni (1787) e di Così fan tutte (1790). Dopo la morte di Giuseppe II, a seguito di contrasti col nuovo imperatore Leopoldo II, fu costretto a lasciare Vienna.
Portatosi a Trieste, fu ben presto obbligato ad abbandonare anche questa città assieme alla donna che di-verrà sua moglie e gli darà cinque figli, l’inglese Nancy Grahl. Le sue peregrinazioni continuarono: da Pra-ga si recò a Londra, dove pensò di fondare un giornale di critica teatrale, che tuttavia non trovò finanzia-tori. Adattatosi a fare l’editore specializzato in libri italiani, la sua attività non fu fortunata ed egli fu co-stretto a fuggire per evitare la prigione per debiti.
Nel 1805 si stabilì in America, a New York, dove era stato preceduto dalla moglie e dai figli, dando ripe-tizioni di lingua italiana e importando libri del suo paese. Anche in questo caso la fortuna non gli arrise e dopo ulteriori peripezie commerciali ottenne nel 1825 l’incarico di insegnare l’italiano al Columbia College.
Da Ponte morì il 17 agosto 1838, dopo avere avuto l’occasione di ascoltare la celebre Maria Malibran can-tare le mozartiane Nozze di Figaro.
Antonio Salieri si ritaglia uno spazio tutto particolare nella storia della musica per il tormentato e ambiguo rapporto che lo legò a Mozart, rapporto per tanti aspetti ancora poco chiaro e avvolto nella leggenda. Del suo geniale contemporaneo Salieri fu uno dei più accaniti rivali, al punto da essere sospettato, dopo la morte di Mozart, di averlo avvelenato. Nato a Legnago nel 1750, studiò inizialmente nella cittadina natale assieme al fratello, ma già nel 1766 spiccò il volo verso Vienna, dove completò la sua formazione con Flo-rian Gassmann, di cui nel 1774 prese il posto come compositore di corte e direttore dell’opera italiana.
Sempre a Vienna conobbe Gluck, che nella città austriaca si era trasferito nel 1780, e Metastasio. Come scrupoloso rappresentante della maniera italiana settecentesca, preciso nei costrutti compositivi regolari e mai azzardati, si guadagnò a Vienna una posizione centrale nella vita musicale cittadina: nel 1788 divenne kapellmeister alla corte viennese, carica che mantenne fino al 1824.
Nel 1784 si lanciò alla conquista dei teatri di Parigi, forse anche sulla scorta dell’influenza di Gluck, con cui Salieri studiava a Vienna ogni segreto della tragédie lyrique. A Parigi, fra il 1784 e il 1787, ottenne il suc-cesso cui ambiva con tre lavori che si collocavano perfettamente sulla scia di Gluck e, dunque, nel vivo del gusto parigino. Ad incontrare il maggior favore furono Les Danaïdes del 1784 e Tarare del 1787. Una delle attività principali di Salieri, la cui amicizia con Haydn restò salda per tutto il periodo viennese, fu però quella didattica. Alle sue ambite lezioni di canto e prosodia italiana accorsero allievi del calibro di Beetho-ven, Schubert, Liszt e Meyerbeer, nonché uno dei figli di Mozart.
Ad inserirlo nell’aura leggendaria di antieroe dell’ultimo scorcio di Settecento fu, ben prima dell’opera cine-matografica di Milos Forman Amadeus (1984), l’opera Mozart e Salieri (1898) del letterato russo Alexander Puskin messa in musica da Nicolaj Rimskij-Korsakov.
In realtà, come compositore, Salieri fu un personaggio-chiave nella vita musicale della Vienna di Mozart. Certo, nelle sue composizioni non innovò alcunché, ricalcando piuttosto gli stili italiano e francese: ma d’a-ltronde ciò altro non era che quanto facevano tutti i musicisti dell’epoca, dai dilettanti a coloro che perse-guivano la strada del professionismo. Si può dire, dunque, che Salieri patì il confronto col genio di Mozart: al contrario di lui, però, fu noto e apprezzato in vita.
Dopo la morte di Giovanni Battista Lulli, o Lully (1632-1687), l’opera francese conservò l’impronta ed il sug-gello che il musicista, nato a Firenze ma vissuto sempre in Francia, le aveva dato per quasi un secolo. L’opera di questo bravo compositore fu proseguita da successori di talento, come l’oriundo italiano André Campra (1660-1744), che ideò l’opéra-ballet, un seguito di brani vocali, strumentali e di danze in cui volu-tamente si disperse l’unità dell’azione (Europe galante, 1697; Le Carnaval de Venise, 1699; Les Fetês véni-tiennes, 1710).
Altro seguace di Lully fu André Destouches (1672-1749), autore del balletto Les éléments, in cui impegnò largamente l’aria con il "da-capo", in precedenza quasi estranea alla tradizione francese. All’inizio del XVIII sec., la musica italiana, entrata in Francia con la sonata e le cantate profane, esercitò la sua influen-za anche sull’opera, diffondendo il gusto per un melodizzare più aggraziato e agile e per una armonizzazione meno essenziale e monotona.
Sulla strada segnata da Lully proseguì anche Rameau che, largamente influenzato dall’opera buffa italiana, contribuì all’affermazione dell’opera-comique, un tipo di spettacolo leggero in cui si alternavano e si fondevano dialoghi parlati e arie semplici, vivaci o patetiche.
Nell’Ottocento l’opera-comique diventerà l’operetta.
Jean-Philippe Rameau nacque a Digione nel 1683. In gioventù fu maestro di cappella ad Avignone e Clermont, poi organista a Lione e a Parigi.
Qui nel 1722 pubblicò il Traité de l’harmonie réduite à ses principes naturels, in cui prospettò la teoria del basso fondamentale e dei rivolti. Seguirono poi altri scritti sull’armonia.
Intorno al 1727, conobbe l’appaltatore reale La Pouplinière, che gli affidò la direzione della sua orchestra privata. In questo ambiente maturò la decisione di iniziare l’attività operistica.
Nominato nel 1745 compositore della camera del re Luigi XV, esercitò una forte influenza sulla musica francese fino a Gluck.
La sua produzione teatrale comprende 33 lavori tra tragédies-ballet, opera-ballet, comedie-ballet, pastorali, balletti. Contribuirono alla sua fama soprattutto Hyppolite et Aricie, la sua prima opera (1733); l’opera-balletto Les Indes galantes (1735); le opere Dardanus (1739) e Zoroastre (1749).
Morì a Parigi nel 1764.