René Descartes (pronuncia: Decàr, italianizzato in Cartesio) nacque il 31 marzo 1596 a La Haye (pronuncia: La È), nella Turingia, da una famiglia di piccola nobiltà. Viene avviato agli studi nel collegio di La Flèche (pronuncia: La Flesc), scuola tenuta dai gesuiti, fra le più celebri del tempo.
Qui conosce Marin Mersenne (pronuncia: Maren Mersèn) che diverrà suo amico e corrispondente e che si dedicherà a sua volta con successo alla filosofia e alle scienze. Cartesio dimostra a La Flèche notevoli attitudini per lo studio, in particolare per la matematica.
Nel 1616 Cartesio consegue la laurea in diritto presso l'Università di Poitiers (pronuncia: Puatié).
È però del tutto insoddisfatto dei suoi studi, molto formalistici e dogmatici, ancora legati alla tradizione della Scolastica.
Trascorre qualche tempo a Parigi, ove conduce una vita dispersiva e inconcludente.
Nel 1618 si arruola volontario nell'armata del principe di Nassau che, per lo scoppio della Guerra dei Trent'anni, si trasferisce dall'Olanda in Germania.
Cartesio partecipa all'impresa, deciso, come disse, a fare esperienza del «gran libro del mondo».
Nella notte della novembre 1619, mentre è accampato con l'esercito a Neuburg (pronuncia: Noiburg), sul Danubio, vede in sogno i princìpi di una nuova scienza (la geometria analitica) e di una generale riforma del sapere.
Svegliatosi, fa voto di un pellegrinaggio alla Madonna di Loreto (famoso santuario in Italia, ancora oggi), se sarà capace di realizzare il programma scientifico immaginato.
Negli anni successivi, dopo aver partecipato alla presa di Praga e alla spedizione di Ungheria (dimostrando notevoli doti di fermezza e di coraggio), alterna periodi di studio intenso e di viaggi (in Italia, in Svizzera ecc.) a soggiorni a Parigi e altrove.
Deciso a proteggere la sua libertà di studioso, evita il matrimonio e i pubblici incarichi ai quali la famiglia lo vorrebbe vedere avviato.
In Francia le contese religiose e poi la guerra della Fronda rendono però la situazione incandescente.
Cartesio decide di trovare all'estero migliori condizioni di tranquillità e di libertà di pensiero.
Nel 1629 si trasferisce pertanto in Olanda, ove si dedica interamente alla composizione delle sue opere maggiori.
Tornerà in Francia per brevi periodi nel 1644, 1647 e 1648.
Da una relazione gli nasce una figlia, che manterrà in collegio.
Nel 1644 scoppiano nelle università olandesi violente polemiche contro le opere di Cartesio nel frattempo apparse.
I teologi protestanti ne propongono la condanna, ottenendo un'ammonizione contro il pericolo delle nuove opinioni filosofiche.
Cartesio perde così la tranquillità sino ad allora goduta.
Nel 1649 accetta l'invito della regina Cristina di Svezia, donna famosa per la sua libera e vasta cultura e da tempo sua corrispondente: essa desidera apprendere direttamente da Cartesio la filosofia.
Il clima rigido della Svezia non si confà alla delicata salute del filosofo.
Nel 1650 Cartesio muore di polmonite a soli 54 anni di età.
Nel 1628 Cartesio compone le Regulae ad directionem ingenii, opera di argomento metodologico rimasta incompiuta e pubblicata postuma nel 1701.
A seguito della condanna di Galileo, Cartesio evita di pubblicare il Trattato della luce e lascia incompiuto il Trattato sull'uomo. Insieme questi due scritti avrebbero dovuto andare a far parte di un grande Trattato sul mondo.
Cartesio faceva uso infatti, in questi scritti, della teoria copernicana. Anche il Trattato sul mondo, incompiuto, apparirà soltanto postumo.
Nel 1637 finalmente Cartesio (già ben noto agli studiosi attraverso private notizie e frequentazioni) pubblica i Saggi filosofici che contengono una prima parte intitolata Discorso sul metodo.
Questo è il primo capolavoro di Cartesio, divenuto sempre più famoso e generalmente considerato come il manifesto del pensiero moderno.
Esso era accompagnato da tre trattati, pensati come applicazione e dimostrazione pratica del metodo teorizzato nella prima parte.
Essi sono: Diottrica, Meteore, Geometria (dove Cartesio enuncia le celebri leggi della rifrazione della luce e i princìpi della geometria analitica, con l'introduzione dei cosiddetti assi cartesiani, i quali consentono l'applicazione dell'algebra alla geometria).
In seguito al perdurante successo del Discorso sul metodo, questo testo è stato in seguito ripubblicato anche indipendentemente dai tre trattati.
Nel 1641 Cartesio pubblica in latino le Meditationes de prima philosophia (suo secondo capolavoro) che padre Mersenne fece circolare tra gli studiosi, alcuni dei quali opposero delle Obiezioni scritte, stampate in calce alle Meditationes con le Risposte di Cartesio.
In seguito l'opera, famosa quanto e forse più del Discorso sul metodo, verrà tradotta in francese, con il consenso dell'autore.
Nel 1644 appaiono i Principia philosophiae. In essi Cartesio presenta una trattazione sistematica di tutto il suo pensiero filosofico e scientifico, esposto in una serie di brevi articoli, secondo l'uso dei manuali scolastici del tempo.
Con tale opera Cartesio tentava infatti di imporre il suo pensiero nelle università, il che diede luogo, come sappiamo, ad accese controversie.
Nel 1649 Cartesio pubblica infine le Passioni dell'anima che, con alcune Lettere alla principessa Elisabetta del Palatinato e alla regina Cristina di Svezia, contengono il suo pensiero morale.
Tutta la costruzione filosofica e scientifica di Cartesio si basa su una preventiva riflessione volta a enucleare il metodo da porre a fondamento del sapere.
Già questo intento metodico mostra il tratto moderno e innovatore della personalità di Cartesio.
Il metodo e le sue regole specifiche devono basarsi, secondo Cartesio, sul principio dell’«evidenza», divenuto in seguito molto famoso.
Ora, i tratti o le componenti essenziali dell'evidenza sono la "chiarezza" e la "distinzione".
Cartesio definisce "chiara" una conoscenza che sia intuita immediatamente «dalla mente che fa attenzione», cioè senza bisogno di ricorrere a ragionamenti ovvero a deduzioni.
"Distinta" è invece ogni conoscenza che, essendo chiara, non si confonde con nessun'altra e non contiene in sé «nulla all'infuori di ciò che è chiaro».
Tutto il sapere deve dunque venire ricostruito ed edificato sulla base di conoscenze chiare e distinte, cioè evidenti.
La prima regola del metodo di Cartesio è: "Non ammettere come vero nulla che non sia riconosciuto con evidenza per tale: cioè, evitare il pregiudizio e la prevenzione".
È una tipica regola di metodologia scientifica: finché una proposizione non risulta dimostrata, non dobbiamo riconoscerle valore di conoscenza.
Solo quanto è accertato è saputo: il resto potrà servire alla scienza futura, ma per ora si deve ritenere di non saperlo.
Oltre a rappresentare una grande novità di rilievo, il dubbio cartesiano svolge anche il ruolo di una precauzione: un espediente per evitare che si insinuino nel corpo della scienza affermazioni non certe, da cui potrebbero derivarne altre, sempre più lontane dalla verità, sicché la immissione anche di un piccolo particolare indimostrato potrebbe infirmare la validità di tutto.
Il "dubbio metodico", dunque, è la prima regola del metodo cartesiano che garanzia la certezza della conoscenza, senza la quale il sapere non può costruirsi progressivamente, come ormai vuole il filosofo per seguire l'esempio della scienza.
Di qui le regole del metodo che seguono alla prima:
2) quando ci si trova davanti a una difficoltà, scomporre le idee complesse, circa le quali si è in dubbio, fino a ottenere idee semplici, la cui verità o falsità risulti con evidenza immediata (analisi);
3) ricomporre le nozioni semplici secondo connessioni direttamente evidenti (sintesi);
4) controllare accuratamente che, in questi procedimenti di analisi e di sintesi, non si sia saltato nessun passaggio, poiché altrimenti alla catena mancherebbe qualche anello necessario (enumerazione completa dei passaggi: analoga alla "riprova" delle matematiche).
Il successo di un procedimento del genere in "quelle lunghe catene di ragionamenti, tutti semplici e facili, di cui i geometri son soliti servirsi per le loro più difficili dimostrazioni" assicura che questo è il metodo buono.
Ma i principi da cui muovono i geometri possono considerarsi principi primi? E che cos'è quella loro "evidenza", per cui sono accettati come veri, con tutte le conseguenze che "evidentemente" ne derivano? Il vero problema della filosofia cartesiana comincia qui.
Come è stato notato, si tratta di regole che trovano opportuna applicazione nelle scienze matematiche e geometriche, ma che sono insufficienti per la scienza fisica della natura.
Resta il fatto che Cartesio, appellandosi al metodo dell'evidenza, opera una radicale trasformazione dei fondamenti del sapere. Esso non deve più basarsi sul principio di autorità (che aveva dominato il Medioevo), sia religioso sia profano.
Tutto il dogmatismo della tradizione veniva spazzato via in un sol gesto.
Gli antichi commentari ad Aristotele, ai Padri della Chiesa ecc., normale repertorio della formazione universitaria, sono relegati di fatto nel passato.
È appunto in questo senso che si può dire che Cartesio è l'iniziatore del pensiero moderno e che il suo Discorso sul metodo è il manifesto della modernità. Bisogna dunque partire, nella scienza e nella filosofia, da conoscenze evidenti.
Ma quale, fra tutte le eventuali conoscenze evidenti, merita di essere considerata la più originaria e la più perfetta, così da fornire un fondamento e un'unità di misura per tutte le altre?
Le singole scienze si giovano di princìpi particolari, il cui fondamento ultimo resta però sconosciuto.
Questo è appunto il compito della metafisica: cercare un principio assolutamente evidente al quale ricondurre il significato di verità e il senso di realtà di tutti i saperi particolari. Come procedere però per trovarlo?
Cartesio propone di opporre un dubbio generale a ogni nostra conoscenza.
Si tratta in pratica di assumere l'abito scettico, non però al semplice fine negativo di dubitare di tutto e di mostrare l'impossibilità della conoscenza; si tratta, al contrario, di un procedimento che, muovendo da un "dubbio metodico" (e non scettico), abbia lo scopo di raggiungere delle conoscenze la cui certezza, vagliata dal dubbio, sia fuori discussione.
Dovendo dubitare di ogni possibile conoscenza, Cartesio decide di procedere non esaminando le conoscenze una per una (cosa impossibile), ma opponendo un dubbio alle fonti generali della nostra capacità di conoscere.
Cartesio, per ora, si limita a voler ricostruire nel campo conoscitivo.
La regola di non ammettere per vero ciò che non risulti accertato implica che tutta la conoscenza tradizionale sia considerata come nulla (quand'anche poi si dovesse tornare a riconoscerne vera una parte), e che tutto il corpo del sapere sia ricostruito, pezzo per pezzo, a cominciare dai primi principi evidenti.
Solo dopo che la ricostruzione si sia avviata con questo metodo i ricercatori successivi potranno presupporre il lavoro già fatto (pur controllandolo), e considerare come acquisite le verità ormai celte.
Perciò la filosofia cartesiana diffida di tutta la storia che l'ha preceduta.
La storia (del pensiero) deve ricominciare, perché ora soltanto è stata trovata la via per dare al pensiero un andamento progressivo.
Questa applicazione del dubbio metodico non evita a Cartesio di servirsi, più o meno dichiaratamente o consapevolmente, di principi filosofici tradizionali: ma la sua ispirazione sarebbe di cominciare tutto da principio, partendo dalle prime evidenze e ampliandole via via.
Per esempio si può cominciare con il dubitare di tutte quelle conoscenze che ci derivano dai sensi. In che modo esse potrebbero giudicarsi evidenti?
Se le esaminiamo, vediamo che, in realtà, esse sono ben poco evidenti e che spesso sono piuttosto erronee e fallaci.
Come accade, per esempio, quando sogniamo: ci sembra, con ogni evidenza, di essere seduti accanto al fuoco del camino, mentre siamo addormentati nel letto.
Ora, come essere certi che anche in questo momento non stiamo sognando?
Ma persino le conoscenze razionali, e tra queste le più evidenti di tutte, quelle matematiche, possono essere revocate in dubbio, se per esempio le sottoponiamo a un "dubbio iperbolico" di questo genere: all'uomo appare evidentissimo che 1+1=2, verità che resta tale sia che uno dorma, sia che sia desto.
Ma supponiamo che esista un Genio maligno e ingannatore, che si studi di far apparire evidente all'uomo ciò che evidente non è, e che perciò lo faccia "sbagliare" circa la validità dei princìpi della matematica.
Ecco allora che anche queste evidenze cominciano a vacillare.
Il senso profondo di questo procedimento diviene chiaro se solo ci ricordiamo di Galileo: Dio, egli diceva, ha costruito matematicamente il mondo e ha dato all'uomo una mente matematica perché possa conoscerlo.
Ma questo supposto rapporto tra un mondo "scritto" da Dio in caratteri matematici e una ragione umana a sua volta matematica, questo rapporto che fonda la validità della scienza moderna (contro il principio di autorità, Aristotele, la Bibbia ecc.) su cosa si fonda a sua volta?
E se non fosse affatto vero che le evidenze matematiche della nostra mente corrispondono alla realtà in sé del mondo?
Si tratta di un dubbio strano che a noi suona, appunto, "iperbolico" (tanto siamo certi delle verità della matematica); nondimeno noi possiamo formulare questo dubbio e, anzi, metodologicamente dobbiamo farlo, se vogliamo conseguire un'evidenza assoluta, fondamento di tutte le altre.
Tuttavia, una volta formulato questo dubbio, non sappiamo come opporgli una risposta assoluta e una soluzione definitiva.
Bisogna dunque trovare un'evidenza che sia al di sopra di ogni dubbio possibile, che sia come un punto di appoggio archimedico ("Datemi un adeguato punto di appoggio, diceva Archimede, e con una leva solleverò il mondo").
Cartesio indica tale evidenza nell'atto del pensiero (nel cogito). Il pensiero è sempre certo di sé e della sua esistenza di atto pensante.
Lo stesso dubbio (che è a sua volta un atto di pensiero) attesta tale certezza. Infatti io posso dubitare di tutto, ma non posso dubitare del fatto che sto appunto dubitando, e dunque pensando.
Fino a che dubito, cioè fino a che penso, non posso dubitare, perché non ha alcun senso farlo, della mia esistenza come soggetto dubitante e quindi pensante.
Penso e dunque sono ("cogito ergo sum"): ecco il fondamento di ogni certezza, ecco il principio e l'evidenza che mai potranno essere revocati in dubbio.
In tal modo Cartesio, sviluppando a fondo un argomento che già era stato toccato da Agostino (e, in età moderna, da Campanella), opera quella svolta "soggettivistica" che caratterizzerà gran parte della filosofia moderna.
Al principio dell' autorità egli oppone i'evidenza del soggetto pensante, facendo di esso il nuovo fondamento della verità e del sapere.
L'antica ontologia, fondata sulla verità dell'essere e in particolare dell'essere di Dio, viene a trovarsi capovolta. In un certo senso: non da Dio all'uomo, ma dall'uomo a Dio.
Dunque, l'evidenza del cogito è superiore a ogni dubbio.
Sono, dice Cartesio, "una cosa che pensa", e cioè che sente, immagina, dubita ecc.; ovvero che pensa di sentire, di immaginare, di dubitare ecc.; e fintantoché io penso, certamente anche sono.
Ma che cosa sono? Ecco, questo non possiamo dirlo per ora con certezza.
Che io dubito è certo, ma i contenuti del mio pensare e dubitare restano nondimeno dubbi.
Se penso di essere accanto al fuoco è certo che esisto, ma non è certo affatto che io sia là dove immagino di essere e che il fuoco esista.
E così, anche del mio corpo posso continuare a dubitare: penso di avere delle mani e che queste mani siano mie, ma niente sin qui mi assicura di averle davvero.
Il punto centrale di tutti questi dubbi è certamente l'ipotesi del Genio maligno e ingannatore, il quale mi fa supporre, in errore, di avere un corpo, che ci sia un mondo e che persino mi fa sbagliare nelle più semplici certezze matematiche.
Ora, è sensato però supporre un siffatto Genio maligno e ingannatore?
Dio non potrebbe essere tale: nella sua perfezione non potrebbe essere né maligno né ingannatore.
Per di più non potrebbe permettere che l'uomo, la sua creatura, sia oggetto delle malefatte di un Genio malvagio. Tutto questo è evidente.
Ma esiste Dio, cioè l'essere perfettissimo che mai potrebbe volermi ingannare o permettere che io lo sia?
Il problema si sposta.
A questo punto Cartesio ricorre all'antico argomento ontologico relativo all'esistenza di Dio, formulato nel Medioevo da sant'Anselmo; ma lo rinnova a suo modo, in quanto non muove dal concetto di Dio come essere perfettissimo, bensì dall'evidenza stessa del cogito in quanto nuovo fondamento della verità.
È dal cogito che Cartesio fa scaturire la dimostrazione di Dio.
Sono certo che sono, poiché penso e fintantoché penso. Tuttavia, osserva Cartesio, questo mio pensare è pieno di dubbi.
È vero che se dubito sono, ma è anche vero che sono un essere dubitante alla vana ricerca di verità fondate.
Su di me non posso fondarle, tranne l'unica verità che se penso sono. In tal modo mi giudico sommamente limitato e imperfetto. Infatti dubito e non vorrei dubitare.
Come posso però formulare questo giudizio relativo alla mia costitutiva imperfezione?
È evidente che posso farlo perché ho in me l'idea della "perfezione".
Ho l'idea di un essere perfettissimo, che non dubita, non è finito o limitato ecc. È in base a essa che evidentemente mi giudico limitato e imperfetto.
Come posso però averla questa idea di perfezione?
È evidente che un essere imperfetto non può darsela da sé.
Nessuna causa può produrre qualcosa di superiore a sé nel suo effetto.
Dunque devo averla ricevuta da un essere perfetto: solo da lui può derivarmi quell'idea di perfezione della quale mi trovo fornito per il fatto stesso che, pensando, dubito.
Cartesio procede allora a esaminare la fonte di tutte quelle idee, o contenuti di pensiero, dei quali ci troviamo forniti e ne individua tre categorie o specie.
1. Idee avventizie: mi derivano dall'esperienza sensibile e sono sommamente dubitabili.
2. Idee fattizie: sono il prodotto della mia fantasia, la quale però non fa altro che combinare immaginativamente idee avventizie fra di loro; per esempio ho l'idea di una sirena, cioè di un essere mezzo donna e mezzo pesce.
Per la loro natura, anche queste idee restano soggette al dubbio.
3. Idee innate: sono quelle idee che né ci derivano dall'esperienza né posso danni da me.
Prima fra tutte l'idea di un essere perfettissimo; e poi le verità matematiche, che non si possono ricavare dall'esperienza.
Esse dunque mi derivano da Dio stesso e non possono essere revocate in dubbio: a loro appartiene una verità assoluta.
In tal modo Cartesio ha riguadagnato la verità generale della conoscenza, mostrandone il fondamento nel cogito e nelle idee innate che gli derivano da Dio, della cui esistenza non ha peraltro nessun senso dubitare.
Un essere perfetto, infatti, non solo non dubita, e anzi conosce ogni cosa con piena certezza, ma anzitutto "è". Non posso certo negare a Dio quell'esistenza della quale, io che sono imperfetto, neppure dubito.
A questa, che si può ritenere la dimostrazione dell'esistenza di Dio più tipicamente cartesiana (per il posto fatto in essa al concetto di idea innata), l'autore aggiunge altre due prove: una contenuta nella stessa terza meditazione, l'altra nella quinta.
La seconda prova parte dal concetto di causa efficiente. Essa è presentata da Cartesio come un rafforzamento del primo argomento.
Vediamo se io stesso, che ho l'idea di Dio, potrei esistere, se Dio non esistesse.
Da chi avrei l'essere? Forse da me stesso, o dai miei genitori, o da qualche altra causa meno perfetta di Dio (ma questa, a sua volta, da chi l'avrebbe ricevuto?).
Ora, se il soggetto fosse autore del suo essere, non dubiterebbe, non avrebbe desideri e avrebbe ogni perfezione: sarebbe Dio.
All'obiezione che potrebbe avere tanta forza da darsi l'essere, ma non quella di darsi tutte le perfezioni, Cartesio risponde che è più difficile darsi l'essere dal nulla che darsi delle perfezioni.
Queste, infatti, sono solo accidenti della sostanza, mentre il mio essere è l'essere di una sostanza, di una sostanza pensante.
Si tratta di un tipico argomento a posteriori, che parte dal fatto che almeno io esisto, e vi si applica il principio aristotelico dell'impossibilità di un regressus in infinitum nell'ordine delle cause (per questo l'autore delle prime obiezioni, l'aristotelico Caterus, l'accosterà alla seconda via di san Tommaso).
Viceversa la terza prova dell'esistenza di Dio, che costituisce l'argomento principale della quinta meditazione, è un argomento a priori.
Essa applica all'idea di Dio il criterio di verità delle idee chiare e distinte, che già conosciamo dalla terza meditazione, e che verrà pienamente giustificato nella quarta.
Dal solo fatto che posso trarre dal mio pensiero l'idea di qualcosa, segue che tutto ciò che io riconosco chiaramente e distintamente appartenere a questa cosa le appartiene in effetti: non si può dunque trarre da ciò un argomento e una prova dimostrativa dell'esistenza di Dio?
Ho infatti l'idea di Dio, cioè dell'essere perfettissimo, non meno di quanto abbia l'idea di una qualsiasi figura o numero, e vedo non meno chiaramente e distintamente che alla sua natura compete l'esistere sempre, così come vedo chiaramente e distintamente che alla natura del triangolo compete l'avere gli angoli interni uguali a due retti.
E contraddittorio negare che Dio esista, come è contraddittorio negare che un triangolo abbia gli angoli interni uguali a due retti.
In forma più stringata: l'esistenza è una perfezione, ora Dio ha tutte le perfezioni, dunque Dio esiste.
Come si vede, è una versione rinnovata dell'argomento ontologico di sant'Anselmo.
Il problema della verità e dell'errore
Le prove a posteriori della terza meditazione e quella a priori della quinta sono intervallate da un decisivo approfondimento del problema della verità e dell'errore, cui è dedicata per intero la quarta meditazione.
In essa «è provato che le cose che noi concepiamo chiaramente e distintamente sono tutte vere; ed insieme è spiegato in che consista la ragione dell'errore o falsità».
Cartesio ha già enunciato il criterio di verità: chiarezza e distinzione delle idee.
Successivamente ha dimostrato l'esistenza di Dio, con ciò provando la irrealtà dell'ipotesi del dubbio iperbolico:
«È impossibile che Dio m'inganni mai, ché in ogni frode ed inganno si trova qualche specie d'imperfezione.
E sebbene sembri che poter ingannare sia un segno di sottigliezza, o di potenza, tuttavia volere ingannare testimonia, senza dubbio, debolezza o malizia. E, pertanto, ciò non può trovarsi in Dio».
Dunque, conclude Cartesio, applicando la "facoltà di giudicare" che ho ricevuto da Dio, non mi potrò mai ingannare.
Questa certezza metafisica sembra però scontrarsi con l'evidenza psicologica dell'errore.
L'esperienza mi costringe a riconoscere, infatti, «che sono soggetto ad un'infinità di errori».
Ma che cos'è l'errore, sul piano metafisico?
È l'esperienza del non essere come costitutivo della mia realtà finita.
L'uomo è un termine medio tra Dio e il nulla, cioè posto in tal modo tra il sovrano essere e il non essere.
Non si trova nulla in lui che possa indurlo in errore, in quanto un sovrano essere lo ha prodotto.
Ma, se lo si considera partecipe del niente o del non essere, cioè in quanto non è lui stesso il sovrano essere, si trova esposto a un'infinità di mancamenti, in modo che non si deve stupire se si inganna.
Marchio di finitezza, l'errore non è qualcosa di reale, ma è soltanto un difetto: non devo cioè supporre che Dio mi abbia fornito di una facoltà apposita perché possa cadere in errore.
Più semplicemente, m'inganno perché «la facoltà che Dio mi ha dato per discernere il vero dal falso, non è in me infinita».
L'errore, però, non è una semplice negazione ma «una privazione di qualche conoscenza, che sembra ch'io dovrei possedere».
In altre parole: il mio essere limitato può spiegare la mia ignoranza, il fatto cioè che la mia conoscenza non è completa e perfetta come quella di Dio, ma non spiega l'errore, che è l'assenso dato a ciò che non è chiaro (ossia il cattivo uso della facoltà di giudicare datami da Dio).
Tale positiva imperfezione della mia facoltà di giudizio non getta un'ombra sulla perfezione stessa dell'artefice? Dio non avrebbe potuto crearmi «tale che io non mi potessi mai ingannare»?
O forse per me è più utile errare che non errare?
Stimolato da questi nuovi dubbi a riflettere meglio su se stesso, Cartesio scopre che l'errore dipende da due cause: dalla facoltà di conoscere e dalla facoltà di scegliere, o libero arbitrio, ossia dall'intelletto e dalla volontà.
Con l'intelletto non si afferma e non si nega nulla, ma si concepiscono solo le idee delle cose, che si possono affermare o negare.
Propriamente parlando, nell'intelletto non sussiste possibilità d'errore: che la realtà sia infinitamente più ampia delle mie idee non è un errore, ma solo un limite della mia conoscenza.
La mia libertà, invece, non ha limiti.
Formalmente, essa non è inferiore in me a quella di Dio, anche se la libertà di Dio è incomparabilmente più grande, sia per la conoscenza e la potenza che l'accompagnano, sia per l'infinita estensione degli oggetti su cui si esercita.
Essa consiste semplicemente nel poter fare o non fare una cosa (cioè nel poter affermare o negare, seguire o fuggire un oggetto), in modo da non sentirsi determinati da alcuna forza esterna.
Per Cartesio, infatti, libertà è sinonimo di assenza di coazione esterna: una propensione che mi muova dall'interno (per esempio una conoscenza evidente che mi determini all'assenso) non toglie viceversa la libertà.
La volontà, quanto più è decisa, tanto più è libera.
Quello d'indifferenza è il grado infimo della libertà.
Proprio perché la volontà ha una sfera d'azione più ampia dell'intelletto, essa può assentire anche a ciò che l'intelletto non intende, o a ciò che le è indifferente.
Se il soggetto si astiene dall'esprimere un giudizio su una cosa, se non la concepisce con sufficiente chiarezza e distinzione, fa un ottimo uso del giudizio e non è ingannato.
Ma se si ostina a negarla o affermarla, si serve male del libero arbitrio. Tale cattivo uso del libero arbitrio genera la mancanza che costituisce l'errore.
Posso cioè voler affermare più di quello di cui ho l'evidenza: e ciò per cattiva volontà, per precipitazione o per prevenzione.
L'errore, in conclusione, ha un'origine pratica (extrateoretica), che non inficia affatto il valore dell'intelletto, ma testimonia piuttosto della imperfezione della mia libertà.
Se non è in mio potere di avere «una chiara e distinta intelligenza di tutte le cose» su cui mi capiti di dover deliberare, dipende invece da un atto del mio libero arbitrio non dare mai il mio giudizio su cose la cui verità non mi sia chiaramente conosciuta.
lo posso, per mezzo di una meditazione attenta e ripetuta, imprimere questa massima così fortemente nella memoria, da ricordarmene tutte le volte che ne avrò bisogno, acquistando in questo modo l'abitudine di non errare.
Così il criterio di verità, accanto alla conferma metafisica dell'esistenza e veridicità divina, trova anche quella morale della ricerca della verità come habitus professionale dello scienziato: «perciò tutte le volte che tengo la mia volontà nei limiti della mia conoscenza, in modo tale che essa non rechi alcun giudizio se non sulle cose chiaramente e distintamente rappresentate dall'intelletto, non può accadere che io m'inganni».
A questo punto, sebbene le idee che mi derivano dai sensi restano pur sempre incerte e bisognose di ulteriori ricerche, non posso però dubitare dell'esistenza del mondo, attestatami da ogni mia esperienza: Dio sarebbe infatti ingannatore se consentisse in me la continua conferma di una convinzione fallace.
È vero invece che, nonostante il proposito di attenersi all'evidenza stabilita dal metodo, molto spesso l'uomo cade in errore; ma ciò dipende dalla sua volontà piuttosto che dal suo intelletto.
Se in ogni circostanza egli attendesse di passare all'azione solo quando la situazione gli si configuri come chiara e distinta, la possibilità di sbagliare si ridurrebbe di molto.
Ma la volontà esige l'azione sulla base di idee che sono ancora confuse e l'errore facilmente ne consegue.
Tutti gli aspetti sensibili della mia percezione qualitativa del mondo restano dunque dubbi, ma dubbie non sono le verità matematiche, poiché sono innate e mi derivano da Dio.
È così confermata la legittimità della scienza galileiana quantitativa e matematica.
Da essa Cartesio ricava il suo meccanicismo, della cui verità la dimostrazione dell'esistenza di Dio, l'essere perfettissimo, costituisce il fondamento.
Res extensa e res cogitans
Una volta costruito il fondamento metafisico del sapere, assicurato nel suo procedere dalle regole del metodo, Cartesio passa a delineare la sua generale cosmologia, cioè la sua visione scientifica del mondo e dell'uomo.
Egli distingue nel mondo due tipi di sostanze o res: il "pensiero" (res cogitans) e la materia o "estensione" (res extensa). La prima appartiene unicamente all'anima dell'uomo; la seconda caratterizza tutti i corpi e la materia in genere.
Tutto l'universo viene allora ricondotto ai soli princìpi dell'estensione e del movimento, impresso ai corpi da Dio all'inizio della creazione.
Ogni altro fenomeno (le qualità sensibili, come il caldo e il freddo, il secco e l'umido ecc.) è ricondotto al movimento, alla grandezza, alla figura, alla disposizione delle parti materiali dei corpi.
Lo stesso universo sarebbe quindi il prodotto meccanico della combinazione delle particelle elementari di materia, aggregatesi fra loro in virtù del movimento rotatorio originariamente impresso da Dio. È questa la teoria cartesiana dei "vortici".
Essa, sebbene confutata da Newton, aprirà a quest'ultimo la strada per una spiegazione globale dell'universo in base alla celebre teoria della gravitazione universale.
L'universo è pertanto concepito da Cartesio come un'immensa macchina donde il termine di "meccanicismo"). Tale è anche il corpo degli animali e dell'uomo stesso.
Macchina in cui si trasmette indefinitamente invariata la quantità di moto iniziale, producendo tutte quelle trasformazioni che noi osserviamo.
Compito della scienza viene a essere quello di elaborare dei perfetti modelli meccanico-matematici che siano in grado di spiegare i fenomeni naturali.
Così, per spiegare il corpo dell'uomo e le sue funzioni vitali, Cartesio immagina un perfetto automa meccanico, sulla cui base comprendere per analogia le strutture biologiche del corpo umano.
La geniale modernità di tali pensieri è evidente.
Il meccanicismo cartesiano costituisce uno schema esplicativo che si estende dunque dai fenomeni macroscopici dell'universo ai fenomeni microscopici del corpo umano.
La "fisica", matematicamente concepita, acquisisce per la prima volta con Cartesio quella preminenza che essa conserva tuttora nel campo delle conoscenze naturali.
I princìpi ultimi della fisica rinviano però alle questioni metafisiche del fondamento ultimo di verità, fondamento che Cartesio affida, da un lato, all'autoevidenza del pensiero e dall'altro alla dimostrazione, che il pensiero stesso produce, dell'esistenza di Dio.
Dio è così garanzia suprema dell'ordine razionale del mondo, di cui il meccanicismo è il rispecchiamento nella mente dell'uomo.
Si vede bene allora la grandezza e l'efficacia della strategia cartesiana.
Distinguendo in modo netto il pensiero razionale dal corpo, affidato alla pura materialità meccanica, Cartesio da un lato rendeva possibile l'applicazione della nuova scienza della natura al mondo e al corpo stesso dell'uomo; dall'altro poneva in salvo, nella spiritualità assoluta del cogito, le verità della religione e della morale e cioè il contenuto, profondamente rinnovato, della metafisica.
Questa strategia prese il nome di "scolastica" cartesiana.
Essa rendeva possibile un nuovo accordo tra la scienza e la religione, liberando la prima da ogni impaccio e pregiudizio teologico e garantendo alla seconda un terreno inaccessibile alla scienza naturale.
Il sistema cartesiano conteneva però un punto estremamente problematico, destinato ad alimentare perduranti ricerche e discussioni.
Le due sostanze, estesa e pensante, sono nettamente distinte. La materia è puramente meccanica e cieca; il pensiero non ha nulla di materiale.
Come possono allora collegarsi?
Come posso muovere il mio corpo secondo le intenzioni dell'anima, ovvero del cogito?
E come può il corpo trasmettere all'anima quelle sue modificazioni meccaniche che il pensiero si rappresenta come sensazioni e idee?
Ammesso che la materia si riduca ad estensione di varia e variabile figura, tutti i fenomeni materiali dovranno spiegarsi in virtù del mutare di tali figure: compresi i fenomeni della vita organica.
Gli organismi non sono (come per Aristotele) sostanze: sono solo porzioni dell'unica res extensa, relativamente e momentaneamente isolate dal resto da particolari movimenti.
Tutta la vita organica (alla pari di tutti i fenomeni fisici) si spiega per un complesso di azioni e reazioni meccaniche, senza che occorra ammettere negli animali sensazioni, intenzioni, ecc., che sono proprietà della sostanza pensante.
Questa interpretazione meccanicistica della vita organica fu facilitata da talune scoperte fisiologiche, come quella (fatta da Harvey) della circolazione del sangue; nonché dalla possibilità, che la meccanica del tempo andava insegnando, di costruire automi che imitassero le reazioni degli animali, comunemente ritenuti coscienti.
Tuttavia essa era lungi dall'apparire soddisfacente.
Si doveva spiegare ancora come il meccanismo si tramuti in organismo vivente: era la questione del rapporto del corpo con l'anima.
Anche l'organismo dell'uomo è una porzione di sostanza estesa, la cui vita non è altro che un muoversi secondo leggi meccaniche.
Tuttavia l'uomo è anche, e in primo luogo, una sostanza pensante, che risente in forma cosciente di alcuni movimenti del corpo, e può, a sua volta, influire su di essi.
Cartesio suggerì che l'anima e il corpo si congiungono in un punto, ovvero nella ghiandola pineale: unica parte del cervello (egli riteneva in base alle sue osservazioni anatomiche) che si presenta unitaria tra i due emisferi cerebrali.
È evidente però che tale notazione anatomica non risolveva affatto il problema "metafisico" del rapporto impossibile, e nondimeno necessario, fra due sostanze del tutto opposte e separate.
L'anima è veramente congiunta a tutto il corpo, e non si può certo dire che essa sia in qualcuna delle sue parti piuttosto che in altre.
Infatti il corpo è uno e, in qualche modo, indivisibile, per via della disposizione dei suoi organi, talmente collegati gli uni agli altri che la perdita di uno di essi rende difettoso tutto il corpo.
Inoltre l'anima ha una natura tale che non ha rapporto né con l'estensione, né con le dimensioni, né con qualsivoglia altra proprietà della materia, ma solamente con tutto l'insieme dei suoi organi (il corpo è, infatti, animato).
Del resto non è possibile - dice Cartesio - concepire la metà o il terzo dell'anima o il posto che essa occupa.
Ma nonostante l'anima sia congiunta a tutto il corpo, c'è tuttavia nel corpo stesso una qualche parte in cui essa esercita le sue funzioni in modo più specifico che in tutte le altre.
E Cartesio, dopo aver scartato il cuore ed il cervello, giunge alla conclusione che la parte del corpo dalla quale l'anima esercita immediatamente le sue funzioni sia la parte più interna del cervello, rappresentata dalla ghiandola pineale.
La concezione cartesiana della materia, in verità, mentre rispondeva perfettamente al tipo di spiegazione della nuova scienza, riducendo la realtà materiale ad estensione sembrava svuotarla di ogni consistenza, e farne, piuttosto che una realtà indipendente, qualcosa di puramente pensato.
Come potrà, infatti, una pura estensione, sia pure variamente figurata, farsi sentire da noi, attraverso i suoi effetti secondari?
Le sue modificazioni, che hanno un carattere puramente geometrico, come potranno suscitare in noi qualcosa di così diverso come le sensazioni?
Ma c'è di più. La possibilità stessa di pensare, nella estensione continua, figure diverse, che mutino via via, fu contestata (in particolare, dal Leibniz) come contraddittoria con le premesse.
Infatti nella pura estensione - dovendosi prescindere dalle qualità secondarie - non vi è nulla che possa distinguere una parte dall'altra, salvo il supporre che una parte si muova rispetto all'altra.
Ma per dire che una parte di estensione si muove rispetto all'altra (e che, perciò, le figure mutano) io devo già aver distinto una parte dall'altra: ciò che appunto non posso fare senza introdurre qualcosa di diverso dalla pura estensione (ad esempio un colore, o una diversità tattile).
Sicché il movimento reciproco dovrebbe distinguere le singole figure, ma solo tra figure già distinte si può pensare un mutamento della posizione reciproca, cioè il movimento.
Il circolo, questa volta, è davvero "vizioso".
A proposito poi del rapporto tra anima e corpo si deve sottolineare il fatto che Cartesio, dal momento che su un meccanismo si dovrebbe poter agire solo meccanicamente, è costretto ad affrontare la questione di come l'intervento dell'anima sui moti del corpo presupponga un inserimento dell'anima nella materia (attraverso la ghiandola pineale).
Ma è proprio ciò che Cartesio non è in nessun modo in grado di spiegare. Infatti, sostanza estesa e sostanza pensante, metafisicamente separate, non sono più legate, in Cartesio, da quella funzione "vegetativa" e "sensitiva" che la tradizione attribuiva all'anima come principio vitale, e la loro unione non si spiega.
Ciò costituisce il cosiddetto "dualismo cartesiano", che stabilisce, nel sistema, una situazione paradossale, a cui i filosofi postcartesiani cercheranno in vario modo di rimediare: l'impossibilità di giustificare l'unità psicosomatica dell'uomo, cioè il rapporto per cui il corpo può influire sull'anima e viceversa.
Per di più, una volta messa sulla strada di spiegare l'intera vita organica come un insieme di fenomeni meramente meccanici, era naturale che la scienza si sentisse tentata da un'altra soluzione: fare a meno, anche nel caso dell'uomo, non solo di un'anima vegetativa, ma di qualunque specie di anima.
Allora si cercherà di ridurre a meccanismo anche il pensiero, e di concepire l'uomo come una pura macchina: come perverrà a dire il tardo cartesianismo in alcuni illuministi del Settecento.
Nelle Passioni dell'anima Cartesio svolge le sue idee sulla morale.
Già vi aveva fatto cenno nel Discorso sul metodo, dove aveva presentato una sorta di "morale provvisoria": se dobbiamo dubitare di ogni conoscenza e sottoporre al criterio dell'evidenza ogni nostra convinzione, nel frattempo, dovendo vivere, dobbiamo darci un'indispensabile regola di condotta, in attesa di pervenire all'evidenza cercata.
Aveva allora suggerito quattro regole generali.
La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese seguendo le tesi più moderate, senza vincolare la propria libertà futura una volta che si fosse pervenuti alla perfetta evidenza su tali argomenti.
La seconda invitava a tenere ferme le decisioni prese, per evitare di fare come chi, smarrito si in un bosco, si aggiri ora di qua e ora di là, senza avvedersi di star camminando in circolo.
La terza stabiliva che era saggio cercare di vincere piuttosto se stessi che la fortuna (è qui evidente l'influenza su Cartesio dell'antica morale stoica); si tratta insomma di modificare piuttosto i nostri desideri e le nostre aspirazioni che non pretendere di modificare l'ordine del mondo.
La quarta infine insegnava che è bene darsi uno scopo nella vita; per Cartesio questo scopo consisteva nella sua dedizione alla ricerca e alla scienza.
Nelle Passioni Cartesio osserva che esse non sono in sé un male: tutto dipende dall'uso che se ne fa.
Qui interviene la riflessione e il giudizio dell'intelletto: esso deve aiutare l'anima a liberarsi dalle false immaginazioni, per esempio di piacere, di paura e simili.
Solo colui che riesce a padroneggiare le proprie passioni e a dirigerle a fini buoni perviene a quella saggezza che è il fine ultimo della morale.
Cartesio fu senz'altro colui che trasse subito, in filosofia, tutte le conseguenze del nuovo modo di pensare introdottosi con la scienza e giustamente con lui si suole far cominciare la filosofia moderna.
Egli fu infatti decisivo nel determinarne i caratteri, pur conservando anche nel linguaggio tracce della sua formazione scolastica, ma pretendendo di cominciare "ab ovo" e mettendo in dubbio (non per negarlo, ma per sottoporlo a verifica) tutto ciò che era stato pensato.
Geniale cultore di geometria analitica (al seguito di Viète), Cartesio pensa che tutta la filosofia potrà costruirsi su una base certa se saprà dare anche a sé quel metodo che andava fruttando certezza alle scienze.
Tuttavia le sue spiegazioni fisiche (nonché biologiche), pur ottenendo una diffusione europea, si riveleranno fallimentari (sebbene alcuni ambienti francesi continuassero a seguire le sue concezioni scientifiche ancora nel Settecento): la sola che risorgerà è l'idea che gli strumenti per pensare la realtà, anche fisica, siano concetti essenzialmente mentali (numero, figura, movimento).
Alcuni spiriti religiosi penseranno che la vanificazione della realtà fisica che Cartesio, suo malgrado, procura potrà giovare a un rinnovato rapporto con Dio.
I libertini, al contrario, sfrutteranno il meccanicismo cartesiano per ridurre anche l'uomo a una macchina, mettendo da parte la "sostanza pensante".
Così, Pascal si troverà a combattere su due fronti: contro lo spirito di geometria cartesiano e contro il preteso spirito forte dei libertini.
Cartesio, come filosofo, aveva una grande dote: assunto un certo motivo di pensiero, sapeva portarlo fino in fondo. La prudenza dei suoi atteggiamenti pratici cedeva il passo a una consequenzialità radicale appena si trattava di problemi teoretici.
Perciò, sebbene il materiale con cui Cartesio costruì il suo sistema fosse attinto, assai più di quanto egli confessi, alla tradizione, il sistema cartesiano aprì effettivamente un' epoca nuova: l'epoca in cui la filosofia aspira alla stessa certezza della nuova scienza.
Cartesio, infatti, pensa il mondo come va pensato perché se ne possa avere scienza: una conoscenza "chiara e distinta", valida oggettivamente e sottratta al dubbio.
In effetti il tentativo finirà col fallire, ma non perché Cartesio non l'avesse impostato nel modo più razionale: piuttosto perché è vano sperare che la realtà traspaia fino in fondo alla mente umana.
La verità della filosofia non può avere la stessa natura della certezza della scienza (matematico-sperimentale). Ma, senza dubbio, era logico che il successo della scienza suscitasse speranze in un metodo universale, analogo a quello della scienza stessa, atto a portare la certezza in tutto il conoscere. E la filosofia moderna, da Cartesio a Wolff, si sviluppa a partire da questa speranza.
Ad una tale opera Cartesio era inoltre sospinto dalla preoccupazione che le correnti scettiche e libertine potessero avere il sopravvento.
In qualche modo, quindi, il suo pensiero può essere inteso anche come difesa della ragione e della fede insieme (rationis usus fidem praecedit: l'uso della ragione precede la fede) contro i fideismi contrapposti che si davano battaglia al suo tempo e contro i libertini, che negavano la fede in nome di uno scetticismo radicale.
Se, come abbiamo detto, le spiegazioni particolari che Cartesio propone dei fenomeni della natura furono presto mostrate fallaci dal progresso scientifico, la sua concezione del mondo era destinata a durare ben oltre questo fallimento della fisica cartesiana.
Il cartesianismo era una sorta di "intellettualizzazione" radicale della realtà fisica, ridotta a un puro complesso di funzioni geometriche, e privata di quei principi vitali e di quelle proprietà concrete di cui aveva amato vestirla il naturalismo del Rinascimento.
Lo spirito (mens, "pensiero", "anima", ecc.) veniva considerato come un ente a sé, avente un'individualità propria in ciascuno (mentre la sostanza estesa è unica), e, pur restando legato ai corpi degli uomini da un nesso molto labile, non impediva che tutti i fenomeni naturali (compresa la vita) fossero assoggettati a una concezione puramente meccanicistica: nel mondo non vi era dunque più nulla che potesse sottrarsi al dominio della nuova scienza, matematicamente strutturata.
Metafisicamente, però, la posizione cartesiana era instabile, a cagione del suo dualismo; e gran parte dei sistemi del Seicento si costituirono appunto per portare a coerenza, in un senso o nell'altro, ciò che il dualismo cartesiano lasciava indeciso.
Ciò diede alla filosofia di Cartesio una posizione centrale: il suo modo radicale di spianare la via alla scienza, e le stesse carenze della sua metafisica, fecero di Cartesio il filosofo più studiato e discusso per più di un secolo e mezzo.
I philosophi novi che gradivano soprattutto la nuova visione del mondo fisico - fecero di lui il loro corifeo.
E quelli che (a cominciare da Malebranche) erano più sensibili ai problemi metafisici mossero dalle difficoltà suscitate dalla posizione cartesiana per cercare una metafisica generale più soddisfacente.
Questo movimento uscito dal cartesianismo entrerà in crisi con Hume.
Poi, dopo la parentesi kantiana, l'idealismo tornerà a Cartesio, ma per cercarvi spunti di tutt'altro tipo: soprattutto nel principio del cogito.
A questo punto Cartesio avrà cessato di essere un contemporaneo con cui si discute, per passare nella sfera dei classici.
Cartesio aveva badato scrupolosamente a non entrare nel campo della religione, e a non enunciare neppure dottrine filosofiche che potessero infirmarne i dogmi.
Ciò non toglie che la sua filosofia potesse essere utilizzata anche a proposito della religione, e con due intenti decisamente opposti.
Da un lato, infatti, l'appello alla ragione, prescindendo dalla tradizione, poteva incoraggiare il razionalismo, e perfino il "libertinismo", anche in campo religioso.
Da un altro lato, però, molti credenti ritenevano che, grazie alla chiarezza di idee portata dal metodo cartesiano, si potessero sciogliere più facilmente i dubbi, e confutare le affermazioni dei libertini.
Sicché, mentre le autorità religiose nutrirono sempre verso il cartesianismo diffidenza e ostilità, fino a proibire di leggere le opere di Cartesio "donec corrigantur", finché non fossero corrette (1663), e a provocare il divieto, da parte di Luigi XIV, di insegnarne la filosofia (1671), parecchi cattolici singoli ebbero simpatie per il cartesianismo, soprattutto in Francia, anche tra gli ecclesiastici.
Ad esempio padre Mersenne, e parecchi membri della Congregazione dell'Oratorio, fondata nel 1611 dal cardinale De Bérulle per indirizzare le nuove generazioni alla mistica attraverso studi affiatati con la scienza.
Infine vi fu una terza posizione: quella di chi, pur ammettendo l'utilità del metodo cartesiano in campo scientifico, sostenne che esso non poteva servire comunque a giudicare delle verità religiose: né per rafforzarle (come pensavano i cartesiani cattolici), né per scalzarle (come volevano i libertini):
la mera (astratta) razionalità non è criterio di giudizio adatto per giudicare le questioni decisive per la vita umana.
Tale atteggiamento ha i suoi rappresentanti principali tra i "giansenisti", e soprattutto in Pascal.
Dal punto di vista religioso la posizione di Cartesio tuttavia offriva ai giansenisti un vantaggio.
Da un lato l'uomo che scaturisce dalla sua opera non conserva rilevanti tracce del peccato originale (c'è insomma, la presenza di un certo pelagianesimo in Cartesio, cosciente o non che sia); dall'altro, però, la polemica cartesiana contro la scolastica gli aveva fatto rincontrare Agostino: e Agostino stava al centro della singolare esperienza religiosa giansenistica.