Dalla nascita alla conversione (354-387)
La vita di Agostino è stata tramandata con grande dettaglio nella sua opera Confessioni, sua storia morale, nelle Ritrattazioni, che descrivono l'evoluzione del suo pensiero, e nella Vita di Agostino, scritta dal suo amico Possidio, che narra l'apostolato del santo. Agostino, di etnia berbera, ma di cultura totalmente ellenistico-romana, nacque a Tagaste il 13 novembre 354.
Tagaste, attualmente Souk Ahras in Algeria, posta a circa 70 km a sud-est di Ippona, era a quei tempi una piccola città libera della Numidia proconsolare recentemente convertita al Donatismo. Anche se molto rispettabile, la sua famiglia non era ricca, e suo padre, Patrizio, uno dei curiales (consiglieri municipali) della città, era un pagano; alla lunga però, per influenza di Monica sua moglie, e madre di Agostino, Patrizio giunse alla conversione.
Agostino recepì dai suoi genitori due opposte visioni del mondo, da lui spesso vissute in conflitto tra loro. Sarà tuttavia la madre, venerata tutt'oggi come santa dalla Chiesa cattolica, ad esercitare un grande ruolo nell'educazione e nella vita del figlio.
Agostino ricevette da lei un'istruzione cristiana e fu iscritto fra i catecumeni. Una volta, quando era molto malato, chiese il battesimo, ma, essendo presto svanito ogni pericolo, decise di differire il momento della ricezione del sacramento, adeguandosi, così, ad una diffusa usanza di quel periodo. La sua associazione con "uomini di preghiera" lasciò tre grandi concetti profondamente incisi nella sua anima: l'esistenza di una Divina Provvidenza, l'esistenza di una vita futura con terribili punizioni e, soprattutto, Cristo il Salvatore.
«Fin dalla mia più tenera infanzia, io avevo succhiato col latte di mia madre il nome del mio Salvatore, Tuo Figlio; lo conservai nei recessi del mio cuore; e tutti coloro che si sono presentati a me senza quel Nome Divino, sebbene potesse essere elegante, ben scritto, ed anche pieno di verità, non mi portarono via» (Confessioni, I, IV)
Africano di nascita, apprese e utilizzò il punico ed il latino, mentre ebbe difficoltà con il greco, l'altra grande lingua, insieme al latino, della cultura dell'epoca.
Patrizio, orgoglioso del successo del proprio figlio nelle scuole di Tagaste e Madaura, decise di mandarlo a Cartagine per prepararlo alla carriera forense, ma ci vollero molti mesi per raccogliere il denaro necessario, ed Agostino passò il suo sedicesimo anno a Tagaste, in un ozio in cui si scatenò una grande crisi intellettuale e morale.
Quando giunse a Cartagine, verso la fine del 370, ogni situazione che gli capitava lo portava a deviare sempre di più dall'antico corso della sua vita: le molte seduzioni della grande città che era ancora per metà pagana, la licenziosità degli altri studenti, i teatri, l'ebbrezza del suo successo letterario ed uno smisurato desiderio di essere sempre il primo, anche nel peccato.
In questa città, appassionandosi di filosofia, iniziò a studiare la maggior parte dei testi principali della cultura ellenistico-latina. Dotato di un forte senso critico e animato da un desiderio bramoso di verità, passò gli anni della sua gioventù nella ricerca insaziabile del senso della vita. Non molto tempo dopo essere giunto a Cartagine, però, Agostino fu costretto a confessare a sua madre Monica di avere una relazione con una donna, che gli aveva dato un figlio, Adeodato (372), e con la quale visse in concubinato per quindici anni.
Si separarono nel 386, quando ella lo lasciò a Milano per recarsi in Numidia con la promessa che sarebbe tornata. Agostino non ne riporta il nome in alcun testo.Esistono pareri contrastanti nella valutazione di questa crisi. Alcuni, come Theodor Mommsen, la evidenziano, altri come Friedrich Loofs rimproverano a Mommsen questa conclusione o si dimostrano clementi verso Agostino, quando affermano che, a quei tempi, la Chiesa permetteva il concubinato. Agostino mantenne comunque una certa dignità e, fin dall'età di diciannove anni, mostrò un genuino desiderio di uscire da quella condotta dissoluta: nel 373, la lettura dell'Hortensius di Marco Tullio Cicerone, oggi andato perduto, provocò un cambiamento di direzione nella sua vita.
Si imbevve dell'amore per la saggezza che Cicerone così eloquentemente encomiava e, da quel momento, Agostino considerò la retorica soltanto una professione, da esercitare in qualità di insegnante. Il suo cuore si era completamente volto alla filosofia.
Nel 373 la sua ansia per la ricerca dell'assoluto lo fece approdare al Manicheismo, di cui, insieme al suo amico Onorato, divenne uno dei massimi esponenti e divulgatori. Agostino stesso narra che fu attratto dalle promesse di una filosofia libera dai vincoli della fede; dalle vanterie dei manichei che affermavano di aver scoperto delle contraddizioni nelle Sacre Scritture; e, soprattutto, dalla speranza di trovare nella loro dottrina una spiegazione scientifica della natura e dei suoi fenomeni più misteriosi. La mente indagatrice di Agostino era entusiasta per le scienze naturali ed i Manichei dichiaravano che la natura non aveva segreti per Fausto di Milevi, il loro dottore.
Tuttavia, tale adesione non fu scevra da dubbi che l'attanagliavano: essendo torturato dal problema dell'origine del male, Agostino, nell'attesa di risolverlo, diede credito all'esistenza di un conflitto tra due principi.
C'era, inoltre, un fascino molto potente nell'irresponsabilità morale che risultava da una dottrina che negava la libertà ed attribuiva la commissione di crimini ad un principio esterno. Una volta unitosi a questo gruppo, Agostino gli si dedicò con tutto l'ardore del suo carattere; ne lesse tutti i libri, adottò e difese tutte le sue idee.
Il suo attivissimo proselitismo convinse anche i suoi amici Alipio e Romaniano, i suoi mecenati di Tagaste, gli amici di suo padre che stavano sostenendo le spese dei suoi studi. Fu durante questo periodo manicheo che le facoltà letterarie di Agostino giunsero al loro pieno sviluppo, quando era ancora un semplice studente di Cartagine.
Insegnamento
Al termine dei suoi studi sarebbe dovuto entrare nel forum litigiosum, ma preferì la carriera letteraria. Possidio narra che tornò a Tagaste per "insegnare la grammatica". Il giovane professore incantò i suoi alunni, uno dei quali, Alipio, appena più giovane del suo maestro, per non lasciarlo dopo averlo seguito tra i Manichei, fu in seguito battezzato insieme a lui a Milano, per poi, probabilmente, diventare vescovo di Tagaste, la sua città natale.
Monica era profondamente dispiaciuta per l'eresia di Agostino e non l'avrebbe neanche ricevuto in casa o fatto sedere alla sua tavola, se non fosse stata consigliata da un vescovo che dichiarò che "il figlio di così tante lacrime e preghiere non poteva perire". Poco tempo dopo Agostino tornò a Cartagine, dove continuò ad insegnare retorica. I suoi talenti gli furono anche di maggiore vantaggio su questo palcoscenico più grande e, attraverso un'infaticabile ricerca delle arti liberali il suo intelletto raggiunse la piena maturità. Qui vinse un torneo di poesia ed il proconsole Vindiciano gli conferì pubblicamente la corona agonistica.
Fu in questo momento di ebbrezza letteraria, quando aveva appena completato il suo primo lavoro sull'estetica (ora perso) che Agostino cominciò a ripudiare il Manicheismo. Anche quando era nel suo massimo entusiasmo, tuttavia, gli insegnamenti di Mani erano stati lontani dal calmare la sua inquietudine.
Nonostante fosse stato accusato di essere diventato un prete della "setta", non fu mai iniziato o enumerato fra gli "eletti", ma rimase un "uditore", il grado più basso nella gerarchia. Egli stesso fornì le ragioni del suo disincanto: prima di tutto l'inclinazione della filosofia manichea - "Distruggono tutto e non costruiscono nulla" -; poi la loro immoralità in contrasto con la loro apparente virtù; quindi la debolezza delle loro argomentazioni nella controversia con i "cattolici", ai cui precetti basati sulle Scritture la loro unica replica era: "Le Sacre Scritture sono state falsificate".
Ma la ragione principale fu che tra loro non trovò la scienza a cui anelava, ossia quella conoscenza della natura e delle sue leggi che gli avevano promesso. Quando li interrogava sui movimenti delle stelle, nessuno di loro era in grado di rispondergli. "Attendi Fausto", gli dicevano, "lui ti spiegherà tutto".
Finalmente, nel 383, Fausto di Milevi, il celebre vescovo manicheo, giunse a Cartagine. Agostino gli fece visita e lo interrogò, ma scoprì nelle sue risposte solo volgare retorica, assolutamente estranea a qualsiasi cultura astronomica e matematica. L'incantesimo si ruppe e, anche se Agostino non abbandonò immediatamente il gruppo, la sua mente iniziò a rifiutare le dottrine manichee. Nel 383 Agostino, all'età di 29 anni, cedette all'irresistibile attrazione che l'Italia aveva per lui; a causa della riluttanza della madre a separarsi da lui, dovette ricorrere ad un sotterfugio ed imbarcarsi con la copertura della notte.
Non appena giunto a Roma, dove continuò a frequentare la comunità manichea, si ammalò gravemente. Quando guarì aprì una scuola di retorica ma, disgustato dai trucchi dei suoi alunni, che lo defraudavano spudoratamente delle loro tasse d'istruzione, fece domanda per un posto vacante come professore a Milano.
Il praefectus urbi Quinto Aurelio Simmaco l'aiutò ad ottenere il posto con l'intento di contrastare la fama del vescovo Ambrogio. Dopo aver fatto visita al vescovo, però, si sentì attratto dai suoi discorsi e iniziò a seguire regolarmente le sue predicazioni.
Agostino tuttavia fu travagliato da tre ulteriori anni di dubbi, durante i quali la sua mente passò attraverso varie fasi. In un primo tempo si volse verso la filosofia degli Accademici, attratto dal loro scetticismo pessimistico, deluso com'era dal manicheismo e diffidando ormai di ogni forma di credenza religiosa. Lo tormentava più di tutti il problema del male: se Dio esiste ed è onnipotente, perché non riesce ad annientarlo?
«Tali pensieri volgevo nel mio petto infelice, gravato da preoccupazioni tormentosissime, perché temevo la morte e non avevo trovato la verità. Pure rimaneva ferma stabilmente nel mio cuore la fede cattolica nel «Cristo tuo, Signore e Salvatore nostro», una fede ancora informe sotto molti aspetti, e fluttuante al di fuori della dottrina, eppure il mio animo non l'abbandonava» (Confessioni, VII,5)
Ma fu poi decisivo l'incontro con la filosofia neo-platonica, dalla quale rimase entusiasmato.
Aveva a mala pena letto le opere di Platone e di Plotino, quando gli si accese nuovamente la speranza di trovare la verità.
Ancora una volta cominciò a sognare che lui ed i suoi amici potessero condurre una vita dedicata alla ricerca di essa, una vita priva di tutte le aspirazioni volgari come onori, ricchezza, o piacere, e con il celibato come regola.
Ma era solo un sogno; le sue passioni lo rendevano ancora schiavo.
Monica intanto, che aveva raggiunto suo figlio a Milano, lo convinse a fidanzarsi, ma la sua promessa sposa era troppo giovane, ed anche se Agostino salutò la madre di Adeodato, il suo posto fu presto preso da un'altra. Dovette così attraversare un ultimo periodo di lotta e di angoscia, durante il quale la sua volontà di convertirsi non riusciva a prevalere del tutto sull'idea dei piaceri a cui avrebbe dovuto rinunciare.
Finché, anche grazie ai preziosi contributi del vescovo Ambrogio, intuì come la verità, tema centrale del suo itinerario filosofico, non sia un semplice fatto in sé da dominare, quale egli la percepiva nei tribunali dell'impero romano, ma che da essa si viene dominati, perché è qualcosa di assoluto, totale e universale.
Comprendendo come la verità non sia un oggetto ma un Soggetto, cioè un'entità viva e Personale, proprio come viene presentata nei Vangeli, ebbe la certezza che Gesù fosse l'unica via per giungervi, e che alla Verità l'uomo aderisce innanzitutto con il suo modo di vivere.
Fu un colloquio con Simpliciano, futuro successore di Ambrogio, che raccontò ad Agostino la storia della conversione del celebre retore neo-platonico Vittorino, a preparare la strada per la conversione. Questa sarebbe avvenuta all'età di 33 anni, in un giardino di Milano, dove si racconta che Agostino sentì la voce di una bimba che canterellava «tolle lege», ossia «prendi e leggi», invito che egli riferì alla Bibbia, che a quel punto aprì a caso cadendo su un passaggio di Paolo di Tarso (settembre 386).
Alcuni giorni più tardi, Agostino, mentre era malato, sfruttando le vacanze autunnali, si dimise dal suo lavoro di insegnante, andò con Monica, Adeodato, ed i suoi amici a Cassisiacum, residenza di campagna di Verecondo.
Lì si dedicò alla ricerca della vera filosofia che, per lui, ormai era inseparabile dal Cristianesimo.
Dalla conversione all'episcopato (386-396)
Verso l'inizio della quaresima del 387, Agostino tornò a Milano dove, con Adeodato ed Alipio, prese posto fra i competentes per essere battezzato da Ambrogio nella Veglia pasquale. Fu a questo punto che Agostino, Alipio, ed Evodio decisero di ritirarsi nella solitudine dell'Africa. Agostino rimase a Milano fino all'autunno, continuando i suoi lavori (De immortalitate animae e De musica). Poi, mentre era in procinto di imbarcarsi ad Ostia, Monica morì. Agostino, allora, rimase per molti mesi a Roma occupandosi principalmente della confutazione del Manicheismo. Tornò in Africa solo dopo la morte dell'usurpatore Magno Massimo (agosto 388) e, dopo un breve soggiorno a Cartagine, ritornò a Tagaste. Agostino, gradualmente, conobbe la dottrina cristiana e, nella sua mente, iniziarono a fondersi la filosofia platonica ed i dogmi rivelati. La solitudine di Cassiciacum gli permise di realizzare un sogno a lungo inseguito: nei suoi libri Contra academicos, Agostino descrisse la serenità ideale di questa esistenza, animata solamente dalla passione per la verità. Inoltre completò l'istruzione dei suoi giovani amici, ora con letture in comune, ora con conferenze filosofiche alle quali, qualche volta, invitava anche Monica, ed i cui racconti, trascritti da un segretario, furono la base dei "Dialoghi". I temi favoriti di queste conferenze erano la verità, la certezza (Contra academicos), la vera felicità nella filosofia (De beata vita), l'ordine provvidenziale del mondo e la sua perfezione matematica (De Musica), il problema del male (De ordine) ed infine Dio e l'anima (Soliloquia, De immortalitate animae).
Subito dopo il suo arrivo, decise di iniziare a seguire il suo ideale di vita perfetta, dedicata a quel Dio che era giunto ad amare in età adulta: «Tardi ti ho amato, Bellezza così antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Sì, perché tu eri dentro di me ed io fuori: lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle sembianze delle tue creature. Eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, respirai ed ora anelo verso di te; ti gustai ed ora ho fame e sete di te; mi toccasti, e arsi dal desiderio della tua pace». (Confessioni X, 27.38)
Cominciò vendendo tutti i suoi beni e dando gli incassi ai poveri. Poi lui ed i suoi amici si ritirarono nel suo appezzamento di terreno, che già era stato alienato, per condurre una vita comune in povertà, in preghiera, e nello studio della letteratura sacra. Il libro De diversis quaestionibus octoginta tribus è il frutto delle riunioni tenute durante questo ritiro, nel quale scrisse anche il De Genesi contra Manicheos, il De magistro ed il De vera religione.
Agostino non pensava di diventare sacerdote e, per paura dell'episcopato, scappava anche dalle città nelle quali era necessaria un'elezione. Un giorno, essendo stato chiamato ad Ippona da un amico, stava pregando in una chiesa quando un gruppo di persone improvvisamente lo circondò. Costoro lo consolarono ed implorarono Valerio, il vescovo, di elevarlo al sacerdozio; nonostante i suoi timori, Agostino fu ordinato nel 391.
Il novello sacerdote considerò la sua ordinazione come una ragione in più per riprendere la vita religiosa a Tagaste e Valerio approvò così entusiasticamente che gli mise a disposizione delle proprietà della chiesa, autorizzandolo a fondare un monastero.
Il suo ministero sacerdotale durato cinque anni fu molto fruttifero: Valerio l'autorizzò a predicare nonostante l'uso africano che riservava quel ministero ai soli vescovi; combatté l'eresia, specialmente quella manichea ed il suo successo fu notevole. Fortunato, uno dei loro grandi dottori, che Agostino aveva sfidato in pubblico, fu così umiliato dalla sconfitta che fuggì da Ippona. Egli abolì anche l'uso di tenere banchetti nelle cappelle dei martiri.
L'8 ottobre 393 prese parte al Concilio Plenario d'Africa presieduto da Aurelio, vescovo di Cartagine, dove, dietro richiesta dei vescovi, fu obbligato a comporre una dissertazione che, nella sua forma completa, in seguito, divenne il trattato De fide et symbolo.
Le sue attività dottrinali, l'influenza delle quali era destinata a durare molto a lungo, furono molteplici: predicava frequentemente, a volte per cinque giorni consecutivi; scrisse lettere che trasmisero a tutto il mondo conosciuto la sua soluzione per i problemi dell'epoca; lasciò la sua impronta su tutti i concili africani ai quali partecipò, per esempio quelli di Cartagine del 398, 401, 407, 419 e di Milevi del 416 e 418; infine, lottò infaticabilmente contro tutte le eresie.
Indebolito dall'età ormai avanzata, Valerio, vescovo di Ippona, ottenne da Aurelio, Primate d'Africa, che Agostino fosse associato alla sua sede in qualità di coadiutore. Pertanto Agostino si dovette rassegnare alla consacrazione dalle mani di Megalio, Primate di Numidia.
Aveva quarantadue anni, ed avrebbe occupato la sede di Ippona per i successivi 34. Il nuovo vescovo comprese bene come combinare l'esercizio dei suoi doveri pastorali con l'austerità della vita religiosa e, sebbene avesse lasciato il suo monastero, la sua residenza episcopale divenne un monastero dove visse una vita di comunità con il suo clero, che osservava una religiosa povertà.
La casa episcopale di Ippona divenne un vero vivaio per i nuovi fondatori di monasteri che presto si diffusero in tutta l'Africa e per i vescovi che occupavano le sedi vicine.
Possidio elencò dieci amici e discepoli del santo che furono elevati all'episcopato. In questo modo Agostino si guadagnò il titolo di patriarca dei religiosi e rinnovatore della vita ecclesiastica in Africa.
Nel suo sforzo di penetrare per quanto possibile i misteri della fede, Agostino adopera soprattutto, come strumento, la filosofia platonica, conosciuta più attraverso i neoplatonici che direttamente (poiché Platone era poco tradotto in latino). Ma la sostanziale fedeltà allo spirito del platonismo non gli impedisce di vederne i concetti in una luce assolutamente nuova.
Platonica è l'affermazione che il vero, come l'essere, è uno e immutabile: ma il modo in cui Agostino concepisce tale immutabilità è originale e straordinariamente moderno (proprio nel senso che il moderno lo deve anche ad Agostino).
Platone, come tutto l'antico pensiero greco, aveva concepito il vero e l'essere in una forma che noi diremmo (impropriamente) "oggettivistica", mentre Agostino trasporta quei concetti in un'ottica che ha il suo centro nella persona: e cioè, in primo luogo, nella Trinità divina, e poi nell'anima umana, che ne è l'immagine.
Platonicamente, ciò che costituisce l'essere e la verità stabile al di sopra del divenire sono le idee; ma Agostino risale più in là: a quel Bene che già per Platone irraggiava la luce in cui risplendono le idee, e che ora diviene la fonte stessa delle idee; poiché il Bene è Dio.
In questo Agostino era stato preceduto da Filone e da molti Padri greci della Chiesa, per i quali le idee sono simili a pensieri della mente divina: ma nessuno come Agostino seppe indicare così bene la via per risalire dal relativo all'assoluto, dall'anima a Dio, dal pensiero della verità che vive temporalmente nella nostra mente a quella Verità in sé che vive nell'eternità e che è Dio stesso, infinito e immutabile.
Senza dubbio in questo passaggio rimane sempre una dimensione di mistero, perché Dio è incomprensibile: ma Agostino mostra che anche la verità razionale può risplendere per noi solo sullo sfondo di questo mistero, con cui ci mette in contatto la fede. La verità, egli ribadisce continuamente, presuppone la fede.
Come trovare, attraverso il variare incessante e a volte caotico delle cose. e dell'anima stessa, quell'essere vero e stabile che per Agostino è Dio stesso, è: cui l'anima ha bisogno del resto non solo per conoscere, ma per trovare la pace e la salvezza?
L'antichità aveva, in un modo o nell'altro, seguito Platone, nel pensare che dal divenire emergano strutture privilegiate che (simili quasi a opere della statuaria antica) siano come un'immagine dell'eternità, dell'essere vero e immutabile.
Questa era stata la maniera greca classica di rappresentare nell'idea, quasi visivamente, la saldezza e le splendore dell' essere. Ma già nell'età alessandrina questo modo di sentire si era andato perdendo; e per di più esso sembrava quasi divinizzare il finito. e ciò era inammissibile in clima cristiano. Certo anche in questo mondo sensibile e mutevole splende una bellezza divina (come osserva nel De ordine); e anche nella nostra mente, che pure è ottenebrata dal peccato. traluce la verità: ma si tratta di trovare la via che conduce alla sua fonte.
Ora per Agostino questa via è l'interiorità. Nell'interiorità si insedia, così, quel valore, quella capacità di far risplendere la luce della verità e del bene che da: "pagani" era cercata nelle forme esteriori.
Per capire il modo in cui Agostino cerca l'essere, vero e immutabile, nell'interiorità, dobbiamo pensare a quel che avviene in noi quando gustiamo (o quando esprimiamo) qualcosa di bello, di vero o di buono.
Al di sotto delle forme esteriori in cui si esprimono questi valori, noi troviamo un senso della verità, della bontà o della bellezza che è come la vita stessa di quelle forme: senza questo senso interiore, le forme esterne rimangono vane.
È caratteristica in Agostino la contrapposizione continua tra l'intrinsecus e il forinsecus: tra la cosa colta interiormente e la cosa vista esteriormente, e, in genere, tra il foras e l'intus. È un motivo proprio della spiritualità cristiana - contrapposto all'intellettualità della concezione classica - a cui Agostino dà una precisa funzione filosofica.
Egli cerca infatti nel senso interiore, anzi in un profondità ancor più intima di ciò che sentiamo, l'essere saldo e immutabile a cui ancorarsi.
Per spiegare ciò Agostino ricorre spesso all'esempio del discorso. Nel discorso noi pronunciamo parole che si susseguono nel tempo e che potrebbero anche essere diverse. Rispetto a queste parole il senso del discorso, il consilium che abbiamo in mente, e cioè l'intenzione che cerchiamo di esprimere, è qualcosa di unitario, di semplice, e insieme di stabile, al di sotto delle parole fuggevoli e variabili con cui lo esprimiamo.
Qual è dunque il vero essere del discorso, che cosa costituisce la sua verità? Le parole esterne o il consilium interiore? Il secondo, non c'è dubbio.
E, in generale, tutto ciò che è esteriore e fatto di parti esterne a parti non fa altro che esprimere un'essenza interiore unitaria, che è la sua verità.
Così il De Magistro (che riprende tra l'altro un tema ricorrente nel pensiero cristiano dei primi tempi del Gesù "maestro": basti pensare al Pedagogo di Clemente di Alessandria) attraverso un'analisi assai sottile del discorso mette capo alla concezione, tipicamente agostiniana, della verità come interna a ciascuno: di una verità che è suggerita sì dalle parole pronunziate esteriormente, ma comunicata in realtà da un "maestro" interiore che è la luce stessa di Dio: cioè quel Cristo-Logos che illumina ogni uomo, secondo il Vangelo di Giovanni.
Pertanto il De vera religione (di quegli stessi anni) esorta: "Non uscire da te; ritorna in te stesso: nell'interno dell'uomo si trova la verità; se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te medesimo".
In altri termini, il vero immutabile si trova non in quell'interiorità meramente psicologica che è un continuo mutare di pensieri, bensì in una radice di noi stessi che è ancora più profonda di tutto ciò che, di noi, riusciamo a rappresentarci. Questa nostra radice, che ci fa essere, che ci fa pensare, che ci fa volere, come il fondamento più profondo di ciò che siamo, pensiamo e vogliamo, è Dio stesso che, dal nostro interno, ci crea.
Dio è la verità di cui nelle cose esterne troviamo un pallido riflesso. La verità vive in noi e, con le dovute differenze, in tutte le cose, ma non può essere colta nella dispersione e nell'esteriorità in cui le cose si presentano, bensì nel luogo più interno e profondo di noi stessi.
La dottrina del maestro interiore riprende la concezione platonica della conoscenza come anamnesi e si sviluppa nella teoria dell'illuminazione. Per Agostino tutte le impressioni esterne - comprese le parole di chi insegna - non fanno altro che stimolare una capacità nativa dell'anima di formarsi attivamente immagini. Infatti, l'anima non è una cosa che possa subire passivamente l'influenza dei corpi, ma è qualcosa di attivo.
Con le immagini che si forma, l'anima interpreta in primo luogo ciò che avviene nel mondo corporeo: ma essa pensa anche molte azioni che (come la giustizia, la sapienza, ecc.) non hanno nessun corrispondente nel mondo dei corpi.
Da dove viene, allora, la spontaneità dell'anima, e da dove vengono in particolare le nozioni puramente intelligibili (come la giustizia, ecc.) che essa si forma?
Platone aveva affermato, nel Menone, che le impressioni esterne servono a farci "ricordare" una verità che è già in noi. Ma, osserva Agostino, noi non abbiamo vissuto un'esistenza precedente che ora ci tomi alla mente (e per la quale, del resto, si ripresenterebbe lo stesso problema).
La verità è che l'anima, opera, pensa, conosce per il contatto che interiormente ha con Dio, suo creatore (conditor).
L'azione di Dio su di noi tuttavia è assolutamente diversa da quella che possiamo esercitare noi su altro, applicando esternamente a un corpo l'azione di un altro corpo: Dio non agisce dall'esterno, su qualcosa di passivo e preesistente, ma opera dall'interno, facendo essere e rendendo attiva l'anima oggetto della sua azione.
Egli non immette nell'anima idee, ma la rende capace di pensare attivamente. Per indicare questa azione interiore, suscitatrice di attività, Agostino si serve della metafora dell'illuminazione: come l'occhio corporeo vede in quanto la luce stimola la sua capacità visiva, così la nostra anima conosce in quanto Dio la illumina interiormente.
Si tratta, naturalmente, di descrivere come si può un "operare divino in Sé invisibile ed ineffabile". L'importante è rendersi conto che tale operare divino è ciò che rende la nostra anima capace di attività intellettuale.
Con la dottrina dell'illuminazione, il valore universale della verità, cioè il sue valere per tutti allo stesso modo (che Platone aveva giustificato con la dottrina delle idee), viene fondato da Agostino sulla presenza illuminante di Dio alla mente.
Dio è la verità stessa (come dice il Vangelo di San Giovanni) e le cose sono pensate con verità quando sono viste nella luce di Dio.
Le idee platoniche non cessano per questo di avere una funzione: esse sono le ragioni per cui Dio ha fatto le cose: e "Dio ha fatto tutto con ragione".
Noi troviamo la verità delle cose quando riusciamo a cogliere le ragioni originarie ovvero le idee con cui Dio le ha fatte. Le verità singole, che cogliamo nella luce dell'unica Verità divina, sono dunque i principi dell'operare divino.
Ma in che senso l'anima pensa le verità nella luce di Dio? Nel senso, forse, che Dio sia il primo oggetto che conosciamo?
Certamente no, perché anzi Dio è inconoscibile. Allo stesso modo (per riprendere l'esempio fatto sopra) noi vediamo i corpi grazie alla luce, ma non vediamo la luce. L'illuminazione divina è dunque la presenza efficace di un principio che non può essere oggetto di conoscenza intellettuale.
È una presenza immediata attivatrice, che mette l'anima in condizione d'intendere, ma che non può essere intesa essa stessa.
Se si tiene presente ciò, si può capire un'affermazione che Agostino ripete continuamente, appunto perché si rende conto che è un'affermazione paradossale: l'intelletto non può intendere se non è illuminato dalla fede; occorre credere per capire.
Egli cita spesso a questo proposito il profeta Isaia (VII, 9) nella traduzione inesatta dei Settanta, che afferma: "se non avrete creduto, non capirete".
Il motto di Agostino è, infatti, "credo ut intelligam" (credo per capire).
Naturalmente Agostino non nega che, sotto un certo aspetto, valga anche l'opposto: intelligo ut credam (capisco per credere). Che cosa crederei, infatti, se non capissi quel che credo? Ma il senso in cui la fede condiziona l'intelletto è più fondamentale del senso in cui l'intelletto condiziona la fede. Cioè: se io bado al contenuto al quale credo, è chiaro che per dire di crederlo devo, almeno in qualche misura, averlo capito.
Ma se bado al principio che mi permette di capire quello stesso contenuto a cui credo, trovo che questo principio è un contatto con Dio che precede ogni comprensione (perché la condiziona) e che supera ogni possibilità di capire (perché Dio è incomprensibile).
Ossia, è un'adesione per fede che deriva da una sorta di grazia illuminante, con cui Dio rende l'anima capace d'intendere e di volere.
Per questo Agostino esorta a chiedere a Dio l'intelletto, allo stesso modo che si chiede a Dio la fede: una fede che non è il contenuto cui si aderisce, bensì l'atto dell'anima di aderirvi: "Fides enim non est quod creditur, sed qua creditur" (De Trinitate, XIV, 8: "la fede, infatti, non è ciò che è creduto, ma ciò con cui si crede").
Il "credere per capire" vale naturalmente, in primo luogo, per le verità religiose. Ma il tratto caratteristico dell'agostinismo è non ammettere verità che non siano, in qualche modo, religiose: poiché la verità originaria è Dio, e le verità derivate sono viste come vere solo nella luce di Dio.
È piuttosto il modo di intendere una verità, non il suo contenuto, quello per cui la verità può assumere un carattere più o meno religioso, a seconda che si sappia riportare la verità al suo principio eterno, che è Dio, o che, trascurando Dio, ci si attacchi soltanto agli aspetti transeunti della verità.
Da ciò dipende il valore di quelle verità particolari che sono oggetto della mente: perché, se badiamo soltanto al loro aspetto esteriore e transeunte, per quanto lo fissiamo con cura non coglieremo mai le vere ragioni.
Spesso Agostino, adottando una distinzione che trova in San Paolo, chiama scienza il sapere rivolto all'esteriorità transeunte, e sapienza quello che mira al principio divino ed eterno. La sapientia (da sàpere, letteralmente "gustare, sentire il sapore") è quasi un gustare intimamente quel che si sa: e per questo è necessario un particolare contatto con la sapienza stessa di Dio, che è il Logos.
Quindi è necessaria una fede in senso stretto, e non solo quella illuminazione che condiziona il conoscere in genere di ogni uomo (e quindi la stessa "scienza").
Riportare le cose alloro principio eterno non può essere opera di semplice scienza, perché il principio eterno delle cose non lo conosciamo a fondo, né (in questa vita) direttamente. Esso rimane per noi avvolto di mistero, nonostante qualunque rivelazione che possa darci di sé.
E neppure le ragioni ultime delle cose ci possono essere manifeste del tutto, perché derivano dall'eterno, e quindi rimangono per un certo aspetto misteriose esse stesse.
Se non si riconosce questa dimensione di mistero e si pretende di avere di tutto un'evidenza matematica ("come del fatto che 7 + 3 = 10"), la verità stessa è perduta, perché è perduta la via per ricondurla al suo principio. Questo ci fa capire meglio la necessità della fede.
La fede è necessaria per dare consistenza al mistero, per distinguerlo da un semplice vuoto e farci riconoscere nella trascendenza divina l'origine della verità.
Infatti "la fede ha occhi suoi, con cui riconosce vero ciò che ancora non vede, e certissimamente sa di non vedere ancora ciò che crede" . Quindi la fede non chiude, ma apre la ricerca intellettuale, dandoci il senso di quanto ci sia ancora e sempre da capire, offrendo all'intelletto materia per un lavoro che l'intelletto non esaurirà mai.
Questo lavoro è indispensabile, perché la fede non deve esser cieca; e infatti Agostino, quasi escludendo in anticipo ogni interpretazione "fideistica" del suo pensiero, ci esorta ad amare l'intelletto: "intellectum valde ama".
In questa fede che "certissimamente vede di non vedere" è facile riconoscere il motivo socratico-platonico della certezza che nasce dal riconoscere la propria ignoranza.
E anche Agostino, polemizzando con gli accademici, osserva che si può dubitare di tutto, ma che si sa, quanto meno, di dubitare, e si è certi di quell'io che dubita (De vera religione, 39,73; De Trinitate,X 10, 14).
Questo superamento agostiniano del dubbio, se trae da Socrate il "saper di non sapere", trae però dalle fede cristiana quell'"io", ossia quel soggetto, che dubita, e sa di non sapere.
Il soggetto è l'anima, che Dio illumina senza mostrarsi a lei direttamente, dandole l'attitudine a cercare, quanto meno, la verità, attraverso quei segni che la potenza creatrice lascia di sé in tutte le cose.
La fede assume quindi in Agostino una funzione analoga a quella dell'eros platonico, che non è né privazione assoluta né possesso della verità, ma è una sorta di possesso incoativo, il quale, lungi dall'escludere la ricerca, la esige e anzi la rende possibile.
Se accettiamo quel mistero che è Dio, e non pretendiamo di ridurre tutto alle cose esteriori, proprio allora cominceremo a capire le cose esteriori e noi stessi: cioè, per Agostino, la nostra anima, di cui il corpo è semplice strumento.
E reciprocamente le cose, che hanno in sé l'impronta del Creatore - e soprattutto la nostra anima che ne è l'immagine - potranno darci un qualche lume, per quanto tenue, sull'essere di Dio, su questa sovrana e immutabile Natura che il nostro spirito non è.
La Scrittura ci dice che Dio è un'unica essenza in tre persone: e non c'è spiegazione capace di eliminare il mistero di questa triplicità nell'unità. Tuttavia c'è tutta una serie di analogie che ci permette di penetrare per quanto possibile in quel mistero, pur senza che esso cessi di essere tale. Agostino le sviluppa nel De Trinitate.
La nostra anima è una mente che in primo luogo è, in secondo luogo ha notizia di sé, e in terzo luogo ama se stessa: ecco una triplicità nell'unità della nostra anima, che può costituire una prima analogia. Si può poi osservare che:
a) l'essere dell'anima è essenzialmente memoria, perché l'anima si riconosce identica attraverso il tempo;
b) il sapere che l'anima ha di sé si fonda sull'intelligenza;
c) l'amore, infine, con cui l'anima si ama si fonda sulla volontà.
Memoria, intelletto, volere costituiscono un'altra triade nell'unità dell'anima. Agostino rileva altresì una triplicità di aspetti nella conoscenza che l'anima ha dei corpi esterni, nei ricordi che conserva, nel conoscere proprio della scienza e, infine, nella fede e nella sapienza, che è fatta anch'essa di memoria, d'intelligenza e di amore.
Attraverso tutte queste analogie noi vediamo l'anima sotto un aspetto sempre più vicino alla Trinità divina (anche se questi triplici aspetti non sono l'uomo, ma sono nell'uomo, essendo questi in possesso di un' anima che non è un corpo, ma anche di un corpo che non è un'anima).
Ma per trovare nell'anima un'immagine di Dio non dobbiamo coglierla nell'atto di guardare all'eterno, dov'è la vera unità.
E la similitudine più perfetta dell'anima con Dio si avrà nella vita eterna dove l'anima, fuori del tempo, contempla, per quel che le è dato, la Trinità.
Come si vede, Agostino (a differenza dei Padri greci) insiste più sull'unità del divino che sulle singole persone della Trinità.
Anzi, il paragone di Dio con l'anima (che è una sola persona, pur nella triplicità delle sue operazioni) potrebbe perfino farcelo sembrare incline al "modalismo", se Agostino non rilevasse che il "Verbo" divino, contrariamente al nostro atto di pensare che è passeggero, perdura come una verità stabile, e quindi sussistente in se stessa; e che lo stesso fa l'amore che unisce il Verbo al Padre, e cioè lo Spirito.
Se paragoniamo questa concezione a quella di Plotino vediamo che, grazie al dogma della Trinità, Agostino, pur tenendo fermo l'Uno come principio di tutto, può tuttavia trovare in esso quella varietà di funzioni che Plotino, per lasciare l'Uno completamente indifferenziato, doveva collocare a livelli via via più bassi.
Perciò nel Dio cristiano, che non è Uno al di là dell'essere, dell'intelletto e dell'amore, ma che è uno essendo queste tre cose insieme, Agostino può collocare le ragioni del mondo (cioè le idee, nel Verbo), e una cura provvidenziale del creato, che l'Uno plotiniano non poteva avere.
Il passaggio di Dio al mondo è come un estendersi dell'eternità nel tempo. Nell'eternità c'è l'essere pieno, tutto insieme, perché tutto è presente, nulla è passato o futuro. Nel tempo, per contro, ci sono un prima e un dopo, e l'essere non è mai tutto insieme.
E dato che, fin quando non ci fu un mondo, non c'erano un prima e un dopo (poiché il tempo ha cominciato a scorrere insieme col mondo, con la creazione), non ha senso chiedersi che cosa facesse Dio prima di creare il mondo: perché un "prima" non c'era (a suo tempo Origene era rimasto imbarazzato da questo problema).
Il tempo, in quanto passaggio dal prima al dopo, è dispersione, impossibilità di essere insieme. Tuttavia, se le cose temporali hanno un qualche essere, sia pure imperfetto, lo devono al fatto di non essere disperse del tutto, ma di riuscire a legare in qualche modo il prima e il dopo, cioè di imitare, per quel tanto che possono, il modo di essere dell'eternità.
Consideriamo infatti il tempo in quanto si svolge, istante per istante: troveremo che esso non c'è mai. Infatti il passato non c'è più e il futuro non c'è ancora: "il tempo presente che solo abbiamo scoperto potersi chiamar lungo, s'è ridotto allo spazio di un sol giorno appena. Ma analizziamo anche questo spazio, ché nemmeno un solo giorno è tutto presente.
Esso consta di ventiquattr'ore in tutto, tra notturne e diurne: rispetto alla prima ora, le altre sono future; rispetto all'ultima, passate; rispetto a una intermedia, passate e future. E la stessa ora si compie per istanti fuggitivi, e l'istante ch'è volato via è passato, e quello che rimane è futuro.
Se si pensa una particella di tempo, che non si possa più dividere in altre particelle per quanto minutissime, quella sola è tale da potersi chiamare presente: la quale tuttavia trascorre così rapidamente dal futuro nel passato, da non durare nemmeno un attimo [...].
E allora? Dov'è il tempo che si possa chiamare lungo? Il futuro forse? Ma noi non diciamo di esso 'è lungo', perché non esiste ancora ciò che possa essere lungo, ma diciamo 'sarà lungo'. Se quando sarà ancora futuro, non sarà lungo, dal momento che non esisterà ancora ciò che possa essere lungo".
E ciò vale anche per il passato, la cui caratteristica sconvolgente è quella di non essere più. Perché dunque qualcosa ci sia, occorre che il passato in qualche modo sia ancora, insieme con il presente, e che il futuro sia già.
Questo, che è impossibile nei corpi privi di vita, si attua invece nella nostra anima, grazie alla memoria, che conserva il passato, e alla previsione che anticipa in parte l'avvenire; sicché la nostra anima, pur distendendosi nel tempo, costituisce quasi un'immagine dell'eternità, in cui non ci sono passato e futuro, ma tutto è insieme.
Grazie a ciò la nostra anima dà al tempo quel tanto di consistenza che esso può avere: il tempo, dice Agostino, è distensio animae.
Allo stesso modo, ogni esistenza temporale, a quel livello più o meno perfetto che le compete, è come una distensione dell'eternità: ha un'esistenza solo per quel tanto che riesce a essere simile all'eternità; sicché nell'eternità, ossia nella mente divina, le cose sono più autentiche di quanto non siano nel tempo.
Tuttavia Dio, liberamente, ha voluto che le cose esistessero anche nel tempo, cioè in una natura loro propria, che è un dono gratuito della divinità e che, ovviamente, non può mai diventare indipendenza assoluta perché allora le cose cesserebbero del tutto di esistere.
Codesto dono divino è la creazione; e sul racconto biblico della creazione Agostino si sofferma spesso, con acute interpretazioni allegoriche, nel De Genesi ad litteram e nei libri XI-XIII delle Confessioni.
La stretta dipendenza del tempo dall'eternità o, ciò che è lo stesso, delle creature da Dio, è il rovesciamento più netto di quella concezione che per lunghi anni aveva tentato Agostino: il manicheismo.
Il mondo non può essere teatro dell'assalto che un Dio malvagio porta alle opere di un Dio buono, perché un Dio malvagio non c'è, e tutto ciò che è non solo deriva ma esiste in stretta dipendenza da quell'unico Dio che è il Bene. Ma allora come può esistere il male?
La presenza del male, in noi e fuori di noi, è così incalzante che non la si può ignorare: occorre dame una spiegazione. E la spiegazione, paradossalmente, sarà offerta proprio dalla considerazione di quelle creature che sono il capolavoro della creazione: le creature libere.
Tutte le creature, per il fatto stesso che non sono Dio, sono imperfette: il loro essere è un essere diminuito, senza di che non potrebbero distinguersi da Dio, e quindi sussistere come creature.
Questa diminuzione, o privazione di essere, di per sé non è ancora un male ma semplicemente un minor bene: un bene finito di fronte a quel bene infinito che è Dio.
Ma accade che le più alte tra le creature, recando in sé l'immagine della divinità, hanno una volontà libera che riproduce quasi, nel finito, quella potenza creativa che in Dio è infinita. Tale volontà libera e intelligente è il dono più grande che Dio potesse dare a una creatura, poiché grazie ad esso la creatura può amare intenzionalmente Dio.
Da questo bene però non è possibile separare la possibilità del più grande dei mali: poiché la volontà, appunto perché libera, può distogliersi da Dio per rivolgersi a beni inferiori. Amare i beni inferiori, di per sé, non sarebbe un male: ma è un male amarli in luogo di Dio, che ne è la fonte, stravolgendo l'ordine dei valori.
Con ciò il male entra nel mondo, non come una realtà malvagia, bensì come una mancanza rispetto alla realtà e all'ordine, come una deficienza o un peccato: simile alle tenebre, che non sono nulla di positivo, bensì una mancanza di luce.
Essendo mancanza, il male non presuppone una "causa efficiente" che lo produca (come volevano i manichei), ma piuttosto una "causalità deficiente", un non saper restare all'altezza a cui Dio ha collocato la creatura ragionevole.
Ma che il peccato sia una semplice privazione, e non una realtà positiva, non toglie nulla alla sua gravità; e tutti gli altri mali e dolori delle creature razionali sono una conseguenza del peccato, prima di Lucifero, poi di Adamo.
Ci si può chiedere se Dio non prevedesse il cattivo uso della libertà che avrebbero fatto le sue creature, e se non potesse evitarlo.
Senza dubbio Dio lo prevedeva: all'eternità, infatti, tutto è presente simultaneamente, sicché si può dire che Dio vede (meglio ancora, prevede) tutto ciò che le creature liberamente compiono, senza che ciò tolga nulla alla loro libertà (cosicché noi possiamo vedere ciò che altri presentemente fa, senza con ciò impedirgli di agire liberamente).
Ma Dio, pur conoscendo il cattivo uso della libertà fatto dagli uomini, non lo impedisce, perché impedirlo significherebbe non dare loro la libertà, cioè non crearli a sua immagine e somiglianza.
In altri termini: non avrebbero potuto esserci uomini assolutamente incapaci di peccare perché, per essere tali, gli uomini devono avere un natura finita e tuttavia una volontà libera.
Il grave è che, da quando la possibilità di peccare si è realizzata nei nostri primi parenti, non soltanto non possiamo ancora peccare, ma non possiamo più non peccare: il peccato è diventato in noi inevitabile perché quella natura, che è uscita buona dalle mani del Creatore, si è corrotta.
E appunto perciò è stata necessaria la redenzione e sono necessari i sacramenti della Chiesa, insomma un intervento soprannaturale per riparare i mali della nostra natura.
In che modo la debolezza insinuatasi nella natura umana con il primo peccato si trasmetta ai discendenti di Adamo ed Eva è questione che mette in imbarazzo Agostino e lo induce a supporre (senza affermarlo tassativamente) che l'anima si trasmetta dai genitori ai figli come una talea (come un germoglio) che, passando sotto terra, riproduce dalla vecchia vita una nuova: ossia che si trasmetta per traducem (= tralcio della vite piegato e sotterrato perché diventi pianta, propaggine) da cui "traducianesimo" che può essere corporale o spirituale.
L'autore del traducianesimo corporale fu Tertulliano. Agostino lo accusò di far derivare le anime degli uomini dalla prima data ad Adamo e così di fare dell'anima qualcosa di materiale. Agostino, a sua volta, propende per un traducianesimo "spirituale".
E da tale difficoltà nascerà anche, in parte, la polemica che Agostino dovrà sostenere contro Pelagio. Ma che, in ogni caso, nella natura umana quale attualmente è si manifesti una certa debolezza, sarebbe difficile negarlo.
Il punto da cui muove l'argomentare di Pelagio (un monaco irlandese venuto in Africa da Roma per sfuggire all'invasione dei Goti) è tolto dall'insegnamento dello stesso Agostino: il male consiste in una privazione, senza una propria sostanzialità.
Dunque, conclude Pelagio, il male non si può trasmettere ereditariamente, e la volontà dei discendenti di Adamo ed Eva torna a trovarsi di fronte a una scelta perfettamente libera tra il bene e il male, senza essere predeterminata dalla cattiva scelta dei loro progenitori.
Ciò rende del tutto secondaria la nozione di "grazia". Dio dà sì all'uomo il potere di scegliere, ma l'uomo solo esercita questo potere, e a lui, quindi, va la colpa o il merito di ciò che fa.
Uno scolaro di Pelagio, Celestio, trae da questa dottrina le sue conseguenze più gravi: nega che la morte sia una conseguenza del peccato originale e che la grazia sia un dono gratuito di Dio, perché Dio concede la grazia secondo i meriti, che dipendono dal volere dell'uomo; tanto che, anche prima della redenzione, vi furono uomini senza peccato.
Queste conseguenze si può dire togliessero ogni significato all'incarnazione, alla passione, alla morte ed alla resurrezione di Cristo e, ovviamente, alla Chiesa ed ai sacramenti (per cominciare, proprio al battesimo).
Ed è naturale che la dottrina di Pelagio, pur avendo questi cercato di scindere le proprie responsabilità da quelle di Celestio, fosse ripetutamente condannata, dal 411 in poi.
A far emettere tali condanne contribuì non poco la polemica di Agostino: tanto più acerba in quanto l'avversario aveva cercato di coinvolgere in proprio favore la sua autorità.
Agostino fa notare come, fin dal tempo del De libero arbitrio, pur sostenendo la piena volontarietà del male avesse affermato che all'uomo è difficile fare il bene, e in ogni caso impossibile senza l'aiuto di Dio.
E ritorce sugli avversari l'accusa (mossagli da Celestio e da Giuliano Eclano) di essere tornato al giovanile manicheismo col sostenere che gli eletti sono predestinati a esser tali da Dio (è nell'enfatizzazione unilaterale di questa posizione la radice, poi, del luteranesimo: in esso ci sarà molto agostinismo, ma non il tutto Agostino).
Agostino insiste nel dire che la natura umana corrotta, di per sé, non merita che la dannazione, mentre Dio può liberamente concedere la sua misericordia a chi vuole, al di là di quella che sarebbe la pura giustizia.
Queste affermazioni in cui Agostino, per ragioni polemiche, accentua a volte unilateralmente un aspetto della questione, daranno luogo a discussioni teologiche che ancor oggi non si sono sopite. Qui però, vogliamo limitarci a considerare un aspetto filosofico della questione per cui la dottrina agostiniana della grazia dev'essere considerata essenziale per capire la natura stessa della libertà.
Se la grazia fosse un'azione esercitata esternamente da Dio sul volere, avrebbero ragione i pelagiani nel dire che essa sopprime la libertà.
Ma, a dire il vero, quella che teologicamente si chiama "grazia" è, piuttosto, ciò che dà alla volontà la capacità di volere liberamente: e questa è un'attitudine che la volontà finita non può darsi da sé. Il pensiero di Pelagio è che, dal momento che siamo liberi, per essere buoni basta volere: ma in mille occasioni noi constatiamo di non riuscire, precisamente, a volere.
Quando siamo trascinati dagli impulsi naturali, non siamo noi che vogliamo: la nostra volontà non è che uno strumento di forze ad essa esteriori.
Volere liberamente, indipendentemente dagli impulsi naturali, richiede una capacità tutta particolare, una forza che non è soltanto naturale, perché la natura non potrebbe produrre da sé la libertà.
Questa forza si può chiamare "grazia", appunto perché siamo incapaci di darcela e di meritarcela interamente da noi.
E la grazia ci rende liberi, perché ci permette di cominciare a volere: senza di che non avrebbe senso dire "basta volere", dal momento che appunto il volere può mancarci. Agostino, con la dottrina della grazia, sottrae la libertà a quell'astrattezza in cui l'avevano collocata gli stoici.
Anche secondo gli stoici per essere liberi basta volere: ma allora non si spiega perché sia tanto difficile raggiungere la libertà del saggio. Il fatto è che la nostra volontà è un principio libero che tuttavia non comincia da sé, non è un principio assolutamente primo.
È un potere d'iniziativa, ma un potere che non possiamo darci radicalmente da noi, perché non siamo noi il principio di noi stessi. Tanto meno possiamo essere fatti liberi da un'azione esterna: quindi possiamo essere fatti liberi solo da un principio che operi originariamente dall'interno, e questo principio per Agostino è Dio.
La situazione è qui esattamente la stessa che nel caso dell'illuminazione divina: in entrambi i casi l'azione di Dio è la condizione che ci costituisce come principi attivi, e quindi logicamente precede l'attività nostra.
È un dono in virtù del quale cominciamo ad esistere come persone, e che pertanto è più interno a noi, e più originario, di quanto noi siamo a noi medesimi. Anche nella dottrina della grazia, come in quella della natura e della conoscenza, è da notarsi la stretta dipendenza in cui Agostino pone la creatura rispetto al Creatore.
Quell'intrinseco comunicare della creatura con Dio che caratterizza l'agostinismo si estende da ultimo anche alla vita associata, nell'opera più vasta di Sant'Agostino: De civitate Dei, in 21 libri, scritta tra il 413 e il 426.
Occasione dell'opera fu il sacco di Roma da parte dei Goti di Alarico, nel 410. Pochi anni prima una polemica aveva opposto da un lato Simmaco - decano del senato e prefetto del pretorio - e, dall'altro, Sant'Ambrogio.
Il primo aveva rivolto una supplica a Valentiniano, Teodosio ed Arcadio Augusti, perché venisse restituita all'aula del Senato la statua della Vittoria (che per i pagani del patriziato romano era la "dea" Vittoria).
Simmaco aveva supplicato: "Chi è così amico dei barbari da non rimpiangere l'ara della Vittoria? Noi siamo pensosi delle future sorti dell'impero e temiamo che l'avvenuta rimozione di quell'ara possa essere per l'impero presagio di sventure. Si rendano almeno al nome della dea gli onori che sono negati alla dea stessa".
Poi venne Alarico. Questa attestazione impressionante del tramonto romano risvegliava in molti la convinzione che l'impero si fosse indebolito a causa del cristianesimo. Anche molti cristiani erano disorientati: "la città santa di Pietro e Paolo è caduta nella mani di barbari eretici ariani: Dio ha forse abbandonato i suoi figli?" Moltissimi fuggiaschi dalla "città eterna" erano giunti anche sulle coste dell' Africa e raccontavano della fine del mondo ormai prossima: Roma è morta! Agostino non mancò di rispondere a critici e disorientati in molti sermoni ed epistole.
Nel Sermo 296 esclama: "Roma subisce tanti mali, dove sono le memorie degli apostoli? - Sono là, sono là, ma in te non ci sono. Oh se fossero in te, chiunque tu sia a parlare così, chiunque tu sia a dire codeste scemenze, chiunque tu sia che chiamato a vita spirituale hai gusti materiali. Oh se in te fossero le memorie degli apostoli! Vedresti se fu loro promessa una felicità terrena, oppure eterna". E più oltre incalzando: "Ma tuttavia, dici, io non lo volevo - Che cosa non volevi? - Non volevo che Roma patisse tali cose. - Concediamo che tu non volevi: non arrabbiarti con Dio perché lo voleva. Egli non ti condanna per il tuo non voglio e tu imprechi il suo voglio". Nel Sermo 81 aggiunge: "Si dice: nel tempo cristiano Roma va in rovina. Forse Roma non va in rovina; forse è stata flagellata, non uccisa; forse è stata castigata, non distrutta. Forse non va in rovina se non vanno in rovina i romani. I romani infatti non andranno in rovina, se loderanno Dio; andranno in rovina se bestemmieranno. Perché che cosa è Roma, se non i romani?".
Ma è difficile comprendere nell'angustia del momento, mentre nuove minacce premono. E Agostino invita tutti, prima di chiedersi quale sia il consiglio di Dio, a riflettere sulla propria libertà e ad essere pazienti: "Sii paziente, lo vuole il Signore. Domandi perché lo vuole? Prolunga lo studio della conoscenza, prolunga la bravura, preparati ad obbedire. Egli vuole che tu sopporti ciò che vuole. Sopporta ciò che vuole e ti darà ciò che vuoi".
È su questo argomento che nasce il De civitate Dei, la città di Dio, che presto, pur appesantita dai tradizionali argomenti apologetici e antipagani, finì col trasformarsi in una grandiosa visione della storia umana come storia della Provvidenza.
Gli uomini, che vivono dapprima senza legge, si rafforzano sotto il dominio della legge, ma raggiungono il loro vero scopo solo quando passano dal dominio della legge a quello della grazia. L'impero romano è l'esempio più perfetto di organizzazione politica sotto la legge: ma esso, come tutte le organizzazioni politiche mondane, non è che uno strumento per un fine più alto; e solo un amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio può farci scambiare questo strumento per un fine in se stesso. In tal caso la società civile diventa una civitas diaboli, e il potere politico un "grande latrocinio".
La civitas Dei, al contrario, si fonda sull'amore di Dio fino al disprezzo di sé e riunisce tutti i fedeli nel fine supremo della vita eterna.
Nella "città di Dio" è la pace; nella città mondana è la guerra, e la pace sociale, per quanto necessaria alla convivenza, resta sempre subordinata alla guerra.
Poiché tuttavia la città di Dio si realizzerà pienamente solo nell'aldilà, anche la città terrena ha qui una sua funzione: quella appunto di permettere ai consociati di perseguire, nelle migliori condizioni possibili, il bene spirituale.
Per questo anche la storia mondana, che culmina nell'organizzazione politica di Roma, rientra nel piano provvidenziale, come preparazione di condizioni di vita atte all'avvento della grazia.
Le due città, dei reprobi e degli eletti, coesistono quindi sulla terra, mentre saranno divise dal giudizio finale.
Esse rappresentano una contrapposizione ideale tra due modi di concepire la vita associata: l'uno, che fa dei beni materiali il fine supremo, sovvertendo l'ordine dei valori; l'altro che riconosce in essi, e nella politica che ne ha cura, un mero strumento di fini spirituali.
Sant'Agostino può dirsi la "cerniera" tra l'antichità e il Medioevo, sia per il pensiero, sia per l'organizzazione della vita associata. Uno dei motivi fecondi che egli lascia in eredità alla filosofia posteriore è quello dell'interiorità: la verità abita in noi e la nostra anima ha la stessa forma trinitaria della divinità.
Il nucleo dell'agostinismo può esprimersi così: la vera vita di tutte le cose è Dio. Pur avendo una certa autonomia, le creature vivono solo grazie al contatto con Dio: e si può dire che da Dio si stacchino solo nella misura in cui non sono. Del resto, è inevitabile che per molti aspetti le creature non siano: perché altrimenti non si distinguerebbero da Dio.
Perciò Dio, presente in ogni cosa, è tuttavia anche infinitamente lontano e trascende tutto ciò che la mente può concepire.
La pretesa di vedere tutto, e di escludere ciò che non giungiamo a vedere, per Agostino sarebbe la negazione di Dio e porterebbe a non capire neppure ciò che crediamo di sapere. Quando questo aspetto della dottrina sarà trascurato (come vedremo, nel caso di Scoto Eriugena). l'agostinismo ne risulterà radicalmente falsato.
L'inevitabilità dei due momenti - la necessaria presenza di Dio alle creature, e la sua trascendenza infinita - rende necessaria una mediazione. che ponga la natura in contatto con il soprannaturale e sia veicolo della "grazia". Tale mediazione diviene esplicita con la venuta del Cristo e con l'istituzione della Chiesa come "corpo mistico di Cristo": ma anche alla stessa natura è già necessaria la presenza efficace del soprannaturale.
Questo concetto resterà dominante nel Medioevo cristiano fino a quando, nel secolo XIII, non si avrà una tendenza (accolta nel cristianesimo soprattutto da San Tommaso d'Aquino) ad attribuire alla natura un'indipendenza relativamente maggiore, conseguente alla creazione: e allora l'agostinismo verrà a trovarsi di fronte un diverso modo di concepire la sacralità del creato.
Ma l'agostinismo non solo offrirà allo stesso tomismo (pur nella diversità degli atteggiamenti) spunti e dottrine, ma continuerà a vivere, come metafisica. in filosofie diverse: ad esempio come dottrina della "creazione continua" del mondo da parte di Dio, in Cartesio e in altri; come dottrina della conoscenza, in molti seguaci di Cartesio; come visione della vita e della filosofia in Pascal. ecc.
Esso costituirà, così, uno dei filoni principali della filosofia moderna.
Nel difendere come vescovo l'unità della Chiesa, egli pose inoltre le basi della concezione, ereditata poi dal Medioevo, dei due poteri universali, la Chiesa e l'Impero, entrambi di origine divina, ma con ambiti e competenze diversi.