Johann Gottlieb Fichte nacque nel 1762, a Rammenau, in Lusazia, da una famiglia di contadini sassoni poverissimi, ma poté studiare grazie all'aiuto di un possidente del luogo, che ne apprezzò la precoce intelligenza. Studiò teologia a Jena e a Lipsia, ma i suoi interessi erano per la filosofia e la politica; non divenne quindi pastore, ma fece per qualche anno il precettore in case private. La lettura delle opere di Kant gli ispirò lo scritto Ricerca di una critica di ogni rivelazione, che poté pubblicare nel 1792 proprio grazie all'aiuto di Kant. Uscito anonimo, il libro fu attribuito a Kant stesso, che intervenne a rivelarne il vero autore; questi ne trasse una fama che lo portò - con l'appoggio di Goethe - sulla cattedra di filosofia di Jena nel 1794.
Nel 1794 Fichte pubblicò il saggio Sul concetto di dottrina della scienza o della cosidetta filosofia, che segnò il suo distacco dal kantismo, e quindi i Fondamenti dell'intera dottrina della scienza, di cui negli anni successivi curò parecchie riedizioni continuamente rielaborate. A ciò lo spingeva l'esigenza di dare una forma rigorosamente scientifica alla sua concezione, ma anche la presenza in essa di difficoltà che alla fine lo portarono a mutarla.
In un breve giro di anni, Fichte pubblicò numerose opere, parte per completare il sistema, parte per divulgarne in forma "popolare" i principi di fondo; tra le prime i Fondamenti del diritto naturale secondo i principi della scienza (1796), il Sistema della dottrina morale secondo i principi della scienza (1798); tra le seconde Sulla dignità degli uomini (1794), Lezioni sulla missione del dotto (1794), La missione dell'uomo, e lo Stato commerciale chiuso (1800). La carica innovativa fece interpretare queste opere come la versione filosofica della Rivoluzione. Nel 1799 Fichte fu protagonista di una "disputa sull'ateismo" che gli costò la cattedra. Accusato di ateismo per aver sostenuto che Dio coincide con l'ordine morale del mondo, fu ammonito dal governo; spinto dal suo carattere impetuoso, e certo dell’appoggio dei colleghi, egli reagì in modo aggressivo, e il governo gli tolse l'incarico; i colleghi però non si mossero, ed egli dovette abbandonare l'università. Dopo qualche anno trascorso a Berlino, in stretti rapporti con la "scuola romantica" su cui esercitò una certa influenza, nel 1805 fu nominato professore di filosofia ad Erlangen. Nel 1810, Fichte fu chiamato all'università di Berlino, allora fondata, e per qualche tempo ne fu anche rettore. Fu in questo periodo che egli rielaborò il suo sistema filosofico in senso mistico religioso. Ne sono anticipazioni scritti come Introduzione alla vita beata (1806) e Tratti fondamentali dell'epoca presente (1806). L'invasione napoleonica della Germania e la sconfitta di Jena lo decisero a dedicarsi alla ricostruzione politica e morale del paese. Di questa decisione furono frutto i celebri Discorsi alla nazione tedesca (pronunciati nell'inverno 1807/08), dove esalta un'educazione capace di risollevare le sorti della nazione e di realizzare il primato dello spirito tedesco. Fichte prestò la sua opera di animatore anche durante la guerra del 1813/14, ma in quella occasione contrasse il tifo dalla moglie, che curava i soldati nell'ospedale; morì nel 1814.
La svolta, non solo per il pensiero di Fichte, ma per quello di un'intera epoca, avviene con gli scritti Sul concetto della dottrina della scienza o della cosiddetta filosofia e con i Fondamenti di tutta la dottrina della scienza, entrambi del 1794. Un'estensione dei principi che fondavano questi scritti all'ambito dell'etica, del diritto e della politica giunge con le opere: Lezioni sulla missione del dotto (1794), Sistema della dottrina morale secondo i principi della dottrina della scienza (1798), Stato commerciale chiuso (1800). Fichte continua però a lavorare attorno alla dottrina della scienza elaborata nel 1794 (con Dottrina della scienza, Wissenschaftslehre, si intende in generale, per estensione del titolo dell'opera omonima, tutta la filosofia di Fichte), dandone alcune nuove esposizioni che segneranno il transito a una diversa fase del suo pensiero. Queste esposizioni saranno pubblicate postume, ma in alcuni scritti che egli pubblicò in vita sono contenute alcune linee essenziali: tra questi scritti sono da ricordare La missione dell'uomo (1800), L'essenza del dotto (1805), L'introduzione alla vita beata (1806), Tratti fondamentali dell'epoca presente (1806) in cui Fichte espone la sua filosofia della storia.
La riflessione di Fichte si inserisce sulla scia di quegli autori che avevano tentato di emendare la dottrina di Kant dalle sue presunte contraddizioni, prima tra tutte la questione della cosa in sé. L'eliminazione della cosa in sé aveva come conseguenza quella di abolire ogni limite esterno all'io. Non si trattava più, come avveniva nel criticismo kantiano, di una semplice attività di sintesi trascendentale del dato empirico esterno da parte dell'io: ora l'io di Fichte (spesso trascritto anche in maiuscolo nelle traduzioni italiane), in quanto infinito, ha un carattere creativo, è esso che pone in senso assoluto la realtà, non si limita a conoscerla:
In quanto è assoluto l'Io è infinito e illimitato. Esso pone tutto ciò che è; e ciò che esso non pone non è (per esso e fuori di esso non c'è nulla). (…) Quindi, in questo riguardo, l'Io abbraccia in sé tutta la realtà. (J.G. Fichte, Dottrina della scienza)
In Kant l'io poneva la realtà, ovvero costruiva l'esperienza, in senso limitato, cioè in un senso solo formale: ad un insieme amorfo di dati sensibili dava forma attraverso le intuizioni pure di spazio e tempo e attraverso le categorie. Si limitava quindi a dare forma ad un insieme di dati sensibili già esistenti indipendentemente dall'io e che a questo giungevano dall'esterno attraverso l'intuizione sensibile. Per Fichte invece l'io pone la realtà anche da un punto di vista materiale, nel senso che non solo dà forma ad un materiale amorfo (trasformando il dato sensibile in un compiuto oggetto di conoscenza), ma pone, crea in un certo modo anche il dato sensibile stesso, il materiale della conoscenza, che solo apparentemente sembra provenire dall'esterno dell'io. Il presupposto di ciò è però una infinitizzazione dell'io: si deve cioè concepire l'io in unità col principio metafisico dell'infinito. Il punto di partenza per la posizione, cioè per la creazione della realtà da parte dell'io, non può che essere l'io stesso. Infatti, secondo la tesi principale dell'idealismo, la realtà esiste solo nella misura in cui vi è una coscienza che la colga, e reale quindi è solo ciò che è reale per-noi. Questo per-noi non deve certo intendersi in senso individualistico come una realtà diversa per ogni singolo soggetto o io (particolare, finito), ma come reale in quanto oggetto dell'io (infinito, universale) cosciente che in tutti noi è a fondamento di ogni nostro atto conoscitivo: per-noi cioè non in quanto singoli uomini, ma in quanto esseri umani o, con Kant, soggetti trascendentali.
Questo discorso vale anche per la nostra coscienza, nel senso che anch'essa è reale nella misura in cui viene da noi colta, cioè solo nella misura in cui noi siamo coscienti della nostra coscienza, solo in quanto l'io è autocoscienza. Per comprendere l'importanza dell'autocoscienza si pensi che se noi non fossimo coscienti dei contenuti della nostra coscienza (nozioni, ricordi, sentimenti), questi sarebbero per noi nulli:
Non si può pensare assolutamente nulla senza pensare in pari tempo il proprio io come cosciente di se stesso; non si può mai astrarre dalla propria autocoscienza. (J.F. Fichte, Dottrina della scienza)
A partire dall'autocoscienza si può dedurre, cioè giustificare, l'esistenza di tutta la realtà e di tutta la vita dell'uomo, nel suo aspetto teoretico cioè conoscitivo e pratico, ossia morale. Per indicare questa procedura filosofica di giustificazione, Fichte utilizza il termine kantiano di «deduzione» dando a esso un rilievo anche e soprattutto metafisico, non solo gnoseologico. Mentre Kant si era limitato a giustificare le condizioni che rendono possibile una conoscenza in generale, Fichte mira a spiegare l'intera realtà e non solo la sua modalità di conoscenza. Per far ciò Fichte formula tre principi che corrispondono a tre momenti dell'attività dell'io, e che si succedono e sono legati tra loro non cronologicamente, ma secondo lo schema logico e ontologico di tesi (posizione), antitesi (opposizione) e sintesi (unità di tesi e antitesi) in cui consiste ciò che a partire da Hegel si chiamerà poi dialettica.
Il primo principio costitutivo della tesi di questa deduzione e di tutta la Dottrina della scienza è espresso dalla formula «l'io pone se stesso», cioè l'io è all'origine di se stesso, è causa di sé. Perché se si dovesse trovare un ulteriore fondamento dell'io-autocoscienza - seguendo il principio delle cause antecedenti, per cui se la cosa è posta deve essere posta da qualcos'altro - si andrebbe all'infinito e non si dedurrebbe nulla.
Fichte ricava questo primo principio considerando una delle leggi fondamentali del pensiero e della logica tradizionale in generale: la legge dell'identità secondo la formula A=A, per cui ogni essere è innanzitutto uguale a se stesso. Ora sembra che la legge dell'identità sia autoevidente, cioè non abbia bisogno di altro per essere compresa, e che sia inoltre sempre vera, indipendentemente dal suo contenuto, poiché essa esprime solo un rapporto logico di identità. Essa è ugualmente vera sia se dicessi «un cane è un cane», sia se dicessi «un ippogrifo è un ippogrifo», poiché mira a sottolineare l'identità dei due termini e non l'esistenza effettiva o meno di un cane o di un ippogrifo essa è infatti valida anche nel secondo caso, in cui gli ippogrifi sono solo oggetto di fantasia. Questa legge inoltre è a fondamento di qualunque altra legge o di qualunque affermazione si voglia fare: infatti qualunque cosa si dica, la si deve presupporre, altrimenti ciò che diciamo, privato di una identità con se stesso, svanirebbe nel momento stesso in cui lo diciamo e così non potremmo dire niente. Anche noi stessi svaniremmo nella follia se negassimo la nostra identità, il nostro essere identici a noi stessi mentre siamo: non possiamo cioè essere noi stessi e un altro nello stesso momento.
Benché la legge dell'identità sia perciò indipendente da ogni contenuto e da nulla sia fondata, ma tutto si fondi su essa, tuttavia se non presupponessimo l'io che ne riconosce la sua irresistibile evidenza come legge, essa sarebbe nulla. Anzi, se essa è evidente, ancor più lo deve essere l'io in virtù del quale soltanto essa è. Ma l'io non può riconoscerla se innanzi tutto esso stesso non è identico a sé, per cui A=A solo in quanto io=io: il che conferma che il principio di identità si applica a ogni contenuto di pensiero, solo in quanto è proprio dell'io, il quale è così a fondamento di ogni pensiero.
Ora però mentre per A=A il rapporto di identità ha solo un senso logico, per l'identità io=io esso assume anche un aspetto ontologico (si può tradurre quell'equazione anche con io sono io), cioè di posizione, di riconoscimento di essere. Se consideriamo A=A, ciò esprime solo un legame di identità, ma l'io, per affermare se stesso, deve presupporre la sua esistenza (l'io, per sapersi, deve esistere), mentre non si può presupporre e nemmeno dedurre l'esistenza di A dalla semplice identità con se stessa; infatti questa legge potrebbe formularsi anche così: se esiste A allora è = ad A, ma che esista è tutt'altra faccenda. Tuttavia nell'io il presupporre è un porre. In altri termini l'io non presuppone il suo essere come se fosse esterno e indipendente da esso, perché nell'io = (sono) io, l'io è tanto soggetto quanto oggetto: in questo modo io=io significa appunto l'io pone se stesso. Infatti mentre un oggetto qualunque non può da sé affermare (porre) la propria identità, e dunque dalla legge d'identità non deriva il suo essere, essendo questo essere al contrario sempre dipendente da un io che giudica, ciò è invece possibile all'io il quale non dipende che da sé. Insomma avere coscienza di sé (io=io) significa al contempo, secondo il principio idealistico, porre la realtà di ciò di cui ho coscienza, cioè dell'io (che per esistere deve sapersi), ciò che non è possibile invece per A, la cui esistenza ha bisogno dell'io: dunque l'io pone se stesso ovvero è capace di un'intuizione intellettuale con cui conosce e pone se stesso nel medesimo tempo, intuizione che, come sappiamo, era stata invece negata da Kant al soggetto trascendentale. In virtù dell'intuizione intellettuale nel soggetto «insorge l'io»; essa
è presente in tutti i momenti della sua coscienza. io non posso fare un passo, muovere una mano o un piede, senza l'intuizione intellettuale della mia autocoscienza in queste azioni; solo mercè quest'intuizione so di essere io a compierle.(J.G. Fichte, Seconda introduzione alla dottrina della scienza)
Ciò significa al contempo che a fondamento di ogni identità e di ogni essere vi è un'attività Infinita, l'atto per cui l'io, prendendo coscienza di sé, si auto pone e può così assurgere a principio in grado di porre ogni altra realtà. L'essere dunque, anche quello dell'io, non tanto è dato, ma è posto. Non è già da sempre presente, ma è conseguenza di un atto di posizione; non precede questo atto con cui pone se stesso, ma è da questo preceduto, o meglio, è atto.
In quanto attività infinita, l'io non solo pone se stesso, ma oppone a se stesso, come antitesi, una realtà diversa da sé, l'oggetto di una possibile conoscenza in generale, ossia la natura, il mondo, che perciò Fichte chiama non-io.Qui si deve osservare che, essendo l'io ciò che oppone a se stesso un non-io, questo non può essere realmente esterno all'io, ma è un prodotto dell'io. È un prodotto tuttavia necessario all'attività conoscitiva dell'io stesso, il quale non conoscerebbe effettivamente se non avesse nulla da conoscere, se cioè la sua attività conoscitiva non venisse limitata, non s'imbattesse cioè in un oggetto da conoscere, seppure posto da lui: sarebbe, senza l'oggetto, un'attività pura ma vuota, senza senso. È questo il secondo principio della dottrina della scienza, che suona così: «all'Io è opposto assolutamente un Non-io" (Dottrina della scienza).
Per comprendere in che modo il non-io limiti l'io, basti pensare alla differenza che c'è tra la coscienza che abbiamo di noi stessi, l'autocoscienza del primo principio, e la coscienza di un oggetto esterno a noi. Nel primo caso il nostro pensiero è illimitato, non c'è qualcosa di veramente altro da comprendere, in quanto soggetto e oggetto sono identici, omogenei; nel secondo caso dobbiamo adeguarci all'oggetto esterno contro cui urtiamo, e che ci impone un limite: esso non è per noi così familiare come poteva essere l'oggetto della nostra autocoscienza. La nostra libertà viene ristretta. Per salvare la libertà dell'io si potrebbe pensare che questo limite, essendo autoimposto, sia facilmente superabile: si tratta cioè di un oggetto che solo apparentemente limita l'io, poiché in verità è stato posto da lui stesso, lui stesso se lo è opposto, per dare una ragione alla sua attività, la quale non può dirsi tale se non supera qualcosa, se non vince un ostacolo. Tuttavia, se questo limite è stato posto dall'io stesso, come può esso, veramente, limitarlo? E se, al contrario, lo dovesse limitare veramente, come potrebbe l'io dirsi ancora infinitamente libero?
Per risolvere questo problema occorre concentrarsi sulla formulazione del terzo principio della dottrina della scienza, principio che si pone come sintesi dei due principi precedenti, i quali presentavano la contraddizione ora ricordata: tra un io assoluto, infinito e libero (primo principio: tesi) e un io limitato da un non-io (secondo principio: antitesi). Il terzo principio viene così formulato da Fichte: «l'Io oppone all'interno dell'Io all'io divisibile un non-io divisibile» (Dottrina della scienza).
Qui occorre subito notare la distinzione tra un io infinito, indivisibile, l'io come autocoscienza del primo principio, e un io divisibile, cioè finito, limitato, diviso dal contatto con l'oggetto di conoscenza che lo ha appunto limitato. Come un oggetto esterno ci limiti, ovvero ci divida, lo possiamo comprendere attraverso il seguente esempio. Sprofondati nella nostra autocoscienza, immersi in una profonda riflessione, siamo un tutt'uno, noi che riflettiamo e l'oggetto (sempre noi) su cui riflettiamo: domina qui l'unità, la pace, l'armonia, non c'è divisione tra soggetto e oggetto. Un rumore improvviso ci distrae da questa intensa autoconcentrazione: è l'esterno che irrompe nel nostro regno illimitato e integro, indiviso. L'unità si rompe, il rumore ci divide perché mentre prima soggetto (io assoluto) e oggetto (io finito) erano unitariamente identici, ora da una parte c'è un soggetto (io finito) e dall'altra un oggetto (rumore), distintamente eterogenei.
Cerchiamo ora di dare una risposta alla precedente contraddizione per cui, l'oggetto da un lato limita il soggetto, ma dall'altro lato è da questi limitato, dando origine, come osserva Fichte, a un circolo dal quale non è possibile uscire:
Questo fatto, che lo spirito finito deve necessariamente porre al di fuori di sé qualcosa di assoluto (una cosa in sé), e, tuttavia, dall'altro canto, riconoscere che questo qualcosa esiste solo per esso (è un noumeno necessario) è quel circolo che lo spirito può infinitamente ingrandire, ma dal quale non può mai uscire. (J.G. Fichte, Dottrina della scienza)
È vero che è l'oggetto esterno, il non-io, ciò che impone un limite (e con ciò una divisione), e che questo limite fa nascere l'io finito, cioè empirico, individuale. Ma questa opposizione e divisione viene ricomposta, e l'unità indivisa riguadagnata, se si pensa che a fondamento di questa opposizione e della conseguente divisione vi è pur sempre l'io puro assoluto che è il fondamento e l'unico agente effettivo di tutta questa operazione.
Per spiegare questo punto, riprendiamo l'esempio del rumore. Per percepire il rumore come rumore, cioè come sensazione acustica che mi disturba, debbo avere coscienza di esso come contenuto della mia coscienza: deve intervenire cioè il principio dell'autocoscienza. Non basta avere coscienza di un suono (sentirlo) per percepirlo come rumore. Dobbiamo isolarlo dall'insieme dei suoni che sento, che sono i contenuti della mia coscienza, prenderne cioè attiva consapevolezza (coscienza della coscienza = autocoscienza) e percepirlo non più come un suono fra gli altri, indifferenziato, che, come gli altri, non mi disturbava, ma come suono che mi distrae: come rumore. Se non pongo attenzione (autocoscienza) a ciò che sento (coscienza), questi suoni non li percepisco: sono cioè vibrazioni che colpiscono il mio orecchio, ma che per me non esistono, non hanno importanza, infatti non mi disturbano. Il rumore di per sé quindi non esiste. Esiste solo nella misura in cui lo accolgo. Esiste in quanto sono io (io assoluto) che gli do esistenza e che così mi faccio vincolare e dividere. Sprofondato nella riflessione su me stesso, in un'intensa meditazione, non percepisco nulla (se non me stesso), nessun rumore, né la voce di chi mi chiama: tutta la realtà esterna mi è indifferente, è come se per me non esistesse. Sento (coscienza) quei suoni, non sono sordo, ma essi non entrano nel mio orizzonte d'esistenza. Solo l'autocoscienza li può trarre fuori dal nulla e conferire loro un'esistenza (per-noi): da suono indifferenziato, di sottofondo, ora che mi sono concentrato su di esso, diventa rumore. Se in quell'esercizio di meditazione comincia infatti a subentrare la noia, se viene meno l'intensità della riflessione e comincio a desiderare di uscire dalla stanza, allora anche il minimo rumore sarà da me percepito, lo accoglierò, gli darò peso, esistenza, mi farò distrarre (dividere) da esso. È il rumore che mi ha interrotto? No, proprio come non l'ha fatto prima quando meditavo intensamente. Lo ha fatto ora perché io gli ho conferito valore e capacità d'interrompermi. E come gliel'ho conferita, così posso togliergliela nuovamente, sprofondandomi in nuovi pensieri o preoccupazioni.
Il non-io limita dunque solo l'io empirico, l'io individuale di ognuno di noi, la nostra coscienza individuale, ma non limita l'io assoluto, il quale è il principio della nostra coscienza individuale e singola: quindi l'io assoluto resta libero e infinito, in quanto lui stesso si pone un limite. Questo limite non è solo apparente poiché limita effettivamente l'io, ma solo l'io empirico. Per fare un esempio un sacrificio ci limita, riduce la nostra libertà in un modo diverso a seconda che provenga da noi stessi o dall'esterno. Una cosa è fare una dieta se lo abbiamo deciso noi, un'altra è se ce lo impongono dall'esterno i medici. Per cui alla domanda: ma chi te lo fa fare? Rispondiamo con piacere e sollievo nel primo caso, con sofferenza e angustia nel secondo: nel primo caso ci siamo auto determinati (ci siamo imposti il limite da noi) e dunque conserviamo la nostra libertà; nel secondo caso siamo eterodeterminati (il limite non proviene da noi) e la nostra libertà risulta ristretta.
In altri termini, l'attività dell'io assoluto che produce il non-io è un originario conferimento di senso a ciò che si decide debba entrare, come rilevante, nel nostro ambito cognitivo, percettivo, di valori, o che al contrario si condanna all'anonimato del nulla, dell'irrilevanza, dell'insignificanza. Mi trovo di fronte il rumore o un oggetto perché già dapprima, in modo originario, inconsapevolmente, avevo selezionato (posto, prodotto) questo oggetto come rilevante per la mia esistenza. Facciamo un altro esempio. Se nella nostra stanza in disordine cerchiamo un anello, ci sintonizziamo mentalmente, se così si può dire, su quest'oggetto (su ciò che soltanto, ora, ai nostri occhi, è dotato di valore per la nostra esistenza), andiamo alla ricerca di esso attraverso un procedimento di selezione percettiva e cognitiva, per cui tutto il resto su cui si posa il nostro sguardo, che cade sotto i nostri occhi, non esiste, ovvero non ha importanza per-noi, è un nulla (infatti, quando cerchiamo in fretta e con ansia, tra il disordine, lo buttiamo per aria). Quando poi lo troviamo diciamo: eccolo! Come se esso fosse esistito indipendentemente dalla nostra attività di ricerca e dalla nostra operazione precategoriale (precedente cioè la conoscenza attraverso categorie, o meglio, il riconoscimento, dell'oggetto) di sintonizzazione selettiva (proprio come si sintonizza la radio per captare, selezionandole, alcune stazioni), che hanno invece presieduto, inconsciamente, alla produzione, al coglimento dell'anello. La controprova è che se invece dell'anello fossimo alla ricerca di un orologio, ciò che prima era dotato di (presunta) esistenza propria (l'anello appunto), ora non viene nemmeno colto. Si potrebbe obiettare: ma gli altri oggetti, quelli che nella ricerca sono stati scartati frettolosamente o buttati per aria, esistono pur sempre in modo assoluto. Sì, ma non esistono per-noi, non hanno valore (ontologico), sono irrazionali, sono reali ma non veri, sono quell'ostacolo che deve venire progressivamente ridotto, sono quel non-io in attesa di diventare io, di essere riconosciuto dall'io come suo prodotto, sono il limite che deve essere spostato sempre più in là per ampliare la nostra libertà, sono la natura e il mondo esterno che debbono essere assimilati dall'uomo, che debbono essere umanizzati, che debbono essere ridotti al nostro senso, ai nostri scopi. Nessuno negherà che il petrolio sia sempre giaciuto da secoli nel sottosuolo, solo che esso è diventato qualcosa, e qualcosa d'importante per noi, solo quando è stato impiegato come combustile, ovvero quando gli si è dato senso (umano) e lo si è inserito come rilevante per il nostro mondo. E lo stesso si può dire di chi sa quanti minerali, a noi ignoti, che giacciono addormentati nel grembo della terra, in attesa di essere umanizzati, cioè inseriti nel nostro mondo, piegati ai nostri scopi, in attesa di esistere.
Il soggetto conoscente può superare il limite e sapersi autore di esso, rendendo consapevole quell'atto dell'immaginazione produttiva, divenendo cioè consapevole di aver posto il non-io attraverso di essa: ma questo è il lavoro della riflessione, della filosofia, la quale si identifica con il più alto esercizio di libertà. Infatti, come vedremo, se l'attività teoretica culmina nel riconoscimento del non-io quale prodotto dell'io stesso, la riflessione morale mostrerà come anche la conoscenza umana sia espressione dell'io, e funzionale alla realizzazione della sua libertà. L'immaginazione produttiva esprime perciò a livello inconscio l'attività dell'io, il suo continuo e incessante opporre a se stesso un limite, al fine di ricomprenderlo, affermare se stesso, esercitare la propria libertà:
L'attività dell'Io consiste nell'illimitato porsi; contro quella stessa sorge una resistenza. Se cedesse a questa resistenza, allora quell'attività che oltrepassa il limite della resistenza sarebbe affatto annientata e distrutta; e perciò l'Io, in generale, non porrebbe più […] Questa reciprocità dell'Io in sé e con se stesso, in cui esso si pone assieme come finito ed infinito - reciprocità che consiste quasi in una lotta con se stessa e che perciò riproduce se stessa […] è la facoltà dell'immaginazione. (J.G Fichte, Dottrina della scienza)
L'azione morale prende le mosse e insiste proprio su questo primato d'origine, scoperto in sede teoretica, dell'io sul non-io: si basa sul riconoscimento riflessivo che il non-io è in fondo e in verità posto dall'io assoluto. Si tratta per l'io empirico di guadagnare uno spazio il più possibile ampio di libertà, e ciò solo in quanto si riduce sempre più progressivamente l'ambito del non-io.
Si è liberi se c'è solo l'io, se l'io non si fa vincolare da un non-io esterno ed estraneo che gli impone le sue leggi, perché, al contrario, è l'io che deve imporre ad esso le sue leggi: e ciò avviene attraverso un processo di umanizzazione, vale a dire di spiritualizzazione della realtà esterna (naturale, sociale, storica), attraverso l'imposizione (o il riconoscimento) di un senso umano e spirituale a ciò che apparentemente ne è privo. Come spiega Fichte, se nell'attività teoretica l'io si pone determinato dal non-io, in sede pratica è invece l'io che si pone come determinante il non-io.
Del resto un autentico ed effettivo, e non astratto, esercizio di libertà può avvenire solo se l'attività si confronta con un limite, con un ostacolo da superare: altrimenti questa attività e questa libertà si mostreranno vuote. È questo il senso del secondo principio, della necessità cioè che l'io assoluto opponga a se stesso un limite per dare un significato alla sua azione, la quale, senza nulla da superare, sarebbe sterile e vuota, girerebbe a vuoto senza resistenza. Infatti, posso dire di essere veramente libero da una tentazione, da un limite, se prima non mi sono autenticamente confrontato con esso e non ne sono uscito vincitore? Posso ritenermi libero da una inclinazione nociva, da un vizio, in astratto? O questa libertà astratta sarà solo apparente e molto fragile? L'onestà ad esempio è tanto più forte quanto più si è confrontata col suo opposto, e da questo confronto è uscita vincitrice. Sono onesto nel momento in cui penso che potrei rubare: ma è proprio contemplando questa possibilità, comprendendo cosa essa significhi effettivamente, che la mia onestà sarà più forte, perché rafforzata da un pericolo che conosco e che, superato, mi ha permesso, per così dire, di immunizzarmi. Anche da un punto di vista biologico, sano è colui che si è confrontato con l'ostacolo dell'infezione, il cui sistema immunitario cioè non è sano in astratto, ma è sano perché è entrato in contatto con il virus e ha sviluppato gli anticorpi, così che questo virus sarà per lui innocuo in futuro e la sua salute solida. Chi al contrario, in modo ingenuo, non ha mai pensato di impadronirsi del denaro altrui, chi ha sempre respinto a priori questa possibilità, senza mai confrontarsi autenticamente con essa, senza mai valutarne i vantaggi, ma soprattutto gli svantaggi, nel momento in cui dovesse presentarsi l'occasione di rubare sarà meno attrezzato per respingere la tentazione e cadrà in essa più facilmente.
Insomma, soltanto chi ha conosciuto il male può riconoscerlo ed evitarlo. Questo per quanto riguarda la libertà interiore, la libertà dell'io nei confronti del non-io rappresentato dai suoi oscuri impulsi interiori, dai suoi vizi, se vogliamo, che lo assoggettano privandolo della libertà: si ricordi che il ladro è il mal-vivente. Per quanto riguarda la libertà esteriore, ciò che si oppone all'io dall'esterno, pensiamo invece al processo storico che ha portato l'uomo, nel bene e nel male, ad umanizzare il paesaggio naturale, a imporre l'io laddove c'era solo la sua negazione, il non-io, a sostituire la natura con prodotti spirituali. Gli sterminati boschi e le impenetrabili foreste del nostro pianeta erano certo ostili all'uomo, nel senso che non ne permettevano gli insediamenti, la costruzione di città e di comunità sociali: il paesaggio è stato trasformato, e laddove c'erano alberi ora ci sono edifici. Prima la vita dell'uomo era impossibile, ora, assoggettando la natura, è stata resa possibile e la natura è stata umanizzata, avendo trasformato ad esempio il bosco, che incuteva paura, in un gradevole giardino che distende lo spirito. Se regna la natura (esterna o interna all'uomo: nei nostri esempi le foreste e le tentazioni), l'uomo non è libero; se la natura, e in generale la realtà esterna, è assoggettata, interpretata secondo scopi e progetti umani, l'uomo sarà libero.
Fichte presenta il suo idealismo come un idealismo etico più che gnoseologico, riconoscendo il primato dell'attività pratica rispetto a quella teoretica. Tale primato dell'agire sul conoscere è basato sul presupposto originario che l'io è atto, soggetto e oggetto di conoscenza; perciò anche l'attività teoretica culmina nella riflessione sul soggetto che è il principio di tutto, che pone il non-io come ostacolo per affermare la sua assolutezza e riconoscere se stesso nell'oggetto. Ciò spiega anche come per l'uomo la libertà sia più un lungo e faticoso compito che uno stato sostanziale in cui egli si troverebbe già, o che potrebbe acquisire in modo definitivo; l'uomo cioè non tanto «è» libero, ma «diventa» libero, confrontandosi e superando progressivamente ostacoli via via sempre più complessi e impegnativi: L'io è infinito, ma solo per il suo sforzo, esso si sforza di essere infinito. Ma nel concetto stesso dello sforzo è già compresa la finità. (J.G Fichte, Dottrina della scienza)
La libertà dell'uomo è per Fichte sforzo continuo di imporre l'io (il quale infatti è attività infinita) sul mondo esterno, di umanizzare e spiritualizzare la realtà esterna (il non-io), la quale non è affatto docile e disponibile a lasciarsi plasmare secondo le idee e il volere dell'uomo: si tratta cioè di imporre un senso umano alla realtà che oppone resistenza, sia essa la natura o la storia, le quali presentano un carattere di insensatezza mai completamente riducibile; si tratta di superare costantemente gli ostacoli, riconoscendo li come nostri prodotti, come posti (da noi) e non come imposti (dall'esterno). L'io infinito è dunque tendenza infinita, meta ideale, compito per l'uomo, ed è un compito infinito che non conosce mai pace, e ciò anche a causa della finitezza dell'uomo, che mai potrà conquistare pienamente una completa condizione di libertà e di indipendenza dalla natura: ecco perché, superato un ostacolo, subito ne sorge un altro. La cessazione dell'attività d'altronde coinciderebbe con la rinuncia alla libertà e a ogni sforzo di superamento, con l'accettazione di una realtà vista come immodificabile e immutabile, irriducibile ai nostri scopi e ai nostri valori. Al contrario l'attività dell'io infinito lavora per uno spostamento progressivo e incessante del limite, sempre più in là, secondo un moto di avvicinamento progressivo a una meta che sempre però si sottrae: movimento senza fine, ma in cui solo risiede la nostra dignità di esseri liberi e morali.
In questo modo il compito, il destino, la missione dell'uomo è la libertà. E la libertà è anche il criterio che fonda i nostri diversi atteggiamenti teoretici nei confronti del mondo. Fichte vuole dire che la scelta stessa di un sistema filosofico, di un'interpretazione del mondo, deriva in fondo dall'assumere o meno la libertà come principio metafisico fondamentale dell'essere. Perché aderiamo a un sistema filosofico piuttosto che a un altro? La risposta è da rinvenirsi in una radicale scelta etica per o contro la libertà. Ora solo l'idealismo può garantire la libertà, può riconoscerla (nel soggetto umano) operante nel mondo, in quanto, come sappiamo, fa dipendere la realtà dall'azione morale dell'uomo, ovvero in quanto risolve il non-io nell'io che lo supera ponendolo. L'idealismo verrà dunque scelto, fatto proprio, dagli amanti della libertà, da coloro che ritengono che l'essenza dell'essere sia la libertà. Chi al contrario pensa che per il mondo e per l'uomo non valga il principio di libertà, chi pensa ad esempio che la libertà sia inefficace e che nel mondo tutto accada in modo necessario, chi pensa che l'azione morale dell'io sia nulla, vana, allora questi aderirà al dogmatismo, al realismo, che riconosce il primato della realtà esterna e dell'oggetto sul soggetto, che vede il soggetto lasciarsi determinare dall'oggetto:
Ogni dogmatico conseguente è per necessità fatalista […] nega del tutto quell'autonomia dell'Io, su cui l'idealista costruisce. (J.G. Fichte, Prima introduzione alla dottrina della scienza)
In queste considerazioni Fichte sembra valorizzare l'aspetto esistenziale dei sistemi filosofici, sottolineando come cioè la filosofia non sia un'astratta costruzione di pensiero, ma affondi le proprie radici in una scelta umana, in un carattere umano:
La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è un'inerte suppellettile che si può lasciare o prendere a piacere, ma è animato dallo spirito dell'uomo che l'ha. (J.G. Fichte, Prima introduzione alla dottrina della scienza).
Il che significa ribadire ancora una volta il primato dell'etico sul teoretico, anche se poi l'etico trova giustificazione, come abbiamo visto, nella dottrina della conoscenza. Si tratta cioè di una originaria e preliminare scelta di campo: sei per la libertà o per la necessità? Intendi operare e modificare il mondo in cui vivi o lasciarti determinare passivamente da esso, riconoscendo con ciò, sconsolatamente, la tua impotenza? Se opti per la prima scelta, l'idealismo farà per te; se opti per la seconda, troverai giustificazioni teoriche nel dogmatismo.
A partire dal 1800, come s'è detto, Fichte diede un nuovo orientamento al suo pensiero, nelle riesposizioni della Dottrina della scienza non pubblicate, nell'introduzione alla vita beata e nei Tratti fondamentali dell'epoca presente. La dottrina fichtiana della scienza viene contestata da più parti. In particolare, Kant la rigetta, poiché Fichte identifica la dottrina della scienza con una semplice logica formale, basata sull'astrazione da ogni contenuto, e dunque la giudica incapace di ricavare l'elemento materiale della conoscenza. In realtà, già con la prima dottrina della scienza Fichte ritiene di essere riuscito a spiegare l'«elemento materiale» della conoscenza, affermando l'originarietà dell'azione reciproca tra lo e Non-io. Tuttavia, Fichte matura progressivamente una certa insoddisfazione nei confronti della «forma lo». Ora essa gli appare incapace di offrire al sapere una base stabile: la verità, per potere essere conosciuta, deve avere una realtà oggettiva indipendente dall'Io. Senza il riferimento a un Essere, tutto il sapere soggettivo risulta privo di senso. Fichte modifica così in maniera significativa la dottrina della scienza. L'esigenza di offrire al sapere un fondamento più solido lo induce ad abbassare l’lo da primo principio del sistema a manifestazione dell'Essere. Ora l’lo è posto al livello più basso di un processo articolato in tre momenti:
1. l'Essere in senso proprio, l'«immutevole», fuori della portata di ogni riflessione;
2. la «Ragione assoluta», ossia la manifestazione dell'Essere, che è necessaria quanto l'Essere;
3. la soggettività o lo, che è il mezzo con cui la Ragione si manifesta.
Tuttavia Fichte non ricade nel dogmatismo della metafisica tradizionale. Piuttosto, egli si sforza di affrontare il problema fondamentale della metafisica - cioè il problema dell'Essere restando fedele alla «rivoluzione copernicana» di Kant; essa aveva insegnato che l'indagine sull'Essere non può procedere indipendentemente dall'indagine sulle condizioni della conoscenza.
Dunque, Fichte nega che l'Essere (l'Assoluto) possa essere colto immediatamente, con una intuizione intellettuale. Infatti, se si parte immediatamente dall'Essere, è impossibile ogni passaggio al pensare.
Secondo Fichte l'unica via di accesso all'Essere è un processo di riflessione del sapere su se stesso, che culmina con un'autonegazione del sapere: esso annulla la propria autonomia e riconosce come suo fondamento l'Essere o Assoluto. Tuttavia, questa autonegazione del sapere è un atto del pensiero e della coscienza.
Nell'opera L'avviamento alla vita beata Fichte affronta il problema seguente: come è possibile raggiungere la «beatitudine», intesa come «unione» del soggetto con l'Assoluto? Secondo Fichte questa unione per l'uomo può avere luogo solo attraverso il sapere, che è la nostra «essenza inestinguibile». Infatti l'Assoluto è unità di essere e pensiero e quindi non può essere colto attraverso il sentimento: l'Assoluto può essere colto solo attraverso il pensiero, che diviene così sapere assoluto.
In queste opere l'io non è più presentato come l'assoluto, ma come il riflesso e l'immagine dell'assoluto, identificato prima nell'essere, poi, apertamente, in Dio; solo Dio, secondo Fichte, può essere fonte della vita che caratterizza lo spirito, e solo in Dio lo spirito può trovare la propria realizzazione. A questa sono dirette le varie "epoche" della storia del mondo.
Fichte considera i corsi tenuti nel 1804 sulla dottrina della scienza come le esposizioni più riuscite della sua filosofia. Nella prima conferenza della esposizione del 1804 Fichte prospetta la sua idea generale di filosofia. La filosofia deve «esporre la verità» (WL 1804, 7). Essendo la verità l'«assoluta unità e immutabilità della opinione», l'essenza della filosofia consiste nel «ricondurre all'unità assoluta ogni molteplice (che per altro ci si impone nella veduta ordinaria della vita)».
Molteplice è tutto ciò che ha il suo opposto e il suo correlato, ciò che può essere fatto oggetto di distinzione e differenziazione. L'unità assoluta è invece la verità in sé conchiusa ed immutabile del molteplice stesso. Compito del filosofo è quello di ricondurre l'uno all'altra. Egli pertanto «concepisce il molteplice attraverso l'uno e, reciprocamente, l'uno attraverso il molteplice; ciò significa che l'unità = A [assoluto] gli appare come principio dei molteplici e, viceversa, che i molteplici possono essere concepiti nella loro ragion d'essere soltanto come principiati di A» (WL 1804, 7-8). La filosofia è, in definitiva, «esposizione dell'assoluto». Un sistema filosofico degno del nome non può volersi, vuoi oscuramente vuoi chiaramente, che come esposizione dell'assoluto, ossia come comprensione riflessiva del nesso che collega - in quanto principiati e principio - i molti all'uno. Essi sono articolati in due parti fondamentali:
1 una teoria della verità e della ragione: essa giustifica l'autonegazione della coscienza, attraverso la quale dal pensiero si può ascendere all'Essere, inteso come unità di essere e pensiero;
2. una teoria dell'apparire, o del fenomeno: essa si propone di discendere dall'Essere come principio al sistema dell'apparire, attraverso un procedimento deduttivo.
Con il termine «apparire» o «fenomeno», Fichte non intende gli oggetti dell'intuizione sensibile, ma le forme in cui l'Assoluto diventa concepibile. Queste ultime sono le determinazioni necessarie della coscienza, in quanto manifestazione della Ragione assoluta.
Fichte deduce cinque forme fondamentali della coscienza, che può essere:
1. coscienza di un oggetto sensibile, che è dato: coscienza della natura;
2. coscienza di un soggetto sensibile, che è dato: coscienza della persona che è soggetto di relazioni giuridiche;
3. coscienza di un soggetto sovrasensibile, che non è dato, bensì forma se stesso nell'agire: il soggetto della moralità;
4. coscienza di un oggetto sovrasensibile e assoluto, che non è dato, bensì forma interiormente se stesso: coscienza del Dio che è oggetto della religiosità;
5. scienza trascendentale, che comprende unitariamente queste determinazioni necessarie della coscienza in quanto manifestazione della Ragione assoluta.
Si tratta di una versione della «sintesi quintuplice», tematizzata da Fichte per la prima volta nella Nova methodo (1798).
Per Fichte questa scissione quintuplice della Ragione assoluta nelle determinazioni necessarie della coscienza è inseparabile da un'ulteriore scissione: la Ragione assoluta può manifestarsi nella coscienza solo scindendosi negli infiniti oggetti conosciuti e negli infiniti soggetti conoscenti che costituiscono il mondo empirico.
La prospettiva trascendentale è quella di una filosofia che non pone l'assoluto né nella cosa né nel sapere soggettivo, ma nell'unità di entrambi (essere più coscienza, o coscienza più essere), in quell'unità che risiede a fondamento di ogni divisione e in cui si risolve ogni molteplicità possibile. La dottrina della scienza continua ed approfondisce, elevandola alla suprema chiarezza sistematica, questa via intrapresa da Kant. Essa non rappresenta pertanto né una metafisica della oggettività e nemmeno una metafisica della soggettività, come hanno potuto ritenere taluni che, privilegiando l'analisi dell'esposizione del 1794-95 che offre ancora soltanto la «fondazione» della dottrina della scienza, hanno accusato quest'ultima di essere pura filosofia della riflessione. La dottrina della scienza non si presenta né come realismo dogmatico né come idealismo dogmatico, ma è real-idealismo o ideal-realismo, filosofia trascendentale appunto.
Custodendo l'unità trascendentale, la dottrina della scienza rimane costitutivamente sul piano della riflessione, del sapere dello spirito finito e dichiara non lecita la pretesa della filosofia di collocarsi, anzi di installarsi, nel punto di vista dell'assoluto. Essa afferma bensì l'assoluto, ma si tratta sempre di un'affermazione indiretta, ottenuta attraverso la ricostruzione del sapere come coscienza, imma- gine dell'assoluto. Questo presentarsi del medio della riflessione nella dinamica dell'affermazione dell'assoluto, garantisce, per un verso, l'assolutezza dell'assoluto stesso, ossia la sua irriducibilità agli schemi del sapere che lo pensa, il suo essere «non sapere», origine assoluta del sapere, appresa certamente nel sapere, ma insieme insuscettibile di diventare «oggetto» del sapere stesso (cfr. SW, II, 63); per altro verso, la presenza della riflessione assicura che la dottrina della scienza è solidamente attestata nel punto di vista del finito e custodisce la peculiarità propria di questo punto di vista al quale non è filosoficamente consentito un passaggio immediato nell'assoluto, ma soltanto una sua predicazione mediata, indiretta, in forza della quale il sapere coglie che l'assoluto è il differente da lui (è il «non sapere») ed è insieme l'origine che lo fonda e lo consente.
L'assoluto si presenta al sapere che lo pensa come il radicalmente altro dal sapere, come il «non sapere». Il sapere è riflessione, discorso, oggettivazione, moltiplicazione; l'assoluto è l'unità ultimamente inconcepibile, inoggettivabile, indisponibile. La comprensione dell'inconcepibile (ossia la forma di concettualizzazione propria della dottrina della scienza) non può realizzarsi affatto come oggettivazione dell’assoluto, ossia come riduzione dell'assoluto stesso alle trame logico-dialettiche del sapere, ma come delimitazione negativa dell'assolutamente inoggettivabile. Nel momento stesso, infatti, in cui il sapere si autocomprende e determina consapevolmente il proprio orizzonte (finalità questa che persegue la dottrina della scienza), in questo stesso momento il sapere attesta indirettamente l'altro da sé (il «non sapere») nella cui presenza informulabile trova la sua origine assoluta, e in questa attestazione il sapere trova se stesso come «annientato», posto come «non essere», come ciò che è radicalmente altro dall'essere-assoluto.
L'assoluto è l'essere puro, condizione e fondamento ultimi del sapere ed è, in relazione al sapere, ciò che è radicalmente altro dal sapere stesso (il non-essere del sapere). Il sapere ha origine - per un atto di libertà - dall'assoluto e nell'assoluto. Nell'atto di autocostituirsi con libertà, il sapere «è», ma Questo «essere» del sapere è «non essere» rispetto all' assoluto; il sapere «è» in quanto «non è» l'assoluto, ed il suo non essere l'essere puro costituisce precisamente il suo proprio essere.
Il sapere, la coscienza, è la forma secondo cui l'assoluto è presente (esiste): il sapere infatti è ciò che rappresenta l'assoluto. Essendo rappresentazione dell'assoluto, il sapere è la sua immagine, la manifestazione dell' assoluto stesso. Fra assoluto e sapere esiste discontinuità assoluta e, insieme, inerenza. Discontinuità poiché l'assoluto non è il sapere e il sapere non è l'assoluto; l'assoluto è il fondamento inconcettualizzabile, l'inconcepibile, il «non sapere», e il sapere è il radicalmente altro dall'assoluto, è il «non essere» dell'assoluto; inerenza perché il sapere, in quanto costitutivamente rappresentazione, riflessione, presenta - tramite sé - l'assoluto, ne è immagine, e l'assoluto «esiste» (ist da) soltanto nell'immagine che lo rappresenta.
La discontinuità permette l'inerenza, poiché il sapere non oppone un «suo» essere all'assoluto, ma trova se medesimo soltanto nel rappresentare, nel manifestare, nell'essere immagine di 'ciò che è portato - tramite sé - alla presenza; l'inerenza esprime la discontinuità, poiché porre un'immagine è attestare una differenza ontologica fra immaginato ed immagine, fra ciò che è assolutamente in sé e ciò che è assolutamente per altro.
Nell'autoapprendersi come sapere, il sapere medesimo riconosce il suo limite e, in ciò stesso, lascia essere l'altro da sé, il «non sapere», l'assoluto. Autoconcependosi come rappresentazione, idea, concetto, riflessione, ragione finita, il sapere si sa come ciò che «non è» l'assoluto, e, in tal modo, esso afferma indirettamente, mediatamente (in quanto immagine, riflesso appunto) l'assoluto che gli è altro. Dire allora che il sapere è affermazione e negazione di sé equivale ad asserire che il sapere è affermazione indiretta dell'assoluto - mediata cioè sempre dalla riflessione - ossia equivale a sostenere che il sapere è immagine dell'assoluto. La realtà dell'assoluto non è, tuttavia, né la realtà di un soggetto assoluto, né quella di un oggetto assoluto. L'assoluto è, sotto questo profilo, il radicalmente insoggettivabile e il radicalmente inoggettivabile: esso è il non riducibile alla sfera del rapporto soggetto-oggetto ed insieme esso ne è il principio di unità e di disgiunzione. L'esposizione della Dottrina della scienza del 1801 non contiene soltanto il riconoscimento della differenza ontologica fra l'assoluto e il sapere, ma propone anche la comprensione scientifico- sistematica delle sue articolazioni e implicazioni. Il sapere è costitutivamente ricostruzione e non origine. Andando a fondo delle proprie condizioni, il sapere perviene all'affermazione del proprio fondamento, il quale non può essere a sua volta sapere, bensì «non sapere», non-essere del sapere, «essere puro», assoluto. Se l’assoluto è dunque l’essere che sta al di là del pensiero, la connessione tra l’essere e il pensiero rappresenta, per Fichte, il modello concettuale nel quale l’assoluto si ma- nifesta nel sapere. Se l’assoluto è l’essere, il pensiero, il sapere, è la libertà. Dunque la possibilità che l’assoluto si manifesti è la forma della relazione tra essere e libertà, cioè tra assoluto e pensie- ro. Il compenetrarsi di essere e libertà rappresenta allora la forma nella quale l'assoluto entra nel sapere. Esso non è affatto l'assoluto medesimo, che è al di là di questo stesso compenetrarsi in quanto è assoluta unità, perchè dove c’è il compenetrarsi abbiamo già il sapere (forma, riflessione, libertà). Ma l’assoluto, cioè l'inconcepibile origine del compenetrarsi, non cade direttamente nel sa- pere, ma, in quanto origine, è precisamente ciò che dà a pensare, ciò che rende possibile il sapere, il suo fondamento assoluto e reale. L'assoluto è l'orizzonte inconcettualizzabile (né soggetto né og- getto) che consente l'istituirsi della soggetto-oggettività, ossia, esso è il non-sapere che origina il sapere come vivente compenetrazione di libertà e di essere, di pensiero e di vita.
L'essenza del sapere è pertanto sempre vivente compenetrazione fra rappresentazione e rappresen- tato, concetto e condizione del concetto. IL concetto è l'atto con cui il sapere afferrra la realtà og- gettiva, ma saebbe impossibile senza la luce interiore che Fichte considera il fondamento dell'atto spirituale nel quale la libertà del sapere si compenetra con la realtà oggettiva. Precisamente dalla volontà di esplicare questa struttura interiore del sapere che possono emergere ed emergono due diverse e antagonistiche posizioni filosofiche: l'idealismo e il realismo. L'una e l'altra posizione mirano - in direzioni opposte e ciascuna articolandosi a livelli diversi di profondità e di rigore - ad assolutizzare un elemento del sapere pretendendo di spiegare il sapere stesso sulla base di questa assolutizzazione. In tal maniera, tuttavia, idealismo e realismo per un verso smarriscono l'unità genetica del sapere (cadendo in spiegazioni puramente fattuali o esteriori del sapere stesso) e, per altro verso, fraintendono la realtà autentica dell'assoluto, convertendolo ora in un assoluto soggetto ora in un assoluto oggetto. L'essenza della posizione idealista consiste nell'assolutizzare il punto di vista del concetto, della forma del sapere e nell'assegnare il primato, nell'autocostituirsi della compenetrazione vivente del sapere stesso, all'energia soggettiva della riflessione. L'idealismo eleva il concetto, la forma, a principio assoluto del sapere e riconcepisce a sua volta il concetto come fenomeno della vita assoluta della ragione.
In polemica con la unilateralizzazione prodotta dalla posizione idealistica, si leva la prospettiva realistica. La sua massima è di far valere non la forma, ma il contenuto del sapere; ciò la conduce ad assegnare il primato non all'energia soggettiva della riflessione, ma al termine oggettivo della riflessione stessa, costituendolo come vita e verità assolute.
Entrambi i punti di vista - idealista e realista - rivelano una palese unilateralità di fatto nella scelta del punto di partenza. L'uno privilegia il fatto della riflessione, l'altro privilegia il fatto della vita, l'uno assolutizza il soggetto, l'altro l'oggetto, l'uno predica il primato della forma, l'altro del contenuto. La compenetrazione genetica che costituisce il sapere viene, in entrambi i punti di vista, dissolta; l'assoluto, per parte sua, viene da essi ricondotto e ridotto ora al soggetto ora all'oggetto, finendo in tal maniera sempre per coincidere e per esaurirsi nella sfera della soggetto-oggettività.
Per elevarsi al punto di vista della dottrina della scienza (che non è né idealismo né realismo, ma filosofia trascendentale) è necessario proseguire la «riflessione ascendente» sul sapere. Prima di pervenire tuttavia ad una comprensione autentica dell'assoluto,la filosofia trascendentale deve ancora prendere in considerazione due versioni più rigorose e approfondite del realismo e dell'idealismo, ossia il realismo e l'idealismo superiori. Ora, non è l'idealismo, ma è il realismo il punto di vista che per primo viene avanzato ed elaborato dalla riflessione nel suo tentativo di attingere un livello superiore di autoconsapevolezza del sapere. Nella figura che è stata ricostruita fino ad ora (livello inferiore), l'idealismo ha fondato se stesso nella completa ignoranza della veduta realistica la quale non detiene, per esso, alcuna esistenza. Il realismo invece rifiuta l'idealismo nella sua pretesa assoluta e gli contrappone la sua, ma proprio in questo contrapporre prende coscienza di ciò che esso critica e respinge, ossia della veduta idealistica. Il realismo infatti afferma il primato del contenuto, dell'oggetto, della vita in sé nell'atto stesso in cui contraddice la veduta contraria e di conseguenza non ignora quest'ultima.
Ricapitoliamo il cammino fino ad ora percorso: l'idealismo inferiore non sapeva del realismo; il realismo inferiore sapeva dell'idealismo inferiore, ne rifiutava la pretesa ed avanzava la propria (la vita in sé è l'assoluto); infine, approfondendo la genesi del principio del realismo inferiore, la riflessione è pervenuta ad elaborare un realismo superiore, secondo il quale il senso radicale dell'in sé risiede precisamente nel suo essere negazione di ogni pensiero e concetto fuori di lui. La visione dell'in sé, che è alla base del realismo superiore, non è prodotta da un pensare esteriore per il quale non vi è in realtà alcuno spazio; essa scaturisce immediatamente dall'autocostruzione dell'in sé. L'in sé, costruendo se medesimo, realizza assolutamente la condizione (luce) del sapere.
Benché non si possa negare che l'in sé costruisca se medesimo e produca nell' atto stesso la condizione del sapere, non si può parimenti negare che ciò è condizionato all'atto del nostro rifletterlo come tale. Trova qui origine un nuovo punto di vista sul sapere e sull'assoluto, quello dell'idealismo superiore.
La sua differenza rispetto all'idealismo inferiore risiede in ciò: il precedente idealismo rifletteva sulle condizioni di possibilità degli atti del sapere come vivente compenetrazione e reperiva tali condizioni nella ragione come forma assoluta; il suo nucleo era una teoria della conoscenza. L'idealismo superiore riflette invece sulle condizioni di possibilità dell' autocostruirsi dell'in sé come assoluto; il suo nucleo è una teoria del pensiero come principio dell'in sé. L'idealismo superiore afferma che condizione del processo di autocostruzione dell'in sé è l'energia della riflessione che pensa questo stesso processo, in quanto realtà assoluta non dissimile dal pensiero di pensiero aristotelico. Ma, in tanto l'idealista superiore può sostenere la verità di siffatta affermazione, in quanto egli è cosciente di questo suo energicamente pensare. Egli può asserire, infatti, di essere lui stesso a pensare l'in sé in quanto egli è consapevole di farlo. È l'autocoscienza in quanto coscienza del proprio pensare l'autocostruzione dell'in sé, pertanto, il fondamento dell'idealismo superiore.
A questo punto tuttavia è possibile domandare: è in grado la veduta idealistica superiore di giustificare il rapporto che si costituisce fra la coscienza del pensare e il pensare l'in sé? La testimonianza della coscienza dice che non si può pensare senza sapere di pensare e viceversa. Questo è il fatto in base al quale l'idealismo superiore eleva la sua pretesa di riporre nell'autocoscienza, come coscienza del riflettere, l'assoluto. Ma questo idealismo non esibisce alcun termine di connessione fra la coscienza del pensare e il pensare l'autocostruzione dell'in sé.
In effetti, nell'idealismo superiore, l'autocoscienza è in realtà tale - coscienza del riflettere - perché ha proiettato fuori di sé, tramite un salto assoluto, il pensare dell'in sé che gli è oggetto. L'autocoscienza si autoafferma come coscienza del sapere, ma come essa possa pervenire a porsi in quanto tale, essa non lo dice, e in realtà proietta fuori di sé il sapere dell'in sé attraverso uno «iato irrazionale» (per hiatum irrationalem). L'idealismo superiore espone una teoria del pensiero in quanto principio dell'in sé, ma non può conseguire una fondazione trascendentale di questa teoria, perché assolutizzando l'autocoscienza (coscienza del pensare) non spiega la connessione fra la coscienza e il pensare e si limita a rilevare la connessione stessa come fatto assoluto. Assolutizzando l'autocoscienza non si giunge all'in sé così come è stato raggiunto in precedenza nell'energia della riflessione. Nell'idealismo superiore rimane una radice fattuale, provocata dalla pretesa di attribuire validità in sé alla coscienza come coscienza del pensare. La riflessione trascendentale deve pertanto proseguire il suo cammino ascendente respingendo l'idealismo superiore in questa sua pretesa, anche se la riflessione trascendentale stessa non sopprime mai la testimonianza della coscienza cui riconosce invece la sua giusta dimensione di fenomeno dell'assoluto.
A questo punto, la riflessione ascendente è pronta a compiere il passo conclusivo. L'assoluto non può essere affermato come termine interno di una relazione: posto come soggetto (ragione, autocoscienza) rimanda sempre a un oggetto che lo relativizza; posto come oggetto (vita, in sé) esso si trova permanentemente rinviato, correlato e correlabile, a un non-in sé, ossia a un per-noi. Un'affermazione autentica dell'assoluto potrà allora essere ottenuta unicamente grazie ad una radicale astrazione dalla relazione stessa.
Ciò non significa tuttavia collocarsi immediatamente nella sfera dell'assoluto, ma attuare - avendo effettuato l'intero itinerario della riflessione ascendente - una interiorizzazione radicale della relazione che ne lasci cadere la dimensione esteriore.
Astrazione non equivale pertanto ad abbandono del punto di vista dello spirito finito, ma equivale a sforzo di comprendere il nucleo interiore presentatoci dalla relazione nel suo livello più alto (quello dell'in sé che rinvia a un non-in-sé), cogliendolo al di là della forma della relazione stessa.
L'astrazione, dispiegata al massimo della sua potenza, ci presenta l'assoluto né come essere-oggetto né come essere-soggetto: esso è assolutamente per sé, in sé, attraverso se stesso, come essere-in-atto, actus, ciò che assolutamente è per sé, in sé e attraverso se stesso. L'assoluto-actus è l'assolutamente reale.
Se l'assoluto-actus è, insieme, trans-oggettivo e trans-soggettivo, non ne consegue tuttavia che esso sia indifferenza tra soggetto e oggetto (Schelling). Infatti, per un verso l'assoluto è unità, non indifferenza; per altro verso, l'assoluto, in quanto origine del sapere, è il fondamento ultimo delle differenziazioni, ossia dell'intero sistema del mondo spirituale-sensibile. In definitiva, la dottrina della scienza non rappresenta né una metafisica oggettiva (realismo della cosa in sé, dell'essere-oggetto, della vita in sé, dell'in sé come preteso principio assoluto) né una metafisica soggettiva (idealismo del soggetto in sé, dell'essere-soggetto, della ragione assoluta, dell'autocoscienza) e non costituisce nemmeno un tentativo di trascendere immediatamente o assolutamente la soggetto-oggettività per edificare, dall'interno dell'assoluto, una metafisica dell'assoluto stesso.
L'affermazione dell'assoluto in cui si perfeziona la riflessione ascendente non può essere considerata come un prolungamento lineare e omogeneo della dinamica del sapere stesso. L'assolutamente reale è altro dal sapere. L'affermazione dell'assoluto è ottenuta dalla riflessione nel momento stesso in cui questa si perfeziona e si nega, si completa e si sottrae lasciando essere l'altro da sé. Nell'astrazione assoluta, nell'atto di prendere congedo dalla forma della soggetto-oggettività, il sapere «perviene per mezzo di se stesso alla sua fine» (SW, II, 63) e, insieme, attesta l'«essere puro», la sua origine incondizionata. L'assolutamente reale non è allora l'altro dal sapere in quanto suo correlato oggettivo che il sapere forma e concepisce (ché in tal caso verrebbe a cadere dentro la sfera della soggetto-oggettività); l'assoluto è l'«essere interiore» che rende possibile il sapere come correlazione, forma, quantitabilità, determinazione. L'assoluto è il fondamento e l'atto informulabile, indisponibile, inoggettivabile (in questo senso altro dal sapere) che dà a pensare, ossia che consente la genesi liberamente attuantesi del sapere stesso. Fra assoluto e sapere non può istituirsi una relazione quale quella che esisterebbe fra due «esseri», giacché solo assoluto è, in senso proprio, essere: porre un altro essere di fronte all'assoluto equivarrebbe ad annientare l'assoluto riducendolo a correlato di una dualità entro la sfera soggettivo-oggettiva. Essendo unico l'assoluto, il sapere, che ne attesta la presenza in un gesto radicale di rinvio all'altro da sé e che insieme è reso possibile da questa presenza, non potrà essere riconosciuto che come immagine, manifestazione dell'assoluto. Affermando l'assoluto come l'assolutamente reale, assoluto-actus, la dottrina della scienza rende ragione della testimonianza della coscienza, in quanto pone e riconosce la coscienza stessa come manifestazione dell'assoluto, immagine. La coscienza non è l'assoluto (come pretende l'idealismo superiore), ma non è nemmeno puramente e semplicemente annientata (come pretende il realismo superiore dell'in sé). Essa è affermata e negata insieme, in quanto è immagine, rinvio; il suo presentarsi coincide con il suo sottrarsi per lasciar essere l'altro da sé. La coscienza-immagine, nella forma perpetuamente inesauribile del suo esserci come apparizione e rinvio, è ciò che porta alla presenza l'atto assolutamente reale e insieme ultimamente informulabile (l'inconcepibile). Soltanto la coscienza, nel suo affermarsi e negarsi, nel suo dire e tacere, è immagine, manifestazione dell'assoluto.
Fichte trova una conferma a queste tesi nelle frasi iniziali del Vangelo di s. Giovanni, e perciò l'ultima fase della sua filosofia è detta “giovannea”. Per cogliere il contenuto metafisico dell'evangelo giovanneo è necessario meditare, per Fichte, i primi tre versetti del prologo: «In principio era il verbo (logos), e il verbo era presso Dio, e il verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste» (Gv. I, 1-3). Viene affermata: l'identità di Dio e del suo logos, l'essere il logos parola, «espressione spirituale» di Dio, la funzione mediatrice che il logos ricopre nella costituzione del mondo.
Questi principi - secondo Fichte - sono gli stessi che risiedono a fondamento della filosofia nella sua forma compiuta. Il rapporto fra Dio e il logos è infatti la stessa cosa che il rapporto fra l'assoluto e la sua esistenza (coscienza). Non vi è separazione fra l'assoluto e la sua esistenza; l'esistenza non costituisce un «essere» distinto da quello dell' assoluto; non è possibile pertanto sostenere che dall'assoluto-Dio qualcosa nasca o divenga, ponendo così un altro «essere» al di fuori dell'unico essere propriamente tale, ossia l'assoluto-Dio. L'esistenza è «fin dall'origine, prima di tutti i tempi e fuori di ogni tempo, presso l'essere, inseparabile dall'essere ed è essa stessa l'essere» (SW, V, 480). Allo stesso modo il prologo afferma: il logos era presso Dio, il logos era Dio.
Se essere ed esistenza sono tutt'uno in sé, sono tuttavia distinti per noi (riflettenti). L'esistenza è infatti l'essere consaputo, l'essere saputo come essere, l'assoluto saputo come assoluto. L'esistenza è pertanto la coscienza dell'assoluto, la forma che lo rende presente, la sua manifestazione o immagine. Allo stesso modo il prologo pone il logos come la parola di Dio: la parola non costituisce una reduplicazione di Dio ma è Dio stesso, e insieme e contemporaneamente la parola è rivelazione di Dio, sua immagine.
Il contenuto metafisico dell'evangelo giovanneo è dunque lo stesso contenuto della filosofia realizzata. Si potrebbe anzi dire che l'uno e l'altro, pur restando consegnati a diverse forme di concettualizzazione, si illuminano e reciprocamente si interpretano. Tuttavia la Guida sottolinea che, nel cristianesimo, è anche presentata una visione del rapporto fra l'assoluto e la sua immagine, fra l'essere e la coscienza, che è ulteriore, eccede, oltrepassa il limite cui può pervenire qualsiasi sguardo filosofico-speculativo. E ancora una volta Giovanni che ci addita la via quando nella sua prima epistola ricorda che «chi rimane nell'amore rimane in Dio, e Dio in lui» (IV, 16). L'amore è la relazione assoluta; nella teoria del logos la veduta religiosa ha mostrato la sua intima concordanza con la filosofia realizzata. Nella teoria dell'amore la veduta religiosa attinge la sua pienezza, in forza della quale essa si distingue dalla stessa filosofia.
Come si è a più riprese rilevato, il rapporto fra l’assoluto e il sapere è, per il sapere, sempre un rapporto indiretto. Il sapere afferma l'assoluto ponendosi e negandosi insieme, dicendo e tacendo insieme, riconoscendosi insomma come immagine, forma. Ma fra l'essere e l'immagine esiste una solidarietà lo stesso autoapprendersi dell'immagine come sapere. Questo legame è l'amore. Nell'amore «l'essere e l'esistenza, Dio e l'uomo sono una sola cosa, completamente fusi e uniti insieme» (SW, V, 540). L'amore è superiore alla riflessione, non deriva da essa né la riconosce a suo giudice; insieme l'amore «si schiude con e accanto alla riflessione», è cioè accompagnato da essa, sentito grazie ad essa. Per questo l'amore è esperito nella forma del sentimento (Empfindung), ed essendo sentimento della relazione assoluta fra Dio e la sua immagine, esso è amore di Dio.
Non è tuttavia l'immagine (il soggetto libero) l'origine dell'amore, ma è Dio stesso. L'amore infatti è la vita stessa di Dio, l'autocustodirsi in se stesso dell'assoluto. L'amore dell'immagine per Dio non è altro allora che l'amore che Dio ha in sé verso se stesso, percepito nella forma di un sentimento. Al fondo, non è l'immagine che ama Dio, ma è Dio stesso che - essendo la sua vita amore - ama sé nella totalità delle sue immagini.
Nella sua radice ultima l'amore è la sorgente inoggettivabile ed inesauribile di ogni riflettere e, in quanto tale, trascende ogni riflettere. Riflettere significa mediare, mettere in relazione, dare forma. Il sapere porta alla presenza tramite la mediazione del concepire (rap-presenta) questa vita assoluta dell'amore, ma non può mai adeguarne la profondità, poiché il sapere è relazione discorsiva, mediata, e la vita assoluta è unità, fondamento ultimamente informulabile delle relazioni finite. Il sapere, può, nel suo gesto supremo, affermare l'assoluto come l'altro da sé, l'inconcepibile, insieme lasciando aperta la possibilità di sentire l'assoluto stesso come amore, cioè di amare Dio - atteggiamento quest'ultimo che costituisce il nucleo della veduta e della vita religiosa. In quanto sorgente del riflettere, l'amore sospinge la riflessione stessa ad oltrepassare le determinazioni concettuali finite che essa volta a volta istituisce, a perfezionare e ad approfondire all'infinito le proprie forme.
L'amore, in definitiva, è l'orizzonte supremo entro il quale il sapere (amore dell'assoluto) può pervenire ad autoconcepirsi. Insieme, l'amore è l'ispirazione ultima che deve innervare la libertà giacché solo nell'amore si «apre il mondo morale». E dunque soltanto con e nel riconoscimento di questa dimensione radicalmente religiosa, di questa filtrazione di assoluto, di eterno, che, come amore, si fa presente in ogni sua immagine, che l'immagine stessa, l'uomo come essere libero e comunità interpersonale, può, secondo Fichte, attingere la «vita beata», ossia può realmente e pienamente vivere.