Nel proemio dei Topici Aristotele contrappone al sillogismo dialettico la dimostrazione sillogistica come il metodo proprio della scienza:
«Si ha da un lato dimostrazione, quando il sillogismo è costituito e deriva da elementi veri e primi, oppure da elementi siffatti che assumano il principio della conoscenza che li riguarda attraverso certi elementi veri e primi. Dialettico è d’altro lato il sillogismo che conclude da elementi fondati sull’opinione».
Perciò il sillogismo della dimostrazione deve sorgere in primo piano nei confronti di quello dialettico come indica l’inizio dei Secondi Analitici:
«La questione se il sapere possa venir considerato anche in altro modo, sarà trattata più oltre; ora però chiamiamo sapere il conoscere mediante dimostrazione. Per dimostrazione, d’altra parte, intendo il sillogismo scientifico e scientifico chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di possederlo, noi sappiamo».
Questa disciplina che studierà la struttura e il metodo della dimostrazione scientifica dovrà dunque essere molto più rigorosa e assoluta che non la dialettica.
Per essa dunque Aristotele forgia un nuovo termine, quello di scienza analitica.
La logica dovrà dunque essere, secondo i Secondi Analitici, la dissezione del procedimento scientifico nei suoi elementi costitutivi, cioè la dissezione della dimostrazione, che è il nocciolo del procedimento scientifico.
Aristotele avverte subito, già dalle prime righe dei Secondi Analitici, che ogni dimostrazione deve necessariamente partire da conoscenze già precedentemente acquisite, che ne costituiscono le premesse.
E, nel cap. 6 del libro I, egli precisa che la dimostrazione scientifica, dovendo avere carattere di necessità, deve sempre partire da premesse necessarie.
Come giungiamo, infatti, alla intellezione di quei principi primi la cui conoscenza assoluta è indispensabile per la effettuazione delle dimostrazioni della scienza?
Platone aveva risolto il problema attraverso il mito della reminiscenza, ma Aristotele deve ora affrontare la questione sul rigoroso terreno della scienza.
Per Aristotele la comprensione dei principi primi della scienza è un atto di intellezione o d’intuizione (noũs) che non può essere di natura dimostrativa perché precede ogni dimostrazione, e come tale esso resta al di fuori della scienza propriamente detta:
«Dato che i principi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d’altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i principi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere come oggetto i principi».
Questa teoria del noũs come intuente i principi primi della scienza non va però affatto intesa nel senso di un innatismo, o di un platonismo, come se il noũs apprendesse i principi per una sorta di introspezione.
Nella Repubblica Platone offre in verità un importante tassello al processo aristotelico della conoscenza dei primi principi quando stabilisce i quattro gradi della conoscenza.
Se i due gradi legati alla doxa mostrano i segni del discredito nel quale Platone relega la conoscenza sensibile, i due gradi successivi, l’epistème, sono legati il primo al metodo geometrico e il secondo alla dialettica il cui fine è il riconoscimento dell’archè.
Dunque il problema dell’intuizione dei principi primi trova qui un primo svolgimento, sebbene segnato dal ruolo della reminiscenza, unica in grado di far spiccare il volo della conoscenza.
Al contrario, per Aristotele, il noũs è puramente ricettivo delle forme che conosce (dektikòn toũ eídous), così come la sensazione lo è rispetto agli oggetti sentiti (De An., III, 429 a 15-18); e, soprattutto, il noũs non può intendere nulla se non partendo dalla sensazione, dall’aísthesis.
Giungiamo, così, al nocciolo della questione: senza un atto intellettivo-intuitivo (noũs) estraneo alla dimostrazione scientifica non si possono raggiungere i principi della scienza e non si può avere quindi dimostrazione scientifica; però quest’atto intellettivo-intuitivo si accende solo se è sollecitato da un processo di sensazioni che lo mette in moto.
Questo è appunto il fondamentale procedimento, insieme induttivo e intuitivo, che Aristotele descrive in un importante luogo dei Secondi Analitici, per spiegare la questione cruciale dell’acquisizione dei principi primi:
«Dalla sensazione si sviluppa dunque ciò che chiamiamo ricordo, e dal ricordo spesso rinnovato di un medesimo oggetto si sviluppa poi l’esperienza ... In seguito, sulla base dell’esperienza, ossia dell’intero oggetto universale che si è acquietato nell’anima, dell’unità al di là della molteplicità, il quale è contenuto come uno e identico in tutti gli oggetti molteplici, si presenta il principio dell’arte e della scienza: dell’arte, riguardo al divenire, e della scienza, riguardo a ciò che è».
Abbiamo parlato sin ora genericamente dell’intellezione dei principi della scienza, ma nei Secondi Analitici, Aristotele distingue nettamente due sorta di principi: quelli comuni (koinà) e quelli propri (ídia).
Ogni dimostrazione può infatti partire o da principi comuni a tutte le scienze o a tutti i casi di una determinata scienza, oppure può invece partire dai principi propri di una sola scienza, o di alcuni casi di quella data scienza.
Un esempio di principio comune è il seguente: se da oggetti uguali si sottraggono rispettivamente oggetti uguali, gli oggetti rimanenti sono eguali; esempi invece di principi propri sono: la linea ha una natura cosiffatta, la nozione di retto ha una natura cosiffatta, ecc. (Anal. post., I, cap. 10).
Partendo dai principi comuni si ha una «dimostrazione universale», partendo da quelli propri si ha una «dimostrazione particolare»; nel cap. 24 del libro I dei Secondi Analitici Aristotele mostra come da un lato la dimostrazione particolare appaia preferibile a quella universale:
«ad esempio, noi possediamo un grado maggiore di conoscenza rispetto all’artista Corisco, quando sappiamo che Corisco è artista, piuttosto che non quando sappiamo che l’uomo è artista»;
dall’altro, però, come la dimostrazione universale appaia invece migliore di quella particolare, perché, essendo più vasta, essa include in sé anche le dimostrazioni particolari.
La questione suddetta del cap. 24 del libro I dei Secondi Analitici mostra come centrale il problema che Aristotele discute anche nel libro primo dei Topici: quello, cioè, dei rapporti tra il genere (génos) e il proprio (ídion).
Se pur è vero che Aristotele va considerato il primo creatore della logica, è però altrettanto vero che egli vi giunse partendo da una disciplina che a Platone, soprattutto all’ultimo Platone del Parmenide e del Sofista, era molto familiare, cioè la dialettica; e insieme da quell’altra disciplina che con la dialettica era per tradizione intimamente connessa, cioè la retorica.
Platone aveva avversato la retorica in quanto strumento del ragionamento sofistico; però nello stesso tempo ne aveva avvertito il fascino e, trasportandola dal campo mutevole dell’opinione al campo stabile della scienza, l’aveva trasformata in dialettica, cioè nella dottrina che esprime le relazioni vicendevoli tra le idee eterne.
Aristotele non poteva quindi se non procedere dalla dottrina delle idee e dal binomio dialettica-retorica della tradizione sofistica e platonica.
Negli otto libri dei Topici ci troviamo di fronte a una dottrina ben circostanziata, ormai diversa dalla dialettica dell’ultimo Platone.
Il primo punto di distacco dalla dialettica platonica lo incontriamo anzitutto nella concezione stessa della struttura logica dell’universale (prescindendo, per ora, dalla sua struttura metafisica).
Platone aveva sostanzialmente ipostatizzato nel rango delle idee ogni rappresentazione universale, senza distinguere dalle rappresentazioni essenziali quelle rappresentazioni che, pur essendo universali, sono puramente accidentali e inessenziali (ad es., la rappresentazione dello star seduto, pur potendo appartenere universalmente ad ogni uomo, è però inessenziale ad esso).
Aristotele comincia col rompere questo processo indistinto di ipostatizzazione, distinguendo ciò che è veramente universale da ciò che è invece soltanto accidentale:
«Accidente … è ciò che può appartenere e non appartenere a un solo e medesimo oggetto, qualunque esso sia. Ad esempio, lo star seduto può appartenere e non appartenere a un medesimo oggetto. Così pure il bianco: nulla infatti impedisce che lo stesso oggetto sia ora bianco, ora per contro non bianco».
Quindi, se gli universali esprimenti le diverse essenze della realtà devono potersi distinguere tra loro, non vi può essere né vera identità né vera differenza tra le determinazioni accidentali e quindi il vero universale deve sorgere soltanto su note distintive non accidentali:
«Occorre esaminare se la differenza appartenga per accidente all’oggetto definito. In realtà, nessuna differenza è compresa tra le determinazioni accidentali, come non lo è il genere; non è difatti possibile che la differenza appartenga e non appartenga a qualcosa».
Per Aristotele possono dunque considerarsi veri universali soltanto quelli che «appartengono per necessità ai loro oggetti».
Il vero universale non è più quindi, per Aristotele, qualsiasi rappresentazione astratta, come per Platone, bensì soltanto quella che esprima non un accidente (sumbebekòs), ma l’essenza individuale dell’oggetto, che egli designa, con termini che meglio vedremo a proposito della Metafisica, come l’ousìa o il tì en eìnai dell’oggetto.
La formulazione di questo autentico universale è la definizione (orismòs):
«La definizione è un discorso che esprime l’essenza individuale oggettiva. In tal caso si fornisce o un discorso in luogo di un nome, o un discorso in luogo di un discorso: è infatti possibile definire altresì qualcosa tra quanto si esprime in un discorso».
Questo concetto aristotelico di definizione è evidentemente connesso a una nuova metafisica e a una nuova psicologia, che non sono più quelle platoniche.
Metafisicamente il concetto di definizione presuppone la teoria aristotelica secondo cui l’essenza di ogni cosa è sempre una forma individualizzata, (libro XIII della Metafisica), in opposizione alle idee generiche di Platone; per cui quando Aristotele usa, ad es., l’espressione «essenza individuale dell’uomo», intende dire che il concetto dell’uomo è ciò che è sempre stata (tò tì en eìnai) la sua essenza specifica.
Psicologicamente il concetto di definizione presuppone la teoria di una conoscenza formale, distinta dalla conoscenza puramente sensibile:
«Se l’apprendere», si legge nei Topici, «si dice in più sensi, con riferimento all’animo oppure al corpo, anche ciò che è privo della capacità di apprendere si dirà in più sensi, con riferimento all’anima oppure al corpo».
Questa metafisica dell’essenza individuale e questa psicologia, si trovano espresse appunto nei libri della Metafisica e nel terzo libro del De Anima.
Secondo questa psicologia, è anzitutto esclusa una conoscenza concettuale che si fermi alla sola sensazione.
Aristotele riconosce che anche la sensazione ha a che fare con universali, giacché noi conosciamo sensitivamente non l’essenza individuale di una cosa, bensì le sue qualità (che sono caratteristiche universali).
Però la sensazione non è capace di intendere la necessità della presenza di questi universali, perciò essa, pur percependo un oggetto singolo e cogliendone le qualità universali, è incapace di comprendere il nesso necessario tra l’universalità e l’individualità: e proprio in questo invece s’è detto che risiede la caratteristica dell’autentico universale:
«poiché si percepisce bensì l’oggetto singolo, ma la sensazione si rivolge all’universale, per esempio, all’uomo, non già all’uomo Callia».
Perciò, la sensazione conosce sempre soltanto un tale (toiònde), mai un questo (tòde); solo la definizione può cogliere l’essenza del questo.
Ciononostante la sensazione costituisce sempre la base sulla quale sorge poi la definizione concettuale, la quale è sempre composta di un’immagine (fántasma) depurata dell’elemento sensibile (áneu yles, cioè priva di materia).
In questo modo il punto di partenza delle indagini logiche di Aristotele fu proprio costituito dall’insorgere dell’esigenza della specificazione, della determinazione circostanziata nell’àmbito dell’universale.
Questa esigenza deriva indubbiamente dal bisogno, sorto già nell’ultimo Platone, del distinguere (diaireĩn) e definire.
I cardini di questa specificazione dell’universale, come già indicato, sono due: il genere e il proprio.
Per genere Aristotele intende una qualità essenziale a parecchie cose, le quali vengono quindi sussunte sotto di esso; specificazioni del genere sono le specie (eíde), meno estensive del genere:
«genere è il predicato, immanente all’essenza, di parecchi oggetti differenti per specie»;
e:
«del genere e delle differenze constano le specie» (cioè le specie sono delle porzioni di un genere caratterizzate da differenze specifiche).
Per proprio Aristotele invece intende quelle caratteristiche tipiche delle singole realtà, le quali possono individuarne le diverse strutture individuali; il proprio non ci dà ancora la definizione dell’essenza individuale, perché non coglie ancora il nesso necessario tra l’individuale e il genere, però ce ne individua la fisionomia e ci indica i tipici predicati:
«proprio è ciò che pur non rivelando l’essenza individuale oggettiva, appartiene tuttavia a quell’unico oggetto, e sta rispetto ad esso in un rapporto convertibile di predicazione».
Al genere e al proprio si contrappone l’accidente, giacché solo eliminando l’accidentalità dalla determinazione concettuale si può ottenere quella definizione scientifica della quale egli andava in cerca.
Perciò il genere, il proprio e l’accidente sono le tre basi del processo della definizione: la definizione deve anzitutto trovare il proprio che appartiene unicamente all’oggetto in questione; quindi mostrare a quale genere esso appartiene e infine che esso non vi appartenga quale semplice accidente.
Per questo i tre libri centrali dei Topici, cioè il IV, V e il VI sono dedicati appunto al genere, al proprio e alla definizione.
Se il genere e il proprio sono i due elementi costitutivi della definizione, le funzioni che attraverso essi si esprimono sono le tipiche funzioni platoniche dell’identità e della differenza.
Ma, pur riprendendo i termini platonici, Aristotele introduce anche qui la sua tipica esigenza della specificazione: perciò egli esclude tutto l’aspetto matematico-pitagorico, proprio del platonismo, dal concetto di identità e immette la funzione dell’identità e della differenza dentro alla logica positiva del genere e del proprio:
«Si ha identità numerica, quando i nomi sono parecchi, ma la cosa è una sola, ad esempio mantello e soprabito. Identità specifica spetta invece a quegli oggetti, che pure essendo parecchi non rivelano differenze quanto alla specie, cosi come un uomo è identico ad un uomo, e un cavallo a un cavallo ... Analogamente, identità generica si ha poi tra quegli oggetti che rientrano in un identico genere, ad esempio tra un cavallo e un uomo».
Naturalmente, le identità che interessano la definizione sono soltanto quelle relative al genere e alla specie, per quanto l’origine del termine identità sia numerica (151 b 28).
La differenza massima tra due essenze individuali è poi quella che si ha tra i contraddittori (antikeímena), i quali, esprimendo un’opposizione che è insieme formale e materiale, non ammettono un mezzo tra di loro.
Minor opposizione si ha invece nel caso che, anziché contraddizione vi sia soltanto privazione (stéresis), giacché la privazione è «una contraddizione di una certa natura, o un’incapacità che è del tutto determinata, ovvero è presa insieme a ciò che può riceverla» , e quindi, a differenza della contraddizione, la privazione ammette un mezzo.
Infine il rapporto tra i contrari (enantía) è un caso estremo di privazione, dove l’opposizione è solo formale e quindi ammette un mezzo tra i contrari (a differenza della contraddizione), ma tuttavia tale opposizione formale è assoluta.
Parte del libro II dei Topici è appunto dedicata allo studio del comportamento dei contrari.
Ancora una volta, è innegabile che la sorgente delle questioni logiche attinenti alla definizione, e dunque al processo di acquisizione dell’individuale, è ancora quello platonico e accademico della dottrina delle idee, anche se qui non si tratta più di idee, ma di definizione di universali specifici.
Non c’è quindi da meravigliarsi che le riflessioni ora esaminate conducano, attraverso lo studio dei rapporti tra genere, specie e proprio, a una gerarchizzazione degli universali, i quali risultano così ordinati tra loro secondo il concetto platonico della partecipazione, che affiora esplicitamente all’inizio del libro IV dei Topici:
«Il partecipare si definisce come l’accogliere il discorso definitorio di ciò che è partecipato. E dunque evidente che le specie partecipano dei generi, ma che i generi non partecipano della specie: la specie infatti accoglie il discorso definitorio del genere, mentre il genere non accoglie quello della specie».
In questo modo viene a incorporarsi nella logica aristotelica l’idea di un certo numero di universali, che sarebbero i più generali di tutti: idea tipicamente platonica, elaborata nell’ambiente della prima Accademia.
A questi universali più generali Aristotele dà il nome di categorie, o predicabili, e ne tratta nel cap. 9 del libro I dei Topici, elencandoli in numero di dieci:
«Essi sono dieci di numero, esprimendo dell’oggetto: che cos’è, che è una quantità, che è una qualità, che è rispetto a qualcosa, che è in un luogo, che è in un tempo, che è in una situazione, che ha, che agisce, che patisce. L’accidente, il genere, il proprio e la definizione saranno infatti sempre in una di queste categorie: tutte le proposizioni costituite da siffatti elementi significano invero o che cos’è l’oggetto, oppure che ha una qualità, oppure che ha una quantità, oppure una delle altre categorie».
Per Aristotele la logica della scienza, deve essere denominata analitica; si dovrà giungere fino a Cicerone per il latino e ad Alessandro di Afrodisia per il greco, per incontrare il termine "logica" usato nel senso moderno, per cui Aristotele usava invece il termine analitica.
A differenza di Platone, Aristotele visse veramente il dramma della specificazione e individuazione dell’universale, cioè della mediazione tra il genere e il proprio.
Il problema di questa mediazione è, in sostanza, il problema stesso della dimostrazione, che per Aristotele è costituita dal sillogismo.
Il sillogismo consiste infatti, appunto, nel trovare un termine medio tra un soggetto e un predicato.
Ad esempio, per mostrare l’appartenenza al soggetto Socrate (A) del predicato mortale (C) occorre trovare il medio, uomo (B), il quale è un concetto che può essere tanto predicato di A quanto soggetto di C , e può quindi mediare i due termini, rendendo necessaria la loro concatenazione.
Perciò la scienza della dimostrazione, è in sostanza, la scienza dei termini medi.
«La prontezza deduttiva è una certa abilità di cogliere istantaneamente il medio. Tale abilità si presenta, ad esempio, nel caso in cui, vedendo che la parte illuminata della luna sta sempre rivolta verso il sole, qualcuno coglie d’un tratto il perché delle cose, ossia comprende che ciò si verifica, poiché la luna riceve la sua luce dal sole ... Indichiamo con A: avere la parte illuminata rivolta verso il sole; con B: essere illuminato dal sole; con C: luna. Allora a C, cioè alla luna, appartiene B, cioè l’essere illuminato dal sole; ma a B appartiene A, cioè avere la parte illuminata rivolta verso ciò, da cui si riceve la luce: di conseguenza, A apparterrà anche a C, mediante B».
La dimostrazione, dunque, conclude Aristotele, «si riduce alla ricerca del medio».
Ma il medio con la sua gerarchia di appartenenze entra esattamente nello specchio metafisico della determinazione e specificazione dell’individuale.
L’ultimo Platone aveva affidato, ancora una volta, al mito il problema, nel Timeo.
Il demiurgo, in quanto mediatore tra la materia e le idee dà ordine forma e misura e plasma la materia a immagine e somiglianza delle idee, subordinando l’individualità all’attività plasmatrice da lui compiuta.
Aristotele vuole uscire dalla strutturazione dialettico-diairetica di Platone e cerca la mediazione non nel mito ma nel concreto delle forme che si presentano alla realtà.
Anche qui, in realtà, il Platone del Sofista aveva già compiuto un cammino importante.
Nel descrivere il metodo diairetico egli sottolinea che è necessario operare le divisioni seguendo i caratteri propri delle realtà stesse, come un macellaio divide con cura le parti di un animale.
Immagine che già lascia presagire l’organica trattazione del genere, del proprio e dell’accidente, in vista della differenza specifica e il loro gioco di rimandi e appartenenze gerarchiche secondo il principio della partecipazione.
Quello che però sembra essere il centro della meditazione aristotelica in realtà scaturisce dal dialogo fittissimo intessuto ancora una volta con Platone, soprattutto in rapporto all’individuazione della realtà.
Come già asserito, Aristotele ha vissuto con grande trasporto il problema di come i concetti più generali che Platone aveva collocato nel mondo delle idee possano essere efficaci nella spiegazione del mondo reale dell’esperienza, fatta di individui.
Il problema della sillogistica e del termine medio certamente non è estraneo a questa esigenza speculativa fondamentale.
Soprattutto quando il tema si posta verso il sillogismo dialettico e induttivo.
Ma procediamo nella ricognizione all’interno delle opere aristoteliche.
Anche i Primi Analitici si propongono la trattazione del procedimento dimostrativo, della apódeixis.
Ma il modo in cui intendono condurre la trattazione è diversissimo: «La via suddetta», scrive ora Aristotele, «risulta la medesima per tutti i campi, e riguarda sia la filosofia sia qualsiasi arte o dottrina».
Si tratta non più di indagare i presupposti o i risultati della apódeixis, bensì di studiare in maniera puramente formale tutte le diverse maniere e presentazioni dei vari tipi di sillogismi, a cominciare dai diversi tipi delle loro premesse.
In questo modo, la tecnica che così si acquisterà, pur rendendo conto delle diversità tra scienza, dialettica e retorica, sarà però nelle sue linee generali valevole per ogni tipo di discorso:
«La premessa dimostrativa differisce da quella dialettica, in quanto la premessa dimostrativa è l’assunzione di una delle due parti della contraddizione (chi dimostra infatti non interroga, bensì assume), mentre quella dialettica è la domanda che presenta la contraddizione come un’alternativa. Non vi sarà tuttavia alcuna differenza tra i due casi, per quanto riguarda la costruzione del sillogismo: in effetti, sia chi dimostra sia chi interroga deducono il sillogismo, stabilendo che qualcosa appartiene oppure non appartiene a qualcosa».
I Primi Analitici, sono collegati al breve trattato aristotelico De Interpretatione, come ordine logico di pensieri.
Come infatti i Topici sviluppano la teoria dei concetti universali, e propri, cosi il De Interpretatione sviluppa la teoria della proposizione (prótasis) ovvero del giudizio.
Tuttavia la teoria della proposizione del De Interpretatione differisce fondamentalmente da quella dei Primi Analitici.
Nel De Interpretatione infatti Aristotele non distingue sempre nettamente la copula della proposizione dal soggetto e dal predicato.
Nei Primi Analitici invece la copula è sempre staccata e considerata non incidente sui due elementi fondamentali della proposizione, che sono il soggetto e il predicato.
Perciò, mentre nel De Interpretatione la divisione fondamentale tra le proposizioni è quella tra proposizioni positive e negative, nei Primi Analitici la forma fondamentale della proposizione è sempre quella: A è B equivalente a: B appartiene ad A, mentre la divisione fondamentale è quella tra proposizioni universali, particolari e indeterminate (a seconda che esprimano l’appartenenza ad ogni oggetto, ad un solo oggetto o ad un solo numero indeterminato di oggetti), cioè è una differenza quantitativa.
Secondo i Primi Analitici, dunque, poiché ciò che conta in una proposizione è il rapporto di appartenenza dei due concetti presenti in essa, ciò che conterà nel sillogismo, che è l’unione di due proposizioni al fine di dedurne una terza, saranno appunto i rapporti di appartenenza fra i concetti delle due proposizioni che fungono da premesse.
Siccome queste due premesse devono avere uno dei loro concetti in comune (il cosiddetto medio), ne consegue che i concetti su cui opera ogni sillogismo dovranno sempre essere non più e non meno di tre.
E, come nei Secondi Analitici, qui ancor più è il medio quello che costituisce il perno e la caratterizzazione di ogni sillogismo.
Le diverse forme di sillogismo si distinguono infatti a seconda dei diversi tipi di appartenenza in cui viene a trovarsi il medio; e questi tipi sono fondamentalmente tre.
Ossia il medio può essere soggetto del termine maggiore (cioè più universale) e predicato di quello minore; oppure può essere predicato di entrambi; oppure può essere soggetto di entrambi.
Ciascuna di queste tre figure fondamentali di sillogismi si presenta poi diversamente a seconda che le premesse siano universali o particolari, affermative o negative, necessarie o contingenti; e alla distinzione e caratterizzazione di tutte le figure di sillogismi che ne derivano, sia quelle autentiche sia quelle false, è appunto dedicata la maggior parte di entrambi i libri dei Primi Analitici.
Aristotele cerca di ricollegare la teoria della dimostrazione, che egli ha svolto nel primo libro dei Secondi Analitici, con la sua teoria della definizione, punto di partenza delle sue ricerche logiche nei Topici.
Come opera di dialettica, i Topici non si occupano della verità assoluta, sulla quale non è possibile discussione e che quindi non interessa la dialettica, bensì si occupano dell’opinione, in particolare di quelle opinioni che siano degne di nota:
«una proposizione dialettica è cosi una domanda fondata sull’opinione o di tutti o della grande maggioranza, o dei sapienti, e tra questi, o di tutti o della grande maggioranza, o di quelli oltremodo noti».
Pertanto, questa metodologia costituirà una branca diversa dello scibile non già in quanto tratta di argomenti metafisici, bensì in quanto tratta delle discussioni, dei discorsi (lógoi), insomma di tutto ciò che riguarda il dibattito (tà logiká) e che la tradizione attribuiva alla dialettica e alla retorica.
Questa è appunto la posizione che Aristotele determina nel primo libro dei Topici:
«Alle proposizioni e alle formulazioni di una ricerca si applica poi ... una tripartizione. In effetti, alcune proposizioni sono etiche, altre fisiche, altre ancora logiche (logikaí). Un esempio di una proposizione etica è fornito dalla domanda se occorra sottomettersi all'autorità dei genitori piuttosto che non a quella delle leggi, quando vi sia un disaccordo tra i loro comandi; un esempio di una proposizione logica è dato dalla questione, se i contrari siano oggetto di una medesima scienza oppure no; un esempio di una proposizione fisica si ha quando si chiede se il mondo sia eterno oppure no».
Ciò a cui qui Aristotele dà il nome di proposizioni logiche (logikaí) non è quindi per nulla identico a ciò che noi intendiamo per logica, bensì esprime le discussioni, i lógoi propri delle tradizionali dialettica e retorica.
Il metodo della dialettica è identico a quello della retorica come ha dichiarato esplicitamente Aristotele nel cap. 3 del libro I dei Topici.
Vi è però una differenza fondamentale: mentre cioè la retorica è una pura arte del discutere, che non si preoccupa della fondazione della scienza, la dialettica invece cerca di discutere i principi delle scienze:
«Partendo infatti dai principi propri della scienza in esame, è impossibile dire alcunché intorno ai principi stessi, poiché essi sono i primi tra tutti gli elementi, ed è cosi necessario penetrarli attraverso gli elementi fondati sull'opinione, che riguardano ciascun oggetto. Questa per altro è l’attività propria della dialettica, o comunque quella che più le si addice: essendo infatti impegnata nell'indagine, essa indirizza verso i principi di tutte le scienze».
Il brano che abbiamo qui riportato è di grande importanza per intendere lo spirito di tutto lo sviluppo del pensiero logico di Aristotele.
Il problema che infatti qui si pone è quello, per lui fondamentale, dell’induzione: se la scienza può attuare le sue dimostrazioni soltanto partendo dai suoi principi fondamentali, come si fa a giungere alla conoscenza di questi principi?
La risposta nei Topici è offerta dall'induzione (epagogé), cioè risalendo dal particolare all'universale, con un metodo incerto e suscettibile di discussione, tipicamente dialettico.
Esso ha il vantaggio di essere il metodo tipico dell’uomo comune, mentre la dimostrazione deduttiva è riservata solo agli esperti: l’induzione è invece «qualcosa di più persuasivo, di più chiaro, di più conoscibile nella sfera della sensazione, e alla portata della grande maggioranza delle persone». Questo fascino del metodo induttivo sarà sempre fortemente sentito da Aristotele sino alla fine della sua produzione.
Egli sviluppò con cura particolare la tecnica deduttiva, tuttavia la molla più potente del suo pensiero logico fu sempre il problema di come giungere alla conoscenza dei principi primi, cioè di come attuare un’induzione basilare che stia a fondamento dell’edificio del sapere.
Aristotele ha ben chiaro che il metodo induttivo serve a fondare la possibilità di quell'altro metodo, che è lo strumento tipico della scienza, cioè la deduzione ovvero il sillogismo (syllogismós).
Aristotele fu in questo campo il creatore assoluto di una nuova tecnica; egli stesso aveva consapevolezza dell’assoluta originalità della sua scoperta del metodo della deduzione, e se ne vantava, nel finale delle Confutazioni sofistiche:
«Mentre riguardo ai discorsi retorici sussistevano già, sin dai tempi antichi, molti studi, sulla deduzione invece non avevamo prima d’ora assolutamente null'altro da ricordare».
E, tenendo conto di questa originalità, si può comprendere come i Topici si presentino sin dalle prime righe come «un metodo per poter costituire dei sillogismi».
Dunque per Aristotele, in virtù del peso che l’induzione assume nel suo pensiero, la logica della scienza e della verità non si distingue da quella dell’opinione, in quanto la sensazione comunque deve mantenere un ruolo decisivo nel punto di partenza della ricerca della definizione.
Per questo può affermare con chiarezza l’imprescindibilità dei procedimenti dialettici da quelli dimostrativi:
«È compito della stessa facoltà il discernere il vero e quello che è simile al vero; inoltre gli uomini sono sufficientemente dotati per il vero e raggiungono per lo più la verità: quindi il mirare alla probabilità e il mirare alla verità appartengono alla stessa disposizione».
Il problema è appunto l’argomento del secondo dei due libri dei Secondi Analitici.
È la stessa cosa, si chiede Aristotele, il condurre una dimostrazione e il raggiungere una definizione?
Evidentemente no; infatti una dimostrazione, s’è visto, può essere particolare, mentre una definizione deve sempre essere universale; inoltre una dimostrazione può essere negativa, mentre la definizione deve sempre essere affermativa.
Ma neppure tutte le dimostrazioni universali e affermative sono sempre definizioni; ad esempio, la dimostrazione che in ogni triangolo la somma degli angoli è uguale a due retti non conduce ad alcuna definizione.
Ma vi è un motivo più sostanziale che impedisce che la dimostrazione approdi alla definizione: la dimostrazione ci mostrerà sempre il perché di una cosa, ma mai la sua essenza; al contrario, la definizione mira proprio a conoscere l’essenza individuale di una cosa.
In effetti, se uno possiede già le premesse proprie della dimostrazione relativa a una data cosa, egli ne ha già la definizione senza il bisogno di sviluppare la dimostrazione:
«se entrambe le premesse esprimono l’essenza, anzi l’essenza individuale dell’oggetto, allora l’essenza individuale che si vuol provare sarà già stata riferita in precedenza al medio».
Dunque attraverso una dimostrazione sillogistica non è possibile giungere alla definizione.
D’altra parte, neppure attraverso l’induzione si può giungere a una definizione che esprima veramente l’essenza e non soltanto l’esistenza di una cosa:
«chi sviluppa un’induzione, infatti, non prova che cos'è un oggetto, ma mostra che esso è oppure che non è».
Aristotele davanti a questa difficoltà cerca di mostrare come si possa giungere alla definizione dell’essenza attraverso un procedimento combinato di deduzione e di induzione insieme.
Cioè, quando noi cerchiamo di dimostrare il perché di una cosa, necessariamente ne conosciamo già, sia pure in piccola parte, l’essenza; ora, nel renderci conto del suo perché, automaticamente noi veniamo a conoscerne meglio l’essenza:
«di conseguenza, nella stessa misura in cui sappiamo che un oggetto è, noi siamo pure in un certo rapporto con la sua essenza».
Per converso, quando attraverso l’induzione cerchiamo di giungere a stabilire l’esistenza di una cosa, automaticamente ne veniamo a conoscere meglio l’essenza:
«è infatti impossibile sapere che cos'è un oggetto, ignorando se esso sia».
In questo modo i Secondi Analitici giungono al riconoscimento della necessità della sintesi del metodo deduttivo con quello induttivo per poter ottenere la definizione.
Dunque nella sintesi induttivo-deduttiva l’aristotelismo cerca di superare definitivamente il sistema delle idee platoniche e cerca la fondazione del meccanismo che attraverso i generi e le specie fonda la costituzione della scienza sull'individualità del tòde tí.
In realtà il medio sillogistico dialettico essendo basato sull'opinione è lo strumento in grado di trasferire il fántasma nella definizione.
Si attua così l’inversione del processo messo in scena nel Timeo.
Il nuovo demiurgo è nel processo psicologico dell’intelletto che attraverso il processo deduttivo e induttivo coglie la mediazione che lega l’individualità colta attraverso la definizione e la definizone parte dalla differenza specifica che, come abbiamo già visto, appartiene al genere e da qui si giunge all’appartenenza della molteplicità reale degli individui ai generi sommi.
Ma, come abbiamo visto, vi è poi un altro motivo per cui l’induzione risulta necessaria a fondare la deduzione, cioè la necessità della conoscenza dei principi primi della scienza che si raggiungono solo attraverso l’intellezione-intuizione del noũs, la quale si accende soltanto in seguito all’esperienza risultante dalla ripetizione delle sensazioni.
Gadamer ha descritto con grande efficacia il passaggio del metodo aristotelico verso i principi:
«Come nasce in realtà questa universalità della nozione di principio? – Ecco – egli dice – è come quando un esercito fugge davanti al nemico; e finalmente uno si gira a guardare se il nemico incalza, fermandosi. Gli altri intanto continuano a correre; poi un altro si guarda intorno e vede quel soldato che ha smesso di scappare perché il nemico è già lontano, e così – uno dopo l’altro – si voltano tutti quanti, fino a che le milizie obbediscono di nuovo al comando di uno solo. Per comando, la parola greca è ancora archè: «ciò che è primo,… e che domina».
Questa è dunque l’analisi logica di che cos’è filosofia, secondo la descrizione di Aristotele.
E in un certo senso questa induzione, che conduce all’universale, è proprio la stessa via percorsa dai dialoghi platonici, che muovono dal non-sapere alla visione di ciò da cui tutto dipende». (Hans Georg Gadamer)
Possiamo allora comprendere come le ultime righe che concludono i Secondi Analitici (che concludono, cioè, un trattato che si annunziava come una teoria della deduzione) siano invece una sostanziale glorificazione dell’intuizione (noũs) che sorge, come s’è detto, sulla base dell’esperienza:
«Ed allora, se oltre alla scienza non possediamo alcun altro genere di conoscenza verace, l’intuizione dovrà essere il principio della scienza. Cosi, da un lato l’intuizione risulterà il principio del principio, e d’altro lato la scienza nel suo complesso sarà in questo stesso rapporto rispetto alla totalità degli oggetti».
Per questo, i Secondi Analitici, si possono indicare come il momento più complesso dello sviluppo del pensiero logico di Aristotele.
Esso s’intende a fatica se lo si considera isolatamente, giacché i suoi problemi sono sempre protesi verso la metafisica o verso la psicologia: infatti la teoria dei principi comuni delle scienze è un aggancio evidente alla teoria dei due principi supremi (non-contraddizione e terzo escluso), argomento dell’XI e del IV libro della Metafisica; a sua volta la teoria del noũs è un evidente aggancio alla psicologia del III libro del De Anima.
Il proemio del primo libro della Retorica chiarisce la posizione del pensiero dialettico e retorico di Aristotele :
«La retorica è analoga alla dialettica: entrambe riguardano oggetti che, in certo modo, è proprio di tutti gli uomini conoscere e non di una scienza specifica. Perciò tutti partecipano in certo modo a entrambe; tutti infatti sino a un certo punto si occupano di indagare su qualche tesi o di sostenerla, di difendersi e di accusare. Sennonché la maggior parte fa ciò spontaneamente, alcuni invece lo fanno per una pratica che proviene da una disposizione».
In questa dichiarazione Aristotele ha ben chiaro il carattere formale sia della dialettica sia della retorica: la dialettica e la retorica non si occupano di nessuna delle scienze specifiche, bensì di quegli strumenti logici che sono comuni a tutte le discipline.
Nel libro I della Retorica, Aristotele afferma ripetutamente ciò:
«La retorica sembra poter scoprire ciò che persuade, per cosi dire, intorno a qualsiasi argomento dato; perciò affermiamo che essa non costituisce una tecnica intorno a un genere proprio e determinato» .
Già Platone, nel Gorgia, aveva individuato nella retorica una disciplina che non riguarda nessun argomento specifico, ma egli lo aveva fatto nell'intento di screditarla e di mostrarne il carattere inutile, capzioso e dilettantesco.
Aristotele invece sostiene che la retorica, pur avendo il carattere di una disciplina puramente formale, deve essere rigorosamente tecnica, e che il motivo del precedente discredito di essa era costituito appunto dal non essere stata sino allora veramente tecnica.
La tecnica retorica comprende poi, secondo Aristotele, tre parti distinte:
«Delle argomentazioni procurate attraverso il discorso tre sono le specie: le une risiedono nel carattere dell’oratore, le altre nel disporre l’ascoltatore in una data maniera, le altre infine nello stesso discorso, attraverso la dimostrazione o l’apparenza di dimostrazione».
Di queste tre parti, quella più tecnica e più connessa alla dialettica è naturalmente la terza, cioè la tecnica della dimostrazione.
L’organo di essa è il sillogismo dialettico, che Aristotele definisce «entimema» (enthúmema).
La trattazione delle tecniche dialettiche e retoriche non si trova solo nei Topici e nella Retorica, ma, per effetto di quella indisgiungibilità tra procedimenti deduttivi e induttivi, anche nei Primi Analitici.
Gli ultimi cinque capitoli del secondo libro di quest’ultima esorbitano dall'ambito della sillogistica deduttiva e affrontano l’esame delle forme logiche non-deduttive, essendo dedicati rispettivamente all'induzione, all'esempio, alla riduzione, all'obiezione e alla probabilità.
Con questi capitoli Aristotele ha inteso sostanzialmente includere nell'analitica anche le forme più tipiche della dialettica e della retorica:
«Dovremo dire ora che mediante le figure esposte in precedenza si sviluppano non soltanto i sillogismi dialettici ed i sillogismi dimostrativi, ma altresì quelli retorici, e in generale, si costituisce ogni forma di convinzione, qualunque sia la via di indagine seguita».
In particolare Aristotele mostra come l’induzione consista in un sillogismo che deduce, mediante uno degli estremi, il riferimento dell’altro estremo al medio: si stabilisce ad es. che gli uomini (medio B) sono mortali (estremo C) attraverso l’estremo A, cioè Socrate o altri casi particolari di uomini.
L'esempio invece «non passa dalla parte al tutto, né dal tutto alla parte, ma procede dalla parte alla parte, quando cioè entrambe le parti siano subordinate ad una medesima nozione, ed una delle due risulti nota».
Si ha invece la riduzione quando si riduce il secondo estremo sotto il collegamento, già accertato, tra il primo estremo e il medio; l’obiezione poi è «una premessa, che è contraria ad una certa premessa». Infine, nel campo della probabilità, Aristotele distingue il probabile dal segno:
«La premessa che esprime ciò che è probabile dovrà fondarsi sull'opinione: in realtà, probabile è appunto ciò che notoriamente per lo più si verifica o non si verifica in un certo modo, è oppure non è. Ad esempio, è probabile che gli invidiosi detestino, o che gli amati amino. La premessa che esprime un segno, invece, vuol essere dimostrativa, e può essere necessaria oppure fondata sull'opinione».
Queste due ultime premesse studiate nel finale dei Topici, cioè il probabile e verosimile (eikós) e il segno (semeĩon) costituiscono, due dei quattro luoghi fondamentali della argomentazione retorica, dei quali i primi tre (il verosimile, il segno e la prova) sono deduttivi, mentre il quarto, l’esempio (parádeigma), è quello costituente l’induzione retorica.
In questo modo la trattazione della Retorica si collega alla trattazione dei Primi Analitici.
Una delle caratteristiche fondamentali è costituita dalla forma del sillogismo retorico che include anche la sua forma induttiva.
Delle quattro premesse precedentemente citate, la prova (tekmérion) è l’unica che dia luogo a un sillogismo dimostrativo (apodittico): il verosimile dà luogo invece a un sillogismo anapodittico, in quanto non necessario; il segno è addirittura asillogistico, dando luogo a un sillogismo apparente; mentre l’esempio è anapodittico in quanto è induttivo.
Gli entimemi retorici non sono quindi altro che dei sillogismi le cui premesse mancano del grado sufficiente di certezza o di necessità, che possa farne degli strumenti di scienza e non soltanto di opinione.
Però, in quanto sillogismi dell’opinione, essi hanno pur una loro tecnica ben precisa, e perciò hanno pieno diritto, di cittadinanza nell’àmbito della disciplina metodologica.
Nel ventesimo capitolo del libro II Aristotele delinea molto chiaramente questa sua dottrina delle premesse retoriche:
«Poiché gli entimemi si traggono da quattro luoghi e questi quattro sono il verosimile, l’esempio, la prova e il segno: gli entimemi derivati da ciò che accade o sembra accadere per lo più derivano dai verisimili; quelli dall’induzione quando attraverso la somiglianza, o di uno o di più, si sia raggiunto l’universale e quindi se ne argomenta il particolare, si svolgono attraverso l’esempio; quelli che si basano sul necessario e sul costante, si svolgono attraverso la prova; quelli che si basano sulla realtà universale o particolare a seconda che vi sia o non vi sia, si svolgono attraverso segni».
Queste quattro premesse Aristotele le chiama anche luoghi (tópoi), in quanto le premesse più universali della retorica costituiscono quei luoghi (nel senso di schemi generali) di argomenti dialettici, che già appartenevano alla tradizione dialettica greca e dai quali avevano tratto nome i Topici.
Nei Topici i luoghi erano stati appunto indicati come «gli strumenti attraverso cui si costituiscono i sillogismi».
Aristotele compie ora una distinzione, che sarà poi grandemente ripetuta e sviluppata nella storia della retorica: quella tra luoghi comuni e luoghi propri.
Egli intende per luoghi comuni quelli in base ai quali «sarà possibile sillogizzare o formulare un entimema indifferentemente intorno alla giustizia non più che intorno alla fisica o intorno a qualsiasi argomento».
Sono invece luoghi propri quelli specifici delle diverse discipline; per cui partendo da un luogo proprio dell’etica non si potrà costituire un sillogismo in materia di politica, e viceversa.
I luoghi comuni sono destinati ad essere i più importanti nell’àmbito della retorica, per quanto Aristotele riconosca che sono i meno frequenti.
Essi però devono la loro minor frequenza al solo fatto che sono adoperabili soltanto in cause di carattere generale; tuttavia, relativamente a queste, hanno un autentico valore dialettico.
Invece i luoghi propri, che sono i più numerosi nella pratica retorica, hanno però lo svantaggio di essere imprecisi rispetto alle scienze specifiche che trattano gli stessi argomenti e sono quindi soppiantabili da esse.
Di qui deriva la superiorità dei luoghi comuni nell’àmbito della retorica.
La Retorica sviluppa infine, anche gli schemi della persuasione estranei all’argomentazione sillogistica: «Del fatto, poi, che gli oratori siano persuasivi le cause sono tre: tali sono le cause per cui crediamo, all’infuori delle dimostrazioni. Esse sono la saggezza, la virtù e la benevolenza ... I mezzi per cui si può sembrare saggi e onesti sono da trarsi dalle nostre distinzioni relative alle virtù ... Quanto alla benevolenza e all’amicizia, ne dobbiamo trattare parlando delle passioni».
In questo modo Aristotele introduce nella tecnica retorica anche gli schemi volti a mostrare il particolare atteggiamento (éthos) dell’oratore e a suscitare una data passione (páthos) nel pubblico.