Aristotele è il più importante degli allievi di Platone. La sua filosofia è destinata, come quella del maestro, a esercitare una influenza profonda e duratura sulla storia del pensiero.
Durante la lunga formazione presso l'Accademia platonica, il giovane stagirita ha occasione di meditare a fondo la dottrina del maestro e di assimilarne il metodo di indagine.
E nonostante, fin dalle prime prove come filosofo, Aristotele dia mostra di non condividere le teorie fondamentali di Platone e di essere insoddisfatto del metodo accademico della divisione (diaìresis), è dal confronto con la filosofia platonica che egli deriva gli elementi principali dei propri strumenti concettuali.
Importanti strutture del pensiero platonico vengono assorbite in quello aristotelico: esse vi sono generalmente reinterpretate in funzione di esigenze proprie dell'indagine dello stagirita, ma talvolta - in rapporto ad alcune specifiche questioni, quali per esempio la concezione dell'anima umana - vincolano Aristotele a un modo di pensare platonizzante.
Per contro, la dottrina di Aristotele trae origine da un’«intuizione» del reale radicalmente diversa che assume l'esistenza e la conoscibilità degli enti sensibili, del mondo dell'esperienza, come il proprio fondamentale punto d'avvio.
Alla formazione di questo convincimento, documentato già nei testi più antichi, risalenti al periodo accademico, non sono estranei il naturalismo del padre, medico presso la corte macedone, e la conoscenza delle opere della tradizione filosofica e scientifica ionica.
Nel loro insieme, le principali dottrine di Aristotele configurano una concezione della realtà e del sapere autonoma e alternativa a quella di Platone.
In quelle dottrine infatti, insieme all'eredità del maestro, confluiscono in una sintesi nuova i risultati della ricerca dei filosofi naturalisti e, in generale, stimoli e motivi derivanti da tutto il pensiero precedente.
I caratteri originali della filosofia di Aristotele si mostrano con evidenza nel confronto - che proponiamo qui di seguito - tra alcune fondamentali dottrine aristoteliche e le corrispondenti platoniche.
Per Aristotele tutte le singole cose che ci circondano (gli animali, le piante, ma anche gli oggetti prodotti dall'uomo) esistono effettivamente, sono cioè sostanze nel senso più proprio e non immagini imperfette dell'idea, con cui invece Platone identifica la vera realtà.
Gli individui: questo cane, questo albero, questo tavolo, sono concepiti come composti di materia e di forma: alla costituzione del tavolo concorre il legno di cui esso è fatto e la forma che l'artigiano conferisce al materiale legnoso.
La forma (eidos) è dunque pensata come una componente strutturale delle cose, a differenza dell'idea platonica, che esiste oltre le cose.
Se gli enti individuali, dei quali i sensi ci rendono testimonianza, sono realtà a tutti gli effetti, ne consegue per Aristotele che essi possono essere oggetto di vera conoscenza. In particolare, la possibilità di uno studio scientifico (epistème) della natura (physis), negata da Platone, rappresenta uno dei capisaldi del pensiero aristotelico.
La constatazione che gli enti naturali nascono, si corrompono, mutano e si muovono non si traduce in Aristotele, come invece in Platone, nella rinuncia a conoscerli con verità, ma dà luogo alla ricerca di cause e principi capaci di rendere intelligibili gli incessanti processi di trasformazione che si verificano intorno a noi.
Mentre in Platone prevale senz'altro la considerazione della unitarietà del reale (tutte le distinzioni rinviano infatti a una fondamentale unità: il bene, l'essere, l'uno), in Aristotele la ricerca di una spiegazione unificante convive con la puntuale messa in valore delle differenze che distinguono tra loro i generi delle cose che esistono.
Così, nel campo della natura, gli animali dalle piante, i viventi dagli esseri inanimati, gli enti che si trovano sulla terra dagli astri; ma più in generale, per esempio, i corpi fisici dagli enti matematici, e, come vedremo, le sostanze immobili dagli altri enti.
Alla consapevolezza delle differenze di cui è intessuta la realtà, fa da corrispettivo in Aristotele una concezione del sapere e della scienza tesa a salvaguardare la specificità e l'autonomia di ogni ambito disciplinare.
In Platone, tutte le scienze convergono nella comune subordinazione alla dialettica, cui spetta di giustificarne i fondamenti in rapporto al bene, che essa solo conosce: il sapere scientifico presenta dunque, come abbiamo visto, un assetto rigidamente gerarchico.
Per Aristotele, invece, poiché ogni ambito del reale conserva rispetto agli altri un'irriducibile autonomia, anche la scienza che lo studia non può che essere autonoma, quanto a oggetto, principi e metodo, dalle altre discipline.
Il sapere presenta dunque in Aristotele una configurazione che da alcuni interpreti è stata definita enciclopedica, per evidenziare come le diverse scienze vi si trovino idealmente collocate le une accanto alle altre.
Anche se lo stagirita attribuisce una importanza maggiore ad alcuni comparti del sapere rispetto ad altri, ciò non implica una dipendenza gerarchica dei secondi dai primi.
La stessa filosofia, che in Platone si installa al vertice dell'edificio del sapere, tende in Aristotele a identificarsi con l'insieme delle scienze. Questa tendenza, tuttavia, non si può considerare compiutamente realizzata.
Da un lato, infatti, tra le scienze, un ruolo di privilegio è accordato da Aristotele alla filosofia prima, che, come vedremo, studia le sostanze immobili tra cui Dio (per l'eccellenza del suo oggetto, essa appare ad Aristotele più filosofica delle altre).
D'altro lato, Aristotele ammette l'esistenza di una scienza dell'ente in quanto ente, avente come oggetto tutte le cose in quanto esistono, indipendentemente dal fatto che esse siano, poniamo, numeri o corpi naturali; e ne attribuisce al filosofo la competenza.
Infine, è nettamente diversa l'impostazione dei rapporti tra sapere teorico e vita pratica.
Mentre infatti Platone identifica la virtù con la conoscenza, Aristotele distingue puntigliosamente la sfera della teoria da quella dell'agire, e afferma che, nel determinare il comportamento virtuoso, un ruolo fondamentale è svolto dalla volontà.
La rivendicazione della piena sostanzialità degli enti naturali implica un serrato confronto con la dottrina platonica delle idee.
Del resto, proprio nel periodo di permanenza dello stagirita presso l'Accademia, lo stesso Platone è impegnato da un riesame critico di questa dottrina: troviamo così che alcuni degli argomenti che Aristotele propone contro le idee platoniche coincidono con le difficoltà della teoria rilevate nel dialogo Parmenide: è questo il caso dell'argomento cosiddetto del «terzo uomo».
Gli argomenti di Aristotele contro le idee mirano da un lato a mettere in luce le conseguenze contraddittorie derivanti dal postularne l'esistenza; dall'altro a evidenziare come l'ammissione delle idee non valga a dar risposta ai problemi, alla soluzione dei quali esse sono ritenute necessarie.
Al primo tipo di argomenti è riconducibile quello rivolto a confutare le idee di negazione: se si ammettono le idee, allora è necessario ammettere idee anche delle negazioni (come «non uomo»): ma ciò è impossibile, perché in tal caso avremmo una idea unica, quella appunto di «non uomo», per una molteplicità di cose diverse (tutte, esclusi gli uomini).
Al secondo tipo, appartengono invece, rispettivamente:
a) la confutazione della prova dell'esistenza delle idee che si fonda sulla scienza;
b) la critica alla tesi che gli enti ideali separati siano causa di quelli sensibili.
a) Come si ricorderà, Platone giudica che non sia possibile aver ferma scienza di ciò che è mutevole, come le cose sensibili: la scienza non può che riguardare ciò che queste ultime hanno in comune e che non muta; perché la scienza abbia un oggetto definito, è dunque necessario che esista un ente immutabile e distinto dalle cose molteplici: l'idea.
Aristotele obbietta che questo argomento prova bensì la necessità dell'esistenza di un oggetto stabile del conoscere scientifico, ma non quella delle idee.
Oggetto della scienza non può essere una cosa esistente accanto alle altre, da esse separata.
Dalla conoscenza di una realtà come l'idea platonica, proprio perché separata, non può infatti derivarci alcun sapere sulle cose singole.
La scienza verte invece per Aristotele intorno a nozioni o predicati universali (come «animale», «uomo» ecc.) che non esistono separatamente dalle cose, benché non coincidano immediatamente con esse ma rappresentino piuttosto l'elemento di comunanza, cioè l'essenza o natura unica.
b) La critica alla concezione delle idee separate come causa degli enti sensibili è strettamente legata alla precedente.
Aristotele rileva che postulare idee separate dalle cose come causa di queste ultime significa solo aumentare inutilmente il numero delle cose che devono essere spiegate.
Le idee, infatti, non valgono a spiegare il divenire degli enti sensibili e nemmeno possono essere considerate causa della loro esistenza, proprio perché ne sono separate.
A partire da questo assunto i complessi tentativi di stabilire una comunicazione tra idee e cose (operati da Platone attraverso i concetti di partecipazione delle cose alle idee e di imitazione del modello ideale da parte delle cose) vengono liquidati polemicamente dal giovane Aristotele come «metafore poetiche», di nessuna importanza per la filosofia.
Un ulteriore importante aspetto del pensiero platonico sottoposto a esame critico da Aristotele è il procedimento della diaìresis: da questa critica Aristotele deriva, come vedremo, la dottrina delle categorie.
Alla diaìresis gli accademici si affidano per ricavare una idea particolare da una più generale, attraverso successive divisioni.
La diaìresis, nella prospettiva di Platone, serve a evidenziare il rapporto di comunicazione che un'idea intrattiene con quelle a essa subordinate e con quelle più generali da cui essa stessa è derivata, cioè, complessivamente, con quelle che appartengono alla sua stessa colonna.
Rivelatrice dei nessi che sul piano ontologico collegano le idee tra loro, la diaìresis svolge un ruolo essenziale anche sul piano del discorso, in quanto criterio di verità: infatti, per Platone la verità o la falsità dei rapporti (di identità, di alterità) che il logos umano istituisce nella proposizione tra soggetto e predicato dipendono dalla corrispondenza o meno di questi con i rapporti (di comunicazione o di esclusione reciproca) che collegano tra loro le idee.
Nel caso del nostro esempio, noi potremo affermare con verità che l'«uomo è un bipede implume» perché le idee di «uomo» e di «bipede implume» sono in comunicazione tra loro; oppure che l'«uomo non è un quadrupede» per la ragione opposta.
Ma affermeremmo il falso dicendo che l'uomo è un quadrupede, perché l'idea di «uomo» e quella di «quadrupede» non comunicano tra loro.
Aristotele si propone di correggere i difetti del procedimento diairetico, trasformandolo in uno strumento più efficace al fine di controllare la correttezza del discorso.
In ciò egli segue del resto un'indicazione dello stesso Platone, il quale raccomanda che le «divisioni» vengano operate in modo non casuale, ma rispettoso dell'effettivo articolarsi delle idee più generali (secondo la denominazione del Politico, generi) nelle idee più particolari (specie), dalle quali le prime sono costituite.
I due termini genere e specie valgono a esprimere una gerarchia logica tra idee o, a un differente livello, tra classi di individui.
Per esempio, l'idea «animale» è più estesa dell'idea «uomo» e la comprende.
In altri termini, la classe degli «animali» comprende quella degli «uomini» come una sottoclasse: «animale» è dunque genere della specie «uomo».
Viceversa, la specie è meno estesa del genere, e ne risulta compresa: «uomo» è specie del genere «animale».
Rispetto alla nozione di genere, tuttavia, quella di specie individua un ambito meglio determinato e più omogeneo al suo interno.
Secondo Aristotele, un limite del procedimento diairetico consiste proprio nella mancanza di un criterio rigoroso per stabilire se una determinata idea appartenga a un'altra più generale come una specie a un genere: se cioè la prima rappresenti davvero una articolazione essenziale della seconda, e quindi appartenga alla stessa colonna di quest'ultima.
Come accertare allora se un'idea rientri o meno nella stessa colonna diairetica di un'altra?
A questo fine, Aristotele propone di distinguere le determinazioni esprimenti il «che cos'è» (ti esti) di una cosa da quelle che le si riferiscono in modo diverso. In una stessa colonna devono trovare collocazione solo le determinazioni che dicono che cos'è qualcosa.
Analizziamo, per esempio, le due seguenti proposizioni:
1) l’«uomo è un animale»
2) «la neve è bianca».
Consideriamo la prima: «uomo» appartiene a buon diritto alla colonna in cui si trova «animale», poiché «animale» dice che cos'è «uomo» (e dunque «animale» è il genere a cui appartiene la specie «uomo»).
Consideriamo invece la seconda: benché la «neve» sia indubitabilmente una cosa «bianca», «bianco» non esprime che cos'è la neve e dunque «neve» non potrà collocarsi nella colonna di «bianco» (il che equivale a dire che «neve» non è specie del genere «bianco») ma troverà posto in quella - poniamo - di «precipitazioni atmosferiche».
«Bianco», a sua volta, verrà a disporsi nella colonna contenente il predicato che esprime il che cos'è di «bianco» ovvero il «colore».
La distinzione tra le determinazioni esprimenti il che cos'è e le altre contiene in nuce due fondamentali dottrine aristoteliche, quella chiamata in seguito dei predicabili, esposta nei Topici, e quella delle categorie, presentata in forma compiuta nello scritto che da essa prende nome.
Negli otto libri dei Topici ci troviamo di fronte a una dottrina ben circostanziata, ormai diversa dalla dialettica dell’ultimo Platone.
Il primo punto di distacco dalla dialettica platonica lo incontriamo anzitutto nella concezione stessa della struttura logica dell’universale (prescindendo, per ora, dalla sua struttura metafisica).
Platone aveva sostanzialmente ipostatizzato nel rango delle idee ogni rappresentazione universale, senza distinguere dalle rappresentazioni essenziali quelle rappresentazioni che, pur essendo universali, sono puramente accidentali e inessenziali (ad es., la rappresentazione dello star seduto, pur potendo appartenere universalmente ad ogni uomo, è però inessenziale ad esso).
Aristotele comincia col rompere questo processo indistinto di ipostatizzazione, distinguendo ciò che è veramente universale da ciò che è invece soltanto accidentale:
«Accidente … è ciò che può appartenere e non appartenere a un solo e medesimo oggetto, qualunque esso sia. Ad esempio, lo star seduto può appartenere e non appartenere a un medesimo oggetto. Così pure il bianco: nulla infatti impedisce che lo stesso oggetto sia ora bianco, ora per contro non bianco».
Quindi, se gli universali esprimenti le diverse essenze della realtà devono potersi distinguere tra loro, non vi può essere né vera identità né vera differenza tra le determinazioni accidentali e quindi il vero universale deve sorgere soltanto su note distintive non accidentali:
«Occorre esaminare se la differenza appartenga per accidente all’oggetto definito. In realtà, nessuna differenza è compresa tra le determinazioni accidentali, come non lo è il genere; non è difatti possibile che la differenza appartenga e non appartenga a qualcosa».
Per Aristotele possono dunque considerarsi veri universali soltanto quelli che «appartengono per necessità ai loro oggetti».
La dottrina dei predicabili offre una classificazione dei predicati.
Questi ultimi vengono distinti in quattro tipi, in ragione della intensità del rapporto che li lega al soggetto della proposizione cui appartengono, rispettivamente.
I quattro tipi sono: a) definizione; b) genere; c) proprio; d) accidente.
a) La definizione (orismòs) esprime con la massima precisione il che cos'è (ti esti) del soggetto, cioè ne restituisce l'essenza (tò tì en eìnai).
Essa è comprensiva di due diversi gruppi di predicati.
In primo luogo, l'affermazione del genere, che corrisponde all'ambito più vasto in cui si iscrive la specie del soggetto della proposizione; in secondo luogo, l'indicazione delle differenze specifiche, cioè delle determinazioni che differenziano la specie del soggetto dalle altre specie dello stesso genere.
Dall'esempio del Politico platonico, ripreso da Aristotele nei Topici, risulterà allora che definizione di uomo è: «animale» (genere), «bipede implume» (differenze specifiche).
La definizione stabilisce con il soggetto il rapporto di predicazione più stretto, poiché gli corrisponde perfettamente: dire la definizione («animale bipede implume») è infatti identico a dire il soggetto («uomo»).
b) Il secondo tipo di predicato, il genere (gènos), entra con il soggetto in un rapporto diverso, meno stretto: «animale», nel nostro esempio, può bensì esser predicato di «uomo», anzi rientra nella stessa colonna e costituisce un elemento della definizione (cioè coopera, come abbiamo visto, a definirne l'essenza); e tuttavia non corrisponde perfettamente al soggetto, essendo più esteso di esso e comprendendo anche altre specie.
c) Il proprio (to ìdion) indica una proprieta del soggetto: è un predicato che, pur non rientrando nella colonna diairetica e nella definizione del soggetto, e quindi non esprimendone il che cos'è, si predica di tutti gli individui della specie del soggetto: «capace di ridere», per esempio, si predica di tutti gli uomini, anche se non concorre a definire il che cos'è dell'uomo.
d) L'accidente (symbebekòs), infine, è un predicato che non rientra nella colonna in cui si trova il soggetto, non ne esprime il ti esti, e neppure può esserne predicato con universalità, come invece il proprio, in quanto appartiene ad alcuni individui della specie del soggetto e non ad altri: così «bianco» è accidente di «uomo».
genere più estesa del soggetto
definizione coestesa al soggetto
proprio (proprietà) coesteso al soggetto
accidente meno esteso del soggetto
Il vero universale non è più quindi, per Aristotele, qualsiasi rappresentazione astratta, come per Platone, bensì soltanto quella che esprima non un accidente (sumbebekòs), ma l’essenza individuale dell’oggetto, che egli designa, con termini che meglio vedremo a proposito della Metafisica, come l’ousìa o il tì en eìnai dell’oggetto.
La formulazione di questo autentico universale è, come già detto, la definizione (orismòs):
«La definizione è un discorso che esprime l’essenza individuale oggettiva. In tal caso si fornisce o un discorso in luogo di un nome, o un discorso in luogo di un discorso: è infatti possibile definire altresì qualcosa tra quanto si esprime in un discorso».
Questo concetto aristotelico di definizione è evidentemente connesso a una nuova metafisica e a una nuova psicologia, che non sono più quelle platoniche.
Metafisicamente il concetto di definizione presuppone la teoria aristotelica secondo cui l’essenza di ogni cosa è sempre una forma individualizzata, (libro XIII della Metafisica), in opposizione alle idee generiche di Platone.
Pertanto, quando Aristotele usa, ad es., l’espressione «essenza individuale dell’uomo», intende dire che il concetto dell’uomo è ciò che è sempre stata (tò tì en eìnai) la sua essenza specifica.
Psicologicamente il concetto di definizione presuppone la teoria di una conoscenza formale, distinta dalla conoscenza puramente sensibile:
«Se l’apprendere», si legge nei Topici, «si dice in più sensi, con riferimento all’animo oppure al corpo, anche ciò che è privo della capacità di apprendere si dirà in più sensi, con riferimento all’anima oppure al corpo».
Questa metafisica dell’essenza individuale e questa psicologia, si trovano espresse appunto nei libri della Metafisica e nel terzo libro del De Anima.
Secondo questa psicologia, è anzitutto esclusa una conoscenza concettuale che si fermi alla sola sensazione.
Aristotele riconosce che anche la sensazione ha a che fare con universali, giacché noi conosciamo sensitivamente non l’essenza individuale di una cosa, bensì le sue qualità (che sono caratteristiche universali).
Però la sensazione non è capace di intendere la necessità della presenza di questi universali, perciò essa, pur percependo un oggetto singolo e cogliendone le qualità universali, è incapace di comprendere il nesso necessario tra l’universalità e l’individualità: e proprio in questo invece s’è detto che risiede la caratteristica dell’autentico universale:
«poiché si percepisce bensì l’oggetto singolo, ma la sensazione si rivolge all’universale, per esempio, all’uomo, non già all’uomo Callia».
Perciò, la sensazione conosce sempre soltanto un tale (toiònde), mai un questo (tòde); solo la definizione può cogliere l’essenza del questo.
Ciononostante la sensazione costituisce sempre la base sulla quale sorge poi la definizione concettuale, la quale è sempre composta di un’immagine (fántasma) depurata dell’elemento sensibile (áneu yles, cioè priva di materia).
In questo modo il punto di partenza delle indagini logiche di Aristotele fu proprio costituito dall’insorgere dell’esigenza della specificazione, della determinazione circostanziata nell’àmbito dell’universale.
Perciò il genere, il proprio e l’accidente sono le tre basi del processo della definizione: la definizione deve anzitutto trovare il proprio che appartiene unicamente all’oggetto in questione; quindi mostrare a quale genere esso appartiene e infine che esso non vi appartenga quale semplice accidente.
Per questo i tre libri centrali dei Topici, cioè il IV, V e il VI sono dedicati appunto al genere, al proprio e alla definizione.
Se il genere e il proprio sono i due elementi costitutivi della definizione, le funzioni che attraverso essi si esprimono sono le tipiche funzioni platoniche dell’identità e della differenza.
Ma, pur riprendendo i termini platonici, Aristotele introduce anche qui la sua tipica esigenza della specificazione: perciò egli esclude tutto l’aspetto matematico-pitagorico, proprio del platonismo, dal concetto di identità e immette la funzione dell’identità e della differenza dentro alla logica positiva del genere e del proprio:
«Si ha identità numerica, quando i nomi sono parecchi, ma la cosa è una sola, ad esempio mantello e soprabito. Identità specifica spetta invece a quegli oggetti, che pure essendo parecchi non rivelano differenze quanto alla specie, cosi come un uomo è identico ad un uomo, e un cavallo a un cavallo ... Analogamente, identità generica si ha poi tra quegli oggetti che rientrano in un identico genere, ad esempio tra un cavallo e un uomo».
Naturalmente, le identità che interessano la definizione sono soltanto quelle relative al genere e alla specie, per quanto l’origine del termine identità sia numerica (151 b 28).
La differenza massima tra due essenze individuali è poi quella che si ha tra i contraddittori (antikeímena), i quali, esprimendo un’opposizione che è insieme formale e materiale, non ammettono un mezzo tra di loro.
Minor opposizione si ha invece nel caso che, anziché contraddizione vi sia soltanto privazione (stéresis), giacché la privazione è «una contraddizione di una certa natura, o un’incapacità che è del tutto determinata, ovvero è presa insieme a ciò che può riceverla» , e quindi, a differenza della contraddizione, la privazione ammette un mezzo.
Infine il rapporto tra i contrari (enantía) è un caso estremo di privazione, dove l’opposizione è solo formale e quindi ammette un mezzo tra i contrari (a differenza della contraddizione), ma tuttavia tale opposizione formale è assoluta.
Parte del libro II dei Topici è appunto dedicata allo studio del comportamento dei contrari.
Ancora una volta, è innegabile che la sorgente delle questioni logiche attinenti alla definizione, e dunque al processo di acquisizione dell’individuale, è ancora quello platonico e accademico della dottrina delle idee, anche se qui non si tratta più di idee, ma di definizione di universali specifici.
Per Aristotele la logica della scienza, deve essere denominata analitica; si dovrà giungere fino a Cicerone per il latino e ad Alessandro di Afrodisia per il greco, per incontrare il termine "logica" usato nel senso moderno, per cui Aristotele usava invece il termine analitica.
A differenza di Platone, Aristotele visse veramente il dramma della specificazione e individuazione dell’universale, cioè della mediazione tra il genere e il proprio.
Il problema di questa mediazione è, in sostanza, il problema stesso della dimostrazione, che per Aristotele è costituita dal sillogismo.
Il sillogismo consiste infatti, appunto, nel trovare un termine medio tra un soggetto e un predicato.
Ad esempio, per mostrare l’appartenenza al soggetto Socrate (A) del predicato mortale (C) occorre trovare il medio, uomo (B), il quale è un concetto che può essere tanto predicato di A quanto soggetto di C , e può quindi mediare i due termini, rendendo necessaria la loro concatenazione.
Perciò la scienza della dimostrazione, è in sostanza, la scienza dei termini medi.
«La prontezza deduttiva è una certa abilità di cogliere istantaneamente il medio. Tale abilità si presenta, ad esempio, nel caso in cui, vedendo che la parte illuminata della luna sta sempre rivolta verso il sole, qualcuno coglie d’un tratto il perché delle cose, ossia comprende che ciò si verifica, poiché la luna riceve la sua luce dal sole ... Indichiamo con A: avere la parte illuminata rivolta verso il sole; con B: essere illuminato dal sole; con C: luna. Allora a C, cioè alla luna, appartiene B, cioè l’essere illuminato dal sole; ma a B appartiene A, cioè avere la parte illuminata rivolta verso ciò, da cui si riceve la luce: di conseguenza, A apparterrà anche a C, mediante B».
La dimostrazione, dunque, conclude Aristotele, «si riduce alla ricerca del medio».
Ma il medio con la sua gerarchia di appartenenze entra esattamente nello specchio metafisico della determinazione e specificazione dell’individuale.
L’ultimo Platone aveva affidato, ancora una volta, al mito il problema, nel Timeo.
Il demiurgo, in quanto mediatore tra la materia e le idee dà ordine forma e misura e plasma la materia a immagine e somiglianza delle idee, subordinando l’individualità all’attività plasmatrice da lui compiuta.
Aristotele vuole uscire dalla strutturazione dialettico-diairetica di Platone e cerca la mediazione non nel mito ma nel concreto delle forme che si presentano alla realtà.
Anche qui, in realtà, il Platone del Sofista aveva già compiuto un cammino importante.
Nel descrivere il metodo diairetico egli sottolinea che è necessario operare le divisioni seguendo i caratteri propri delle realtà stesse, come un macellaio divide con cura le parti di un animale.
Immagine che già lascia presagire l’organica trattazione del genere, del proprio e dell’accidente, in vista della differenza specifica e il loro gioco di rimandi e appartenenze gerarchiche secondo il principio della partecipazione.
Quello che però sembra essere il centro della meditazione aristotelica in realtà scaturisce dal dialogo fittissimo intessuto ancora una volta con Platone, soprattutto in rapporto all’individuazione della realtà.
Come già asserito, Aristotele ha vissuto con grande trasporto il problema di come i concetti più generali che Platone aveva collocato nel mondo delle idee possano essere efficaci nella spiegazione del mondo reale dell’esperienza, fatta di individui.
Il problema della sillogistica e del termine medio certamente non è estraneo a questa esigenza speculativa fondamentale.
Non c’è quindi da meravigliarsi che le riflessioni ora esaminate conducano, attraverso lo studio dei rapporti tra genere, specie e proprio, a una gerarchizzazione degli universali, i quali risultano così ordinati tra loro secondo il concetto platonico della partecipazione, che affiora esplicitamente all’inizio del libro IV dei Topici:
«Il partecipare si definisce come l’accogliere il discorso definitorio di ciò che è partecipato. E dunque evidente che le specie partecipano dei generi, ma che i generi non partecipano della specie: la specie infatti accoglie il discorso definitorio del genere, mentre il genere non accoglie quello della specie».
In questo modo viene a incorporarsi nella logica aristotelica l’idea di un certo numero di universali, che sarebbero i più generali di tutti: idea tipicamente platonica, elaborata nell’ambiente della prima Accademia.
A questi universali più generali Aristotele dà il nome di categorie, o predicabili, e ne tratta nel cap. 9 del libro I dei Topici, elencandoli in numero di dieci:
«Essi sono dieci di numero, esprimendo dell’oggetto: che cos’è, che è una quantità, che è una qualità, che è rispetto a qualcosa, che è in un luogo, che è in un tempo, che è in una situazione, che ha, che agisce, che patisce. L’accidente, il genere, il proprio e la definizione saranno infatti sempre in una di queste categorie: tutte le proposizioni costituite da siffatti elementi significano invero o che cos’è l’oggetto, oppure che ha una qualità, oppure che ha una quantità, oppure una delle altre categorie».
La distinzione, tra predicati esprimenti il che cos'è e gli altri, è anche alla base della dottrina delle Categorie.
Aristotele muove dal rilievo che le colonne costituite dai predicati esprimenti il che cos'è convergono in strutture ad albero molto ampie.
Per esempio, la colonna del Politico che mette capo a «uomo» converge, nel genere «animale», con quella che, attraverso «quadrupede», mette capo a «cavallo».
A loro volta, le colonne che si diramano da «animale» convergono con quelle che si diramano da «vegetale» nel genere «vivente».
Tuttavia, per quanto si proceda verso generi più estesi, se si rispetta scrupolosamente il criterio adottato per la costruzione delle colonne (queste, lo ricordiamo, devono comprendere solo determinazioni esprimenti il che cos'è) non si può procedere alla completa riunificazione delle colonne stesse in un solo genere.
Infatti, la colonna di predicati cui appartiene «bianco» converge bensì con quella in cui si trova «rosso» nel genere «colore», che rappresenta il che cos'è dell'uno e dell'altro; e, del pari, l'insieme delle colonne generate dalla divisione di «colore» converge nel genere delle «qualità» con quello delle colonne generate dalla divisione di «sapore»: ma non esiste un genere generalissimo entro il quale possano convergere, per esempio, la colonna di «bianco» e quella di «uomo».
Aristotele - al contrario di Platone, che nel Sofista delinea una struttura convergente nell'essere e comprendente tutte le idee - pensa cioè che la riunificazione possa procedere soltanto fino a individuare una pluralità di generi di vertice.
Le categorie (gène katègorion, letteralmente «generi delle predicazioni») coincidono, appunto, con i generi massimi, cui possono essere ricondotti i differenti tipi di predicati.
Questa caratteristica delle categorie può essere ulteriormente chiarita facendo la seguente riflessione.
Per gli altri predicati la distinzione tra «genere» e «specie» è relativa: una nozione non è di genere o di specie in sé, ma soltanto in rapporto a un'altra più o meno estesa.
Nelle proposizioni in cui soggetto e predicato appartengono alla stessa colonna diairetica, genere è ciò che figura come predicato, specie ciò che figura come soggetto.
Consideriamo le seguenti proposizioni:
A Il greco è un uomo
B L’uomo è un animale
C L’animale è un vivente
Nella proposizione B il genere «animale» figura come predicato rispetto alla specie «uomo», nella C «animale» può fungere da specie di un genere più esteso «vivente». «Uomo» a sua volta figura come genere in A dove è predicato, e specie in B dove è soggetto.
Ciò che differenzia le categorie da tutti gli altri possibili predicati è che esse possono figurare solo come predicati e mai come soggetti: non esistono generi più estesi di esse.
Ognuna delle categorie corrisponde dunque al genere massimo che riunisce tutti i predicati esprimenti uno stesso aspetto del reale.
Aristotele individua dieci categorie: sostanza (ousìa, per esempio: u uomo, cavallo), quantità (posòn, per esempio: di tre cubiti), qualità (poiòn: bianco, grammatico), relazione (pròs ti: maggiore di, doppio di), dove (pou: nel Liceo, in piazza) quando (pote: ieri, l’anno scorso), giacere (keìsthai: è seduto, è sdraiato), avere (èkein: ha i calzari, è armato - ovvero ha armi), agire (poiein: tagliare, bruciare), patire (pàthein: esser tagliato, esser bruciato).
Non conviene qui addentrarsi in un'analisi minuziosa dell'elenco delle categorie: basti sapere che esso ha suscitato nel corso dei secoli innumerevoli discussioni, riguardanti in particolar modo il filo conduttore, cioè il criterio adottato nel formularlo.
Aristotele, per altro, si mostra consapevole del carattere provvisorio della lista, e ne parla come di un abbozzo, senza preoccuparsi, quando ne fa uso in altri scritti, di presentarlo nella forma completa.
È invece importante osservare come la classificazione offerta dalla dottrina delle categorie abbia un duplice significato.
Infatti essa riguarda da un lato - in quanto classificazione di predicati - il piano del discorso (logico-linguistico).
Ma essa è relativa, dall'altro - in quanto i predicati esprimono la realtà - anche al piano del reale (ontologico).
Le categorie cioè rappresentano sia i generi sommi dei predicati, sia, al tempo stesso, i generi sommi ai quali possono essere ricondotti i diversi tipi di enti.
Non meno importante è soffermarsi sui rapporti che intercorrono tra le diverse categorie.
A questo proposito Aristotele rileva che alcune cose sono dette di un soggetto e ne esprimono, con maggiore o minore precisione, l'essenza, altre sono in un soggetto e ne determinano questa o quella caratteristica.
Per esempio, «uomo» è detto di un soggetto, un certo uomo, ma non è in quel soggetto; e invece «un certo bianco» è in un soggetto, cioè nel corpo di cui è colore, ma non è detto di quel soggetto (o almeno non è detto di quel soggetto nello stesso senso).
Come si può osservare, anche in questo caso la distinzione avviene in base a un criterio insieme logico-linguistico e ontologico, attinente cioè sia al piano del discorso, sia a quello della realtà, concepiti come risolti l'uno nell'altro: il soggetto grammaticale della proposizione tende a essere identificato con il sostrato o fondamento reale cui ineriscono certe caratteristiche).
Sulla base delle nozioni di «dirsi di un soggetto» e di «essere in un soggetto», Aristotele perviene a distinguere la sostanza dalle rimanenti categorie.
Ogni categoria, in quanto genere massimo, è detta di (o si dice di) tutti i generi e le specie nei quali essa si articola (così, per esempio, sostanza si dice di tutte le sostanze, animate o inanimate che siano; e, del pari, qualità si dice di tutte le qualità - dei colori, dei sapori ecc. - come nella proposizione «il bianco è una qualità»).
La differenza consiste in questo.
I predicati appartenenti alla categoria di sostanza possono soltanto dirsi di un soggetto, cioè esprimere il che cos'è, del soggetto nell'ambito di proposizioni in cui soggetto e predicato appartengono alla stessa categoria di sostanza (per esempio: «l'uomo è un animale»).
Le determinazioni appartenenti alle altre categorie, invece (qualità, quantità ecc.) - appunto perché sono in un soggetto, cioè ineriscono a una sostanza -, possono svolgere la funzione di predicato anche in proposizioni il cui soggetto non appartiene al loro stesso ambito categoriale, ma a un altro, e specificamente alla sostanza (per esempio: «la neve e bianca»).
La sostanza si configura allora come la più importante delle categorie: innanzitutto, infatti, essa esprime sempre e soltanto il che cos'è (l'essenza) di qualcosa; inoltre, le rimanenti categorie dipendono dalla sostanza, che ne rappresenta il sostrato, e ne individuano proprietà non essenziali; per questo, le rimanenti categorie vengono definite accidenti.
L'analisi condotta nelle Categorie consegue un altro risultato di grande rilievo: la distinzione tra le nozioni di sostanza seconda e di sostanza in senso primario (o sostanza prima).
Le sostanze seconde corrispondono ai predicati appartenenti alla categoria di sostanza, cioè a quelle determinazioni di cui Aristotele come sappiamo afferma che «sono dette di un soggetto».
Del soggetto esse esprimono il che cos'è e dunque coincidono con i generi come animale e con le specie come «uomo».
Sostanza seconda è per esempio la determinazione «uomo» nella proposizione «Socrate è un uomo».
Sono invece sostanze prime un determinato uomo, come per esempio Socrate, o un certo cavallo, o ancora un determinato tavolo; cioè gli individui, gli enti concreti che percepiamo con i sensi (e che possiamo, volendo, designare con un nome proprio: nulla ci vieta infatti di chiamare con un nome proprio non solo questo uomo - Socrate, appunto, o Callia - ma anche, come spesso avviene, un determinato cavallo o, al limite, un particolare oggetto).
Le sostanze prime non sono predicati.
Non solo, infatti, esse non sono «in un soggetto» (anche le sostanze seconde come abbiamo visto non sono «in un soggetto») ma neppure sono «dette di un soggetto» (come invece le sostanze seconde).
Le sostanze prime sono i soggetti di cui sono dette tutte le sostanze seconde e ai quali ineriscono, in ultima analisi, tutti i predicati accidentali.
Nella gerarchia dei generi e delle specie, e quindi in quella dei possibili rapporti fra predicati e soggetti, le sostanze prime vengono a configurare l'altra estremità rispetto alla categoria: esse possono infatti figurare solo come soggetti e mai come predicati.
Tra le sostanze seconde, può allora affermare Aristotele, la specie è più sostanza del genere, perché «è più vicina» alla sostanza prima e la manifesta più adeguatamente: dovendo chiarire che cos'è Socrate meglio lo si farà evidenziando che è «uomo», piuttosto che «animale».
Questo fatto comporta una conseguenza in rapporto alla dottrina dei predicabili, già esaminata in precedenza.
Il genere cui dobbiamo fare ricorso per produrre una buona definizione è il genere prossimo, cioè quello più vicino alla specie considerata e quindi meno generale (e generico).
Dovendo definire «uomo» il genere che indicherò sarà quello prossimo di «animale» e non quello più lontano di «vivente».