La tradizione pittorica bizantina, che da tempo dominava incontrastata in Italia, viene abbandonata sul finire del XIII secolo.
Tale rinnovamento della cultura figurativa muove da tre distinti centri artistici, che in maniera autonoma ed adottando soluzioni diverse, superano i vecchi stilemi.
Non si può però escludere che il cantiere di Assisi, dove molti di questi artisti lavorarono, abbia favorito contatti ed influenze, ed il nascere di ricerche affini.
In ogni luogo si afferma infatti una nuova interpretazione dei soggetti religiosi, che ora vengono calati nella realtà terrena e si caricano di sentimenti umani.
A Roma Cavallini e Torriti recuperano la tradizione paleocristiana, mentre a Firenze Cimabue sostanzia la lezione bizantina attraverso l’accentuazione dei valori drammatici e plastici conosciuti nell’opera di Giovanni Pisano. A Siena, infine, Duccio accentua il carattere lineare delle forme e l’intensità del colore, con risultati che influenzeranno la produzione di Simone Martini e di Pietro e Ambrogio Lorenzetti.
La fama di Cimabue era già grande tra i suoi contemporanei, come dimostrano i celebri versi del Purgatorio di Dante, che lo descrive come un’artista di grande qualità, superato solo dalla maestria di Giotto.
Del suo contributo al rinnovamento della tradizione pittorica parla più tardi anche il Vasari, che apre con la sua biografia la serie delle Vite e scorge in lui l’inizio della rinascita delle arti, dopo la barbarie del Medioevo. Lo stesso Vasari rileva le componenti bizantine della sua formazione, accennando ai rapporti che Cimabue intrattenne con i "maestri greci" attivi a Firenze sullo scorcio del Duecento.
L’influsso di questa tradizione appare però profondamente rinnovato dalla conoscenza della scultura dei Pisano, che rinnova e sostanzia i vecchi stilemi. Le opere di Cimabue rivelano così una nuova sensibilità spaziale, che si combina ad una moderna rappresentazione della figura umana.
Questa perde la fissità delle icone bizantine, acquista un nuovo volume corporeo e si anima di una profonda intensità espressiva, che a volte si carica di pathos, fino a sconfinare nel dramma.
Tra le opere principali si ricordano la Madonna col Bambino agli Uffizi a Firenze e la Crocifissione al Museo dell’opera di Santa Croce a Firenze, oltre agli affreschi nella chiesa di San Francesco ad Assisi.
Citato da Dante nella Divina Commedia, Cenni di Pepo detto Cimabue era artista ben noto ai suoi contemporanei. Pochissime, invece, le notizie certe sulla sua vita e sulle sue opere, la cui cronologia è ancora oggi oggetto di accesa discussione fra gli storici dell’arte. Nato nella prima metà del XIII secolo e formatosi in ambito fiorentino, la prima testimonianza dell’attività pittorica di Cenni di Pepo è da rintracciare nel Crocifisso eseguito per la chiesa di San Domenico ad Arezzo, da datare verso il 1265-1270. Nel 1272 il pittore è documentato a Roma, città nella quale si era probabilmente recato per eseguire lavori oggi perduti: nell’atto notarile che riporta il suo nome, Cimabue è indicato come testimone, ruolo per esercitare il quale bisognava avere almeno venticinque anni. Pochi anni più tardi l’artista, rientrato a Firenze, eseguì la Croce per la chiesa di Santa Croce a Firenze, oggi nel vicino Museo dell’Opera. La notorietà raggiunta dall’artista lo portò prima a Pisa, dove per la chiesa di San Francesco eseguì una Maestà oggi al Museo del Louvre a Parigi, e poi a Bologna dove nella chiesa di Santa Maria dei Servi rimane un’altra tavola con la Vergine in trono. Capolavoro assoluto del maestro sono gli affreschi che Cimabue eseguì nella basilica superiore di San Francesco ad Assisi dove probabilmente intorno al 1280 decorò l’abside, la volta sopra il coro e parte delle pareti dei transetti. Infiltrazioni di umidità hanno purtroppo causato l’inversione delle tonalità cromatiche, così che i chiari sono diventati scuri e i toni scuri oggi appaiono chiari, come nel negativo di una fotografia. Nello stesso momento dell’esecuzione degli affreschi assisiati cade anche la realizzazione della grande Maestà oggi agli Uffizi, proveniente dalla chiesa di Santa Trinita. Nel 1301-1302 Cimabue è infine documentato a Pisa, dove realizzò la figura di san Giovanni Evangelista nel mosaico dell’abside del duomo.
La grande stagione pittorica di Siena si apre all’inizio del Trecento e si afferma attraverso l’opera degli artisti dell’ambito duccesco, che nell’arco di una generazione fecero della Repubblica il secondo polo culturale d’Italia.
Essi elaborarono un originale linguaggio pittorico, che accoglie gli stimoli giotteschi ma finisce per approdare ad una visione del mondo profondamente diversa da quella fiorentina.
Più che valori di volume e spazio, indaga le potenzialità del colore e del ritmo della linea gotica, realizzando rappresentazioni di grande spiritualità, dove la vena realistica appare volutamente sacrificata.
Grazie a numerosi viaggi, la produzione pittorica senese estese il raggio della sua influenza oltre i limiti ristretti della Repubblica.
Simone Martini, ad esempio, fu richiamato presso la grande corte napoletana di Roberto d’Angiò e poi ad Avignone, dove il papa aveva trasferito la sua corte, mentre Pietro Lorenzetti lavorò ad Assisi e suo fratello Ambrogio risiedette per diverso tempo a Firenze.
A partire dal Longhi gli studiosi hanno più volte giustificato la vicinanza formale tra Duccio e Cimabue ipotizzando il soggiorno del capostipite della pittura senese ad Assisi.
Tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta questi avrebbe fatto parte del seguito cimabuesco, giungendo fino al cantiere della Basilica Superiore, dove i suoi interventi vengono individuati negli affreschi del transetto e in quelli della navata. In questa collaborazione troverebbe giustificazione anche la commissione fiorentina della Madonna Rucellai, per lungo tempo attribuita allo stesso Cimabue, che più probabilmente costituì il tramite di questo contatto.
Ma in quest’opera l’artista pare aver ormai sviluppato un linguaggio personale, dove le riprese cimabuesche e la cultura figurativa bizantina vengono arricchite di delicati accenti gotici e di un’inedita ricercatezza cromatica, forse mutuati dalla conoscenza della cultura d’oltralpe.
La monumentalità delle figure si attenua per l’insolito vigore della linea di contorno, che col suo andamento sinuoso descrive forme di estrema eleganza, rinnovando i metallici contorni della tradizione precedente.
Il pittore rinuncia alla rappresentazione dello spazio, per affidarsi invece ad una sintassi di tipo ritmico, che intesse corrispondenze e simmetrie. Ciononostante Duccio si rivela anche un acuto osservatore dei dati naturali e quotidiani, anticipando i gusti della pittura senese successiva.
Nato probabilmente a Siena verso la metà del XIII secolo (1255 ca.?), Duccio di Boninsegna doveva essere già un pittore autonomo quando nel 1278 gli venne pagata dal Comune la decorazione di dodici casse per la custodia di documenti; fra il 1279 e il 1295 il maestro è pagato più volte per la decorazione delle coperte lignee dei registri di Biccherna, uno degli uffici amministrativi senesi. Niente rimane oggi di questi lavori, svolti regolarmente dalle botteghe dei pittori del tempo parallelamente ad opere di maggiore impegno quali affreschi e tavole d'altare. Nel 1285 viene affidata a Duccio di Boninsegna la pittura della Maestà per la Compagnia dei Laudesi della chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Il dipinto, noto anche con il nome di Madonna Rucellai, si trova oggi in deposito agli Uffizi. Più o meno dello stesso momento dovrebbe essere la piccola Maestà dei francescani conservata nella Pinacoteca di Siena, caratterizzata da una decorazione minuziosa che ricorda la preziosità delle miniature e degli smalti. Nel 1287-1288 il pittore è impegnato nella realizzazione della grande vetrata circolare del duomo di Siena raffigurante l'Assunzione e l'Incoronazione della Vergine, dedicataria della Cattedrale. Per l'altar maggiore della stessa chiesa, nel 1308 viene commissionata a Duccio la grande e complessa pala d'altare dipinta su entrambi i lati, completata nel 1311 e portata nella cattedrale accompagnata dall'acclamazione popolare. Il polittico, parzialmente smembrato, si conserva oggi nel locale Museo dell'Opera. Di questo impegnativo lavoro verso il 1316 venne eseguita dalla bottega dello stesso Duccio una replica di dimensioni minori destinata alla cattedrale di Massa Marittima. Alla fine del percorso artistico di Duccio, morto nel 1318, si colloca probabilmente l'affresco rinvenuto recentemente nel Palazzo Pubblico di Siena, raffigurante forse la Sottomissione del Castello di Giuncarico al Comune di Siena avvenuta nel 1314.
Da Duccio muove l’esperienza pittorica di Pietro Lorenzetti, formatosi a Siena nel secondo decennio del Trecento.
Con lui l’astratta eleganza del maestro si arricchisce di toni drammatici ed intensamente espressivi e di una monumentalità pacata, che risente delle ricerche di Giotto.
Pietro del resto conobbe certamente l’opera del maestro fiorentino durante il suo soggiorno assisiate ed ancora a Firenze, dove lavorò accanto ad Ambrogio tra il 1330 e il 1335. La sintesi plastico spaziale raggiunta negli ultimi dipinti rivela infatti l’influenza delle più mature opere giottesche.
La piena comprensione di queste istanze viene sottolineata anche dalle frequenti puntualizzazioni cronachistiche dei dipinti, nelle quali Pietro Lorenzetti si rivela un attento interprete della fiorente vita economica e culturale di Siena
La lezione di Giotto appare però rinnovata in maniera originale dalla conoscenza della scultura di Giovanni Pisano, che anima di toni tragici le composizioni e imprime una gotica eleganza alle forme. La drammaticità della scena si placa infatti nei ritmi fluidi e musicali e nell’intenso cromatismo della pittura senese, imprimendo piuttosto alle figure una tensione spirituale, che spesso si traduce nella severità scontrosa dei loro volti.
Come per il fratello Ambrogio, incerte sono le notizie riguardanti la prima parte della vita di Pietro Lorenzetti, nato probabilmente alla fine del XIII secolo (1280/85 ca.) e formatosi a Siena, in prossimità della bottega di Duccio di Boninsegna.
Il primo documento certo è costituito dal polittico eseguito nel 1320 per l'altare maggiore della Pieve di Arezzo, la cui esecuzione fu voluta dal vescovo Guido Tarlati. Prima di quest'opera furono probabilmente eseguite la Madonna di Monticchiello e il Crocifisso e la Maestà del Museo Diocesano di Cortona, quest'ultima firmata dall'artista. Fra il primo e il secondo decennio del secolo Pietro Lorenzetti eseguì probabilmente anche le pitture murali del transetto sinistro della basilica inferiore di Assisi, raffiguranti le storie di Cristo, le stigmate di san Francesco e due trittici ad affresco; il ciclo è probabilmente il frutto di varie campagne di lavoro che dovrebbero comunque cadere fra il 1310 e il 1323. Nel 1324 Pietro Lorenzetti è ricordato a Siena, dove viene pagato per la decorazione del Libro del Capitano del Popolo e nel 1326 per alcune pitture eseguite per l'Opera di Santa Maria, lavori entrambi perduti. Nel 1329 firma il grande polittico per la chiesa del Carmine, ora alla Pinacoteca Nazionale di Siena. Fra il 1335 e il 1342 il pittore è impegnato ad eseguire il trittico raffigurante la Natività della Vergine per l'altare di san Savino del duomo di Siena, dipinto che oggi si trova al Museo dell'Opera del Duomo. Nel 1335 esegue in collaborazione con il fratello Ambrogio la decorazione della facciata dello Spedale di Santa Maria della Scala, affrescata con storie della Vergine oggi perdute, ma testimoniate dalle numerose derivazioni tratte da molti altri pittori senesi. Fra il 1340 e il 1343 fu eseguita la tavola con la Madonna in trono ora a Firenze alla Galleria degli Uffizi, ma proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pistoia. Come il fratello Ambrogio, Pietro Lorenzetti morì probabilmente durante la terribile pestilenza del 1348.
Formatosi come il fratello nell’ambiente duccesco, Ambrogio Lorenzetti risulta maggiormente influenzato dalle esperienze fiorentine. La documentazione ricorda del resto i lunghi soggiorni del pittore a Firenze, dove visitò probabilmente le cappelle di Santa Croce, assimilando la lezione di Giotto in maniera profonda.
Da questi deriva la salda volumetria delle figure, che inserisce all’interno di chiare costruzioni spaziali. Ma tutto ravviva utilizzando una gamma cromatica splendente, di marca senese, che esclude l’uso del chiaroscuro e si affida ai soli valori cromatici.
Il pittore si allontana dalle problematiche giottesche anche per la vivace vena narrativa delle sue pitture. Al sintetico e severo racconto di Giotto sostituisce una rappresentazione garbata e poetica degli avvenimenti, che indulge nei particolari e si disperde nella descrizione di episodi secondari, uniformandosi al tono favolistico di Pietro Lorenzetti e Simone Martini.
Nato a Siena nel 1285 e formatosi come il fratello nell’ambiente duccesco, Ambrogio Lorenzetti risulta maggiormente influenzato dalle esperienze fiorentine. La documentazione ricorda del resto i lunghi soggiorni del pittore a Firenze, dove visitò probabilmente le cappelle di Santa Croce, assimilando la lezione di Giotto in maniera profonda.
Da questi deriva la salda volumetria delle figure, che inserisce all’interno di chiare costruzioni spaziali. Ma tutto ravviva utilizzando una gamma cromatica splendente, di marca senese, che esclude l’uso del chiaroscuro e si affida ai soli valori cromatici.
Il pittore si allontana dalle problematiche giottesche anche per la vivace vena narrativa delle sue pitture. Al sintetico e severo racconto di Giotto sostituisce una rappresentazione garbata e poetica degli avvenimenti, che indulge nei particolari e si disperde nella descrizione di episodi secondari, uniformandosi al tono favolistico di Pietro Lorenzetti e Simone Martini. Morì probabilmente nel 1348, a seguito dell'epidemia di peste che vide tra le vittime anche il fratello.
Formatosi probabilmente nella cerchia di Duccio, a contatto con la scultura di Giovanni Pisano, Simone Martini conosce ma volutamente ignora le innovazioni del linguaggio giottesco. Predilige piuttosto gli orientamenti del Gotico francese, dal quale deriva un elegante linguaggio lineare, che utilizza nelle sue potenzialità decorative ed espressive.
Rappresenta un mondo aristocratico e prezioso, dove ogni elemento realistico appare come trasfigurato. Per questo utilizza spesso fondi dorati, che ignorano le recenti conquiste spaziali ma esaltano le qualità cromatiche della pittura, inondando di luce la superficie del dipinto.
Le composizioni appaiono organizzate secondo scansioni ritmiche, guidate dal fluire continuo della linea. Questa incide i contorni delle figure ed insieme guida il sinuoso disporsi dei corpi, cui spesso conferisce un guizzo vitale o un estenuato languore.
Nato a Siena intorno al 1284, Simone Martini è ricordato per la prima volta in alcuni documenti del 1315, anno nel quale l’artista riceve dei prestiti dal comune di Siena e firma il grande affresco raffigurante la Vergine in Maestà nella Sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico cittadino. Il prestigio di quest’opera dimostra che all’epoca l’artista era già un maestro di grande fama. Fra il 1315 e il 1317 Simone è impegnato nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi dove realizza ad affresco le storie di san Martino nella cappella di Gentile Partino da Montefiore, morto nel 1312. Contemporaneamente comincia per Simone un proficuo rapporto con la corte degli Angiò che frutterà al maestro illustri commissioni. Nel 1317, anno della canonizzazione di Ludovico d’Angiò vescovo di Tolosa, il pittore esegue una tavola raffigurante il santo per la chiesa di San Lorenzo a Napoli, oggi nel Museo di Capodimonte. Un documento dello stesso anno ricorda l’assegnazione a Simone di 50 once d’oro da parte della famiglia d’Angiò, che nel frattempo lo aveva nominato cavaliere.
Rientrato in Toscana, nel 1319 il pittore esegue un grande polittico per la chiesa di San Domenico a Pisa, ora nel Museo di San Matteo, elaborando un modello di pala d’altare complesso e fastoso replicato nel 1320 ad Orvieto. A Siena, nel 1324, Simone sposa Giovanna, figlia del pittore Memmo di Filippuccio e sorella di Lippo Memmi, artista con il quale Simone gestisce la sua grande bottega. I due pittori nel 1333 firmano congiuntamente il trittico con l’Annunciazione, oggi agli Uffizi, realizzato per uno degli altari della cattedrale di Siena. Dalla bottega di Simone e Lippo escono in questi anni pale d’altare ma anche oggetti di minore impegno quali stendardi e arredi per altari, manufatti purtroppo non più esistenti. Nel 1330 il maestro è impegnato dal comune di Siena a decorare alcuni ambienti del Palazzo Pubblico; di questi lavori rimane il grande affresco nella Sala del Mappamondo raffigurante la conquista del Castello di Montemassi da parte del condottiero Guidoriccio da Fogliano. Nel 1336 il pittore è presente ad Avignone, in Provenza, chiamato a lavorare per la corte papale. Nella città francese Simone strinse amicizia con Francesco Petrarca per il quale decorò un codice oggi nella Biblioteca Ambrosiana a Milano ed eseguì un ritratto della sua amata Laura, andato perduto. Dei lavori eseguiti per la corte papale, rimangono invece solo pochi frammenti di affreschi conservati nel Museo del Palazzo dei Papi. Ad Avignone Simone Martini si spense nel 1344.
Accanto ai centri toscani di Pisa e Firenze, dove lavorava la bottega dei Pisano, ed ad Assisi, sede del poliedrico cantiere della basilica di San Francesco, anche Roma contribuisce al rinnovamento della cultura figurativa italiana.
La città conobbe infatti nella seconda metà del XIII secolo un grande fervore di iniziative, che si proponevano di restaurare la veste monumentale dell’antica capitale della civiltà cristiana: gli stessi pontefici promossero il rammodernare e l’abbellimento delle antiche basiliche, che furono rivestite di colorati mosaici e tarsie marmoree.
Il rinnovato contatto con le forme della tradizione paleocristiana contribuì al superamento del linguaggio pittorico bizantino, che da tempo dominava incontrastato in Italia.
Le figure acquistano ora una nuova saldezza plastica e si inseriscono all’interno di monumentali impianti compositivi, mentre la tavolozza si arricchisce di mezze tinte e chiaroscuri.
Quanto detto permette di sostenere che a Roma, dove Cimabue aveva soggiornato nel 1272, gli artisti, tra cui Iacopo Torriti e Pietro Cavallini, operavano nel senso di un ampliamento della visione spaziale, indipendentemente e prima della lezione giottesca. Tali interessi contrassegnano del resto, negli stessi anni e negli stessi luoghi, anche l’attività scultorea di Arnolfo di Cambio.
Ma la cattività avignonese allontanò con il Papa il principale committente di queste imprese, impedendo lo sviluppo coerente di queste promesse.