Con le idee, Platone aveva voluto asserire l'esistenza di principi indipendenti dall'esperienza, cioè dalla sua variabilità e mutevolezza, e perciò capaci di garantire la stabilità e l'oggettività del sapere e dell'agire.
Per questo motivo aveva affermato, con la loro indipendenza, anche la loro presenza e influenza nell'esperienza, e in particolare la possibilità di accedere ad esse mediante la ragione.
Solo essa infatti poteva costituire la base per quel passaggio dal mondo dell'esperienza al mondo delle idee (e di ritorno dal mondo delle idee al mondo dell'esperienza) che è il contenuto del mito della caverna e l'impegno del mito di Er.
Non a caso quindi il rapporto tra l'anima e le idee costituisce un capitolo particolare del pensiero di Platone, sviluppato in alcuni dei suoi dialoghi più suggestivi: il Fedone, il Simposio e il Fedro; e la loro suggestione deriva, anch'essa non a caso, dal fatto di essere costruiti con uno stile peculiare, fatto di "ragionamenti e miti".
Argomento del Fedone - il dialogo che rappresenta con commozione le ultime ore di Socrate - è l'immortalità dell'anima.
Gli argomenti portati sono quattro ma, nel loro intrecciarsi, rimandano tutti di fatto ad un solo argomento, che è quello per Platone fondamentale: l'affinità dell'anima alle idee, da cui partecipa la propria perfezione ed eternità.
In base a questo argomento, fra l'altro, Platone respinge come radicalmente insufficienti le dottrine naturalistiche: esse in effetti spiegano ogni fenomeno (anche quelli relativi all'anima) con cause materiali, e perciò non sanno dar ragione dei comportamenti umani ispirati (come il sacrificio di Socrate) da principi ideali. In questo contesto Platone pone le premesse della sua teoria delle idee:
– Considera allora, disse Socrate, se la cosa sta così. C'è qualcosa di cui diciamo che è uguale? Uguale, dico, non come legno a legno, pietra a pietra o simili, bensì un uguale che è al di là di tutte le cose uguali e diverso da esse, voglio dire l'uguale in sé. Ebbene, diciamo noi che questo uguale è qualcosa o non è nulla? (b)
– Certo che lo diciamo, disse Simmia; e come no?
– E conosciamo anche ciò che esso è in se stesso?
– Certamente, rispose.
– E da dove abbiamo tratto conoscenza di esso? È forse a partire da quegli uguali di cui si diceva, cioè legni o pietre o altre cose uguali, vedendo che sono uguali, che abbiamo pensato a quell'uguale che è pur diverso da essi? O non ti pare che le cose stiano altrimenti? Considerale da questo punto di vista: pietre uguali e legni uguali, pur rimanendo gli stessi, non succede che a qualcuno sembrino uguali e ad altri no?
– Sì, certo. (c)
– E l'uguale in sé, può mai apparire disuguale, e l'uguaglianza disuguaglianza?
– No, mai, Socrate. (d)
– E allora? soggiunse Socrate: ci appaiono essi uguali come l'uguale in sé, o per qualche aspetto manchevoli in rapporto all'uguale in sé, o per nulla manchevoli?
– Manchevoli, e molto! (e)
– Ma chi pensa così, siamo d'accordo che deve pur aver visto prima ciò cui dice che la cosa, sia pur in modo difettoso, assomiglia.
– Necessariamente.
– Dunque, è necessario che noi abbiamo veduto prima l'uguale: prima cioè (75a) del momento in cui, vedendo per la prima volta cose uguali, abbiamo pensato che esse tendono sì ad essere come l'uguale in sé, ma rispetto ad esso sono difettose.
– È così. (c)
– Dunque, a quanto pare, questa conoscenza noi dovevamo possederla prima di nascere.
– Pare di sì.
– Ma allora noi, prima di nascere e subito dopo nati, conoscevamo non solo l'uguale, il maggiore e il minore, ma anche tutte le altre realtà di questo genere. Infatti, il ragionamento vale non solo per l'uguale in sé, ma anche per il bello in sé, (d) per il buono in sé, per il giusto in sé, per il santo in sé, e insomma, come dico, per tutti gli esseri su cui noi, domandando e rispondendo, poniamo a sigillo che "è in sé".
– Necessariamente. (76c)
– Ma quando le nostre anime hanno acquistato la conoscenza di tali cose? Non certo da quando siamo diventati uomini!
– No certo!
– Allora, prima.
– Sì.
– Dunque, Simmia, le nostre anime esistevano anche prima: prima, dico, di essere in questa forma d'uomini, separate dai corpi; e avevano intelligenza.(d)
– Sì.
– Dunque, Simmia, riprese Socrate, le cose stanno così? Se esistono veramente le realtà di cui continuamente parliamo, ossia il bello, il buono e tutte le altre del genere, e ad esse noi rapportiamo e compariamo le impressioni dei sensi, come a modelli già in nostro possesso, ebbene, non è ugualmente necessario che la nostra anima esista prima ancora che nasciamo? Se invece quelle realtà non esistessero, il mio discorso sarebbe del tutto vano.
Il legame dell'anima con le idee significa sostanzialmente aspirazione dell'anima alla perfezione: e di questa sua condizione Platone vede l'espressione nell'amore, che è l'argomento del Simposio. L'amore non è un semplice fatto fisiologico e psicologico, ma coinvolge l'intera natura dell'anima nella sua tendenza a oltrepassare i limiti dell'esperienza.
Ciò che la muove, in effetti, è un bisogno di immortalità, che solo il rapporto con ciò che è eterno può soddisfare. Così inteso, l'amore si ritrova alla base di ogni opera in cui l'uomo cerca di sopravvivere a se stesso, e si rivela quindi come una fondamentale forza di civiltà.
In questo senso, l'amore non è un fatto sentimentale, ma un processo etico, che coinvolge tutte le forze dell'anima; questo è il significato dell'altro celebre dialogo sull'anima, il Fedro.
Il suo centro è la nota metafora che rappresenta l'anima come una biga alata che trascorre nel mondo delle idee, guidata da un cocchiere, che rappresenta la ragione, e trainata da due cavalli, che rappresentano rispettivamente i sentimenti elevati e le passioni.
Mossa da queste forze, l'anima vive una vicenda che di volta in volta le consente di alzarsi a contemplare i valori e la verità, o la precipita nell'abiezione.
Anche nel più profondo di questa, tuttavia, essa nutre nostalgia della perfezione; e l'esperienza che la riconduce ad essa è, ancora una volta, quella della bellezza.
L'attrazione misteriosa e irresistibile verso il bello fa dell'amore una mania, cioè una forza irrazionale: non però una forza contraria alla ragione: anzi, questa forza costituisce lo stimolo necessario perché l'anima risalga dalle cose ai loro principi e, alla fine, al principio stesso di questi, il bene, e poi ritorni alle cose, ritrovandone la natura e il senso a partire da questi principi; costituisce cioè lo stimolo della dialettica.
Questo legame della dialettica col sentimento ricompone l'unità dell'anima, e costituisce un'altra, più radicale, critica della sofistica, che sapeva sollecitare sentimento e fantasia, ma non la ragione (perciò il dialogo si chiude con un saluto ironico a Isocrate).
Al di là delle allusioni alla cultura del suo tempo, la dottrina dell'anima costituisce una vera e propria dottrina dell'uomo (che fra l'altro ha avuto una particolare influenza sul cristianesimo), e non solo perché in essa colloca la natura dell'uomo (questa era una dottrina pitagorica, già presente nell'Alcibiade maggiore) ma perché mette in rilievo in lui una dimensione particolare, non rilevata nella cultura greca: quella del sentimento.
Non il sentimento empirico, ma il sentimento come esperienza dei valori, e perciò aspirazione ad essi. Così inteso, appunto, il sentimento fa dell'uomo un essere "in bilico", mosso dalla "nostalgia dell'essere"; e perciò costituisce per Platone una prova dell'esistenza stessa delle idee.
In questa concezione dell'anima si ritrova il carattere peculiare del pensiero platonico, di essere "ragionamento e mito" insieme.
L'esistenza di una dimensione mediatrice tra sensi e ragione (le passioni nobili) era già rilevata nella Repubblica; nei dialoghi dell'anima essa viene valorizzata anche come il tramite per cui Platone ritiene di far passare il suo messaggio filosofico.
La filosofia nella sua purezza, in effetti, comporta un itinerario non accessibile ad ogni uomo, e d'altra parte non tutte le verità filosofiche possono essere dimostrate: di qui la necessità di trovare una via di accesso alla verità diversa dalla ragione ma non contraria ad essa, anzi con essa convergente: questa, come abbiamo visto, è la mania (sentimento e fantasia) e il suo corrispettivo è il mito.
Esso è il naturale alleato della filosofia tra gli uomini. Presentazione immediata di una verità più profonda, esso recupera il valore dell'arte e le conferisce una portata che prima non aveva.
La mediazione del mito garantiva dal punto di vista etico il rapporto tra le idee e l'uomo perché i valori etici sono più facilmente ancorabili all'azione umana ma non serviva a chiarire in termini razionali il rapporto tra le idee e le cose.
I due termini utilizzati da Platone ἰδέα, εἴδος, sono tra loro molto simili nelle varie sfumature di significato.
Tra i vari significati entrambi i termini hanno quello di figura, inteso sia come figura geometrica sia come aspetto esteriore; e quello di immagine.
Il mito dunque rappresenta in immagini il senso dell'Idea e l'immagine e la figura aprono la strada anche alla geometria, cioè alla conoscenza razionale dianoetica, secondo la classificazione della conoscenza del VI libro della Repubblica.
Chiarirlo perciò era indispensabile, perché Platone attribuisce alle idee soprattutto il significato di principi ultimi intesi come cause della realtà.
ll binomio ἰδέα, εἴδος, esprime anche il significato di carattere e natura e suppone una "natura delle cose".
Ma il rapporto tra ἰδέα, εἴδος (intesa come natura delle cose) e molteplicità del reale doveva affrontare il problema dei loro rapporti.
Le idee sono la natura delle cose perché sono la loro causa. Ma come si spiega il modo in cui sono causa?
Le cose del mondo in che rapporto sono con l'unica causa della realtà?
Derivano dalle idee-cause come copie di esse o partecipano tutte (nel senso di essere parte di qualcosa di più grande, cioè l'idea) dell'unica natura dell'idea?
Se sono copie, le cose molteplici del mondo rischiano di essere tutte tra loro uguali e perciò non sarebbero più riconoscibili come singole.
Se partecipano dell'idea devono essere comunque spiegate nel modo diverso con cui partecipano: se l'idea di uomo è unica gli uomini partecipano di essa in modo simile ma non identico.
Perciò era necessario trovare un modo per risolvere la difficoltà che tenesse d'occhio il punto nevralgico del problema: la concezione dell'essere di Parmenide che Platone attribuisce alle singole idee.
Nella concezione dell'essere di Parmenide la realtà è statica: tutto il mutamento e il divenire sono considerati fuori dalla verità come vuota apparenza.
Ma Platone ha indicato già nelle idee l'esistenza di una pluralità: le idee sono molte.
Ma non ha saputo spiegare sino in fondo com'è possibile che queste idee, a loro volta, siano la causa e l'origine della pluralità delle cose che da esse dipendono.
Abbiamo già visto che Platone indica nelle idee stesse la causa e l'origine della verità, anche nella conoscenza umana: il Menone ci ha mostrato come la verità è la reminiscenza delle idee viste dalle anime nel mondo superiore.
Nei quattro gradi della conoscenza esposti nella Repubblica Platone accetta la stessa netta divisione tra mondo intellegibile, legato alla verità delle Idee, e mondo sensibile affidato alla mutevolezza delle opinioni.
Per rispondere alle difficoltà emerse, Platone, già vecchio, si mise in un'impresa straordinaria di ripensamento delle precedenti teorie, il cui senso fondamentale è di riavvicinare alle cose i principi che aveva separato da esse.
Il primo problema che Platone affronta è proprio quello del valore del linguaggio. Se il linguaggio è semplice sensazione e apparenza non c'è nessuna possibilità di mettere in contatto la conoscenza razionale con l'esperienza, cioè il mondo intelligibile con il mondo sensibile.
Nel Cratilo, Platone affronta la questione della giustezza dei nomi, vale a dire della verità del linguaggio.
Attraverso la discussione, talora apparentemente strana nei termini delle questioni affrontate, esso arriva a concludere che il senso delle parole non può essere frutto di arbitrio o di convenzione, ma si fonda sulla conoscenza della realtà.
Era così liquidata la posizione sofistica, che riduceva la realtà a linguaggio e il linguaggio a pura apparenza.
Se il linguaggio rimanda a una conoscenza della realtà diventa un punto fermo dal quale partire per esaminare la realtà stessa.
Il problema del linguaggio rappresenta il punto di scontro più concretamente visibile con i Sofisti e con tutti coloro che riconoscono solo il divenire, negando la verità e la sua stabilità.
Il relativismo dei Sofisti giustificava l'uso arbitrario del linguaggio e negava ogni possibilità di accesso alla verità. Il linguaggio diventa così solo apparenza, doxa, mentre, dall'altra parte, l'atteggiamento di Parmenide negava il valore del linguaggio perché teneva l'esperienza segregata nell'apparenza e priva di qualunque rapporto con la verità.
Questo è il piano nel quale occorreva far chiarezza.
Per confutare i Sofisti era necessario chiarire a fondo il problema dell'essere in una serrata discussione con Parmenide.
L'itinerario di questo ripensamento è stato indicato da Platone stesso mediante una serie di rimandi tra i dialoghi (i "dialoghi dialettici") Parmenide, Teetèto, Sofista, Politico, Filebo.
La discussione comincia nel Parmenide che costituisce una denuncia spietata delle difficoltà delle idee "separate" e soprattutto del monismo dell'essere (monos: essere come unica realtà). La dottrina dell'uno è la base delle teoria delle idee.
Sono considerate fondamentalmente tre ipotesi:
-che l'uno sia uno, cioè realtà a sé, assolutamente distinta dalle cose. Questa è la posizione storica di Parmenide stesso che vede esclusivamente l’unicità dell’essere.
-che l'uno sia, cioè sia presente nelle cose: rappresenta il tentativo fatto già da Platone, come abbiamo accennato prima, di mettere le idee in comunicazione con la molteplicità del mondo sensibile come partecipazione e imitazione. Qui l’uno non è più unicità ma unità. L’unità lega insieme, in un sistema di relazioni, la molteplicità: per esempio, il cosmo è uno ma composto di più parti tra loro legate insieme, così da poter parlare di un cosmo.
- che l'uno non sia: è la posizione del nichilismo di Gorgia ma anche del relativismo di Protagora.
La prima (Parmenide) e la terza ipotesi (Sofisti) giungono a negare sia l'essere che la conoscenza: nel caso di Parmenide si nega valore a tutto ciò che non è il principio logico della realtà, l’essere, e nel caso dei sofisti si nega il principio logico, l’essere, per affermare che le cose sono molte e non c’è modo di collegarle tra di loro per comprendere i loro rapporti reciproci.
La seconda ipotesi è quella platonica e comporta grosse difficoltà che però dipendono dalla natura della molteplicità e del divenire.
Questa è l'unica via percorribile, se si vuole salvare il valore della conoscenza, che sarebbe perduto se essa fosse abbandonata al divenire, senza alcun fondamento nell'essere.
Non è infatti possibile spiegare il molteplice in riferimento a se stesso, poiché esso richiede il riferimento ad un’unità fondativa, ragion per cui unità e molteplice sono inseparabili.
Infatti, l’unità del molteplice non è altro che un insieme di unità e molteplicità relative. In altri termini l’unità complessiva si produce partendo da unificazioni più piccole che, a loro volta, sono in rapporto tra di loro e vanno a costituire passo dopo passo l’unità massima.
Così come da sottoinsiemi più piccoli è possibile risalire a insiemi più grandi che li contengano e li unifichino.
Seguendo il filo dell’esempio, possiamo dire che in fondo un insieme è determinato sia dai suoi contenuti sia da ciò che lo caratterizza.
L’insieme degli uomini non è dato solo dagli uomini concretamente esistenti perché possiamo distinguere svariati sottoinsiemi: maschi, femmine, ricchi poveri ecc.
Ma possiamo anche notare come non ci sarebbero sottoinsiemi e non ci sarebbe l’insieme degli uomini se non sapessimo quali caratteristiche devono avere i singoli che entrano a far parte dell’insieme stesso.
In altri termini se non avessimo un criterio per stabilire ciò che è uomo e ciò che non lo è.
Le idee sono dunque per Platone quei criteri primi su cui possiamo sviluppare la nostra capacità di unificare la realtà.
Sono quegli enti primi, eterni e immobili di cui partecipano le cose sensibili.
Le idee rimangono sempre identiche, in sé e per sé, e separate dal mondo sensibile a causa della propria superiorità ontologica e solo attraverso il ragionamento sarà possibile conoscerle.
Questo smentisce già la riduzione del linguaggio ad apparenza proposta dai Sofisti perché senza i criteri, le idee, non riusciamo neanche a spiegare ciò di cui si parla.
Senza il criterio dell’umanità, senza il significato che si nasconde dietro questo nome, non posso mettere in relazione i diversi singoli individui e riconoscerli come uomini: li riconosco perché posso mettere in relazione l’uno con l’altro, grazie al fatto che ciascuno possiede quei criteri che noi indichiamo come umanità e che Platone considera come Idea dell’uomo.
Senza dimenticare che ἰδέα, εἴδος per Platone è in primo luogo immagine (un uomo reale che vedo), poi figura (le dimensioni geometriche della realtà: nel nostro esempio l’altezza e le dimensioni della corporatura di un uomo) e infine natura e carattere: ciò che, nel nostro caso, corrisponde all’umanità, ciò che ci permette di cogliere cosa significa l’essere uomo.
Identificare qualcuno come uomo significa partire da criteri che ci appartengono costruendo relazioni: se posso riconoscere qualcuno come uomo è perché gli attribuisco le proprietà che trovo nell’idea dell’uomo, collego questo individuo all’idea dell’uomo, stabilisco una relazione tra lui è l’umanità. Così ottengo l’unità degli uomini come sistema di relazioni.
Ma questo sistema, come abbiamo già detto, non è arbitrario: l’umanità è il criterio che identifica la natura degli uomini, il carattere che li distingue da altri esseri, in poche parole, l’idea.
Questa è la tesi del Teetèto, in cui riprende la sua polemica contro il relativismo di Protagora, dietro il quale Platone riconosce la dottrina di Eraclito che la realtà è divenire.
La polemica è data dalla tesi sofistica che il linguaggio è apparenza, doxa, perché tutto è semplice sensazione immediata e dunque ogni criterio della conoscenza è arbitrario: la sensazione, per sua natura, è ciò che muta costantemente, pertanto è instabile e contraddittoria.
Non c’è un criterio che spiega le relazioni che si possono riconoscere tra gli esseri ( per es. l’umanità come criterio per riconoscere gli uomini) e pertanto tutto è relativo e arbitrario.
Platone mostra infatti che se la conoscenza si riduce alla sensazione che appare a ciascuno non si può neanche proporre il problema della verità.
Questa concezione riduce il sapere a sensazione e rende contraddittoria anche la tesi sofistica che su di essa fonda la conoscenza.
Manca infatti un criterio con cui definire una cosa vera: ognuno ha la sua verità, come dicono i Sofisti, significa qualcosa che non è sensazione e perciò, se tutto è sensazione, l’affermazione che parla di una verità relativa a ciascuno non esiste, perché non è una sensazione.
Se la sensazione è il criterio per cui ciascuno misura le cose come meglio crede qualsiasi essere vivente che abbia sensazione è «misura di tutte le cose», allo stesso modo in cui egli dice che lo è l'uomo.
In altri termini, sarebbe un problema non diverso dal comportamento animale e farebbe sparire ciò per cui siamo uomini.
E pertanto in questo caso non si può concludere che Protagora è più sapiente degli altri uomini, ma che non lo è neanche di nessun essere vivente.
Infatti, con questi presupposti Protagora è costretto ad ammettere come vera anche l'opinione opposta alla sua.
Se la maggioranza degli uomini non riconoscesse che l’uomo è misura di tutte le cose, Protagora non potrebbe mai dire che questi uomini sbagliano se non contraddicendosi. Infatti, se si accetta che il criterio sia l’uomo-misura, allora bisogna accettare che ciascuno ne abbia uno suo.
E se tanti non ritengono che sia valido il criterio dell’uomo-misura Protagora non potrà mai dire che sbagliano perché il suo criterio ritiene che ciascuno possa dire ciò che gli pare e lui dovrà accettare, in base al suo stesso criterio, che gli altri abbiano più ragione di lui perché, dal suo punto di vista, nessuno può dire a un altro quello che deve pensare.
Dunque lui non può pensare di sbagliare e neanche che gli altri possano sbagliare anche quando rifiutano il suo criterio.
Al contrario, se gli altri ammettono di sbagliare egli non può ammetterlo né per sé né per gli altri, ed è l'unico che non può avere dubbi sul fatto che sia vera l'opinione opposta alla sua. E questo dimostra che accettare come vera l’ipotesi che tutto è relativo, cioè che non c’è nessuna verità, comporti l’assurdo che si deve ammettere per vero anche ciò che non corrisponde affatto a questa tesi. Perché affermare che non c’è verità significa esattamente che si afferma che è vero che non c’è alcuna verità. Si nega ciò che si afferma: che una verità (tutto è relativo) c’è.
Ma ci sono altri interrogativi che l’idea della verità ridotta a sensazione proporrebbe: come è possibile la memoria, se col cessare della sensazione cessa anche la nostra conoscenza? O dovremo forse ammettere l'assurdità che chi ricorda non conosce?
Infine, se uno si chiude un occhio, dal momento che con quello non vede mentre con l'altro continua a vedere, dovremo concludere che nello stesso tempo conosce e non conosce?
Con queste premesse Platone conclude l'analisi dell'equazione conoscenza-sensazione: i sensi altro non sono che strumenti per mezzo dei quali la nostra anima subisce delle "affezioni" (viene cioè colpita da sensazioni: affezioni indica il patire, il subire), ma non sempre ogni affezione corrisponde esattamente a un organo di senso, potendo essa essere comune a più d'uno, e quindi, in quanto tale, essa non è percepita da nessun organo particolare.
Nell’anima dunque si trova la facoltà di ordinare e mettere in relazione le varie percezioni.
In altri termini, ci sono sensazioni che abbiamo la capacità di percepire per natura e sono quelle che arrivano all'anima dal corpo; ma le riflessioni su queste sensazioni, sul loro essere e sulla loro utilità, si sviluppano a fatica e col tempo, in quelli pure in cui si sviluppano, e sono quelle che l'anima scopre da sola.
Allora, non è nelle impressioni sensibili che si trova la scienza, ma nella riflessione su di esse: con questa, infatti, è possibile cogliere la verità, con quelle no.
Bisogna supporre che l'anima abbia la capacità di stabilire una connessione e un rapporto tra i vari dati. Ma con ciò il piano della sensazione è superato definitivamente, perché solo in questa fase ulteriore di collegamento e rapporto di dati l'anima è in grado di affermare l'esistenza di una cosa (il suo essere), la sua identità con se stessa e la sua relazione con sé e con le altre realtà: la somiglianza e la dissomiglianza (le qualità), l'uno e il multiplo (la quantità).
Così l’essere, la relazione, la qualità e la quantità mostrano come la riflessione sia oggetto di ragione e non di semplice percezione. Senza questi "generi comuni", essere, relazione, qualità e quantità non c'è percezione.
Questa prima formulazione delle categorie logiche e ontologiche a un tempo, poneva immediatamente una serie imponente di problemi, la cui mancata discussione nel Teeteto renderà senza esito positivo la discussione sul problema dell'errore che sarà ripreso in maniera assai più complessa nei successivi dialoghi.
Se la conoscenza non è sensazione, ma il giudizio dell'anima sulla sensazione, dovremo essere sicuri che tale giudizio sia vero e non falso.
Tuttavia ci dice che l'anima compie le operazioni conoscitive attraverso il linguaggio, dove è possibile, attraverso la riflessione, organizzare un giudizio sulle cose stesse.
Ma questo lascia aperto l'interrogativo sul problema dell'errore: come riuscire allora a distinguere l’"opinione vera", cioè la conoscenza, dall'opinione falsa? In che senso è possibile l'errore?
In questa domanda sono preannunciati alcuni dei complessi problemi che saranno trattati nel Sofista e ancora una volta la tesi dell'errore come pensiero, opinione di ciò che non è si scontra con l'altra tesi, per cui pensare e opinare hanno sempre un loro oggetto determinato e reale.
Il Teetèto, secondo lo stile socratico, sembra non trovare conclusioni, ma esse si impongono: il sapere può fondarsi solo sulla conoscenza delle idee e dei rapporti tra esse nei generi sommi individuati: essere, relazione, qualità e quantità.
I generi sommi rappresentano dunque le idee superiori che permettono le relazioni a tutti i vari livelli: insiemi e sottoinsiemi e la loro organizzazione interna trovano già qui una prima definizione nei loro rapporti.
Ma non si discostano da quanto abbiamo detto circa il significato di ἰδέα, εἴδος, in quanto il genere essere esprime il carattere o natura dell’idea mentre quantità e qualità rispecchiano una l’aspetto matematico (quantità) espresso dal senso in cui l'idea è forma (geometria), e l'altra l'aspetto sensibile percettivo (qualità) espressa nel senso in cui l'idea è immagine sensibile.
Pertanto la vera innovazione è nel genere relazione che include la molteplicità della quantità e della qualità nell’essere, andando oltre la semplice sensazione, oltre la percezione, perchè mette in relazione e confronta ciò che è distinto.
Dunque è in questi rapporti, nella relazione, che si deve cercare tanto la falsità quanto la verità.
Bisogna quindi andare oltre il sensismo e questo è possibile solo confutando la tesi di coloro che riducono la realtà delle cose a un continuo movimento e divenire e prendendo così posizione tra costoro e la scuola di Parmenide che ritiene tutto l'essere immobile.
E in effetti l'assurdità della prima tesi appare evidente non appena la si porti alle estreme conseguenze, e ci si accorga che ogni volta che si parla di cose in movimento, in quello stesso momento le si rende immobili, fissandole, sia pure per un solo attimo, allo stesso modo che Zenone diceva star ferma in ogni singolo momento la freccia lanciata da un arco.
Si dovrà dunque vedere se hanno ragione gli eleati? Il problema non può arrivare ad una vera soluzione se non facendo i conti con Melisso e con Parmenide.
Questa è la tesi del Sofista, il dialogo in cui la dialettica platonica raggiunge il suo apice e trova le ragioni definitive contro la logica sofistica.
Il problema nasce dalla natura stessa del sofista, perché non si può denunciare la sua falsità se prima non si dimostra che si può dire in qualche modo «ciò che non è» e perciò si può sbagliare. Era questa la difficoltà maggiore in cui si è contraddetto Protagora.
Se il pensare è «un discorso che l'anima fa a se stessa intorno alle cose che contempla», interrogando e rispondendo finché non ha determinato il suo oggetto, l’anima non potrà pensare "altro" da quello che pensa e così l'errore è del tutto inconcepibile.
In realtà l'errore non è spiegabile se prima non si chiarisce definitivamente cos'è la conoscenza.
Alcuni che sostengono che la conoscenza è «opinione vera accompagnata da ragionamento» e perciò sono conoscibili solo i nessi, le relazioni che costituiscono un composto, ma non gli elementi primi di questo composto. In altri termini, conoscibili sarebbero solo le relazioni con le quali vengono unificati i vari elementi del composto.
Ma questo rischia di ricadere nel ragionamento di Protagora perché riconosce solo relazioni, cioè il modo umano di “misurare” la realtà e non la realtà stessa, l’essere.
E se non si riconosce appieno l’essere si ricade nel relativismo e nelle contraddizioni che abbiamo già visto.
Per risolvere il problema della verità e dell’errore Platone avvia l'esame delle concezioni possibili dell'essere, e giunge a quello che presenta come il "parricidio" di Parmenide, cioè il superamento della concezione eleatica dell'essere, proposta dallo Straniero di Elea (dunque a partire dallo stesso eleatismo).
Lo Straniero di Elea propone di applicarsi a qualche tema più semplice per saggiare il metodo di definizione.
Egli propone perciò di definire la "pesca con la lenza", cosa semplice e a tutti nota.
Ed ecco allora che Platone ci presenta, per bocca dello Straniero, il suo modello, divenuto poi famoso, di procedimento definitorio: esso può considerarsi ancora oggi un vero e proprio strumento di definizione scientifica.
Il procedimento è il seguente: si muove da un'idea generale e all'interno di essa si prosegue con divisioni per due (diairesis, da cui "diairetica"), sino a trovare il concetto che è tema della ricerca.
Nel nostro caso si parte dall'idea di "arte" (téchne), in quanto chi pesca con la lenza non lo fa a casaccio, ma mostra di possedere una certa tecnica o arte.
Si osserva poi che vi possono essere due tipi di arte: l'arte del produrre o realizzare qualcosa e l'arte dell'acquisire o procacciarsi qualcosa. Ecco la divisione per due: "arte di produzione" (scriviamola a sinistra), "arte di acquisizione" (scriviamola a destra).
La pesca con la lenza sta evidentemente nella seconda, che viene a sua volta divisa per due: arte di acquisizione mediante "consenso" e mediante "costrizione".
È evidente che i pesci non consentono affatto a venire "acquisiti"; quindi si divide l'idea di costrizione: essa può avvenire per "cattura" o per "caccia".
Nel nostro caso "caccia di esseri animati" (non di cose), "di esseri animati che vivono nell'acqua o nell'aria" (non deambulanti), "di pesci" (non di uccelli), "mediante una percussione" (non con reti), "con una percussione dal basso verso l'alto, cioè con la lenza" (non dall'alto verso il basso, cioè con la fiocina). Ecco che abbiamo finalmente trovato il termine che volevamo definire.
Ora, non resta che ripercorrere i termini di destra e raccoglierli insieme in un discorso (il logos definitorio, che dice l'essenza, l'ousia, della cosa). La pesca con la lenza sarà dunque da definirsi in sintesi come segue: «Arte di acquisizione mediante caccia, esercitata su esseri animati che vivono nell'acqua, operando una percussione dal basso verso l'alto».
Ecco lo schema del percorso :
Pesca con la lenza
Téchne
arte di produzione arte di acquisizione
⅄
mediante "consenso" mediante "costrizione"
⅄
"cattura" "caccia"
⅄
di cose di esseri animati
⅄
deambulanti non deambulanti
⅄
uccelli pesci
⅄
mediante reti percussione
⅄
fiocina lenza
(dall'alto verso il basso) (viceversa)
A questo punto lo Straniero di Elea prende la grave decisione di confutare Parmenide: «Bisognerà saggiare l'affermazione di Parmenide, il nostro padre, e sforzare il non essere a essere in qualche modo e l'essere per contrario in qualche modo a non essere»; ciò anche a costo di apparire "parricidi" verso Parmenide.
Anzitutto lo Straniero mostra le contraddizioni che derivano anche all'essere quando lo si opponga rigidamente al non essere. Poi propone la soluzione del paradosso: opponendo l’essere al non essere Parmenide ha preso quest’ultimo secondo un unico significato quello per cui “non essere” sarebbe uguale a “nulla”.
Ma come “non bianco” contrapposto a bianco non significa necessariamente “nero”, ma più semplicemente “ciò che è diverso dal bianco, e che perciò potrebbe anche essere “rosso” “giallo” “verde” ecc., così “non essere” significa «ciò che è diverso dall’essere» come il “moto” la “quiete”, l’”uno” e il “molteplice”. Anche il non essere dunque è in quanto designa il diverso, ciò che è altro, cioè l’alterità alla quale si accompagna l’identità.
La logica parmenidea, poi ereditata dalla sofistica e dai socratici minori, era una logica della pura identità: "A=A". La logica che Platone istituisce invece nel Sofista è una logica della relazione: vero non è l'essere in sé considerato, ma la relazione che collega gli esseri.
Anche il mondo delle idee esce, da tale logica, completamente trasformato.
Le idee non sono più unità assolute e irrelate, ma si collegano l'una all'altra secondo rapporti di dipendenza che inseriscono ogni singola idea in idee più ampie, sino a quei generi sommi che nel Sofista sono così indicati: l'essere, il moto, la quiete, l'identico, il diverso.
L’identico esprime l'essere se stessa di ciascuna idea.
Ma un'idea è se stessa appunto perché "non è" tutte le altre, perché è "diversa" da tutte le altre.
L’essere della pesca con la lenza, per esempio, si specifica solo in relazione al suo "altro", a ciò che essa espressamente "non è", cioè "pesca con la fiocina".
Entrambe però si trovano riunite sotto la specie più ampia di "pesca mediante percussione" (e in questa specie più ampia sono tautòn, cioè la stessa cosa), la quale è "altro" dalla "pesca con le reti".
A loro volta queste due specie o generi sono parti componenti di un genere più ampio che è la "caccia", e così via.
L’identico e il diverso, l'essere e il non essere si propagano così all'intero mondo delle idee, rendendone possibili le relazioni e dando insieme fondamento alla possibilità del giudizio, che è infatti una relazione tra soggetto e predicato tramite la copula "è" ("A è B").
È in questo modo che il pensiero umano procede nell'esprimersi in giudizi, e non in quella maniera rigida e astratta sostenuta da Parmenide, che considerava ogni termine o concetto come identico a se stesso e nulla più.
Infatti un concetto, preso in se stesso, non ha alcun significato: che significa "essere" se non lo pongo in relazione a qualcos'altro? Che significa bianco se non lo confronto con altri colori?
Un concetto si specifica per una serie di relazioni di identità e di differenza con tutti gli altri, rispetto ai quali è tutti gli altri (ha bisogna degli altri per definirsi) e insieme non è nessuno di essi (si definisce per differenza da loro).
A questo punto si risolve anche il problema dell'errore.
Dire il falso non significa dire ciò che non è nel senso di asserire ciò che non esiste o non è nulla, ma significa dire che due cose sono tra loro identiche quando sono diverse e viceversa.
Così se il sofista, con i suoi giochetti di parole, asserisce che Teetèto vola, ciò significa solo che egli ha confuso le relazioni, ponendo Teeteto, che è un uomo, in rapporto di identità con i volatili, che invece gli sono specificamente diversi (sebbene siano entrambi esseri animati).
In realtà Teeteto non vola, non è un uccello (anche se quando salta si libra nell'aria), cioè non appartiene alla specie dei volatili, pur differenziandosi, con i volatili, da ciò che è loro comunemente "altro", per esempio gli alberi o i vegetali ecc.
Il sofista ora è in trappola: egli è infine caduto nella rete dei discorsi definitori o dialettici.
E così è chiarita la differenza tra scienza e apparenza, tra verità e immagine illusoria del sapere.
Il filosofo infatti è il dialettico.
Come il grammatico sa quali lettere debbono accordarsi per formare le parole, e il musico quali suoni per formare le armonie, così il dialettico sa vedere quali generi sono fra loro identici e diversi, e come si intreccino a fornire il modello e la base di tutte le relazioni, che poi ritroviamo nella realtà delle cose sensibili e che conseguentemente esprimiamo con verità nei giudizi.
La dialettica, cioè la filosofia, è così l'arte sovrana, la regina delle scienze, in quanto essa sola insegna a conoscere e a dire ciò che è vero e ciò che non lo è: essa insegna a vedere (in realtà a scrivere, si dovrebbe dire) i nessi ideali e l'essenza stessa di tutte le relazioni.
Si delinea così quella "comunanza dei generi" (koinonìa ton ghenòn) che caratterizza la nuova visione platonica del mondo delle idee: le idee, i "generi" appunto, sono tra loro in connessione secondo relazioni determinate.
Non basta dunque asserire, come faceva Parmenide, che tutto ciò che è, è "essere".
Un essere siffatto, che non si collega con niente altro, né con l'uno né col molteplice, né con la quiete né col moto (e che quindi non è né in quiete né in moto, né uno né molti), equivale al puro niente.
Ogni idea, invece, è un'unità di essere che si mescola con molte altre.
In altri termini, un sistema di relazioni, di rapporti che "mescolano" tra loro le idee secondo un disegno ordinato.
Si tratta di stabilire volta per volta, mediante la dialettica e le sue definizioni, quali relazioni di identità e di differenza siano in gioco per ogni idea.
E così lo Straniero elenca anche quei quattro generi sommi, o idee generali, che, accanto all'essere, rendono possibile la comunanza delle idee nel loro complesso.
Così Platone indica il definitivo superamento della dottrina eleatica: la dottrina del principio separato, del genere sommo, è il segno che Platone ormai intende l'idea come una struttura interna alla realtà, la cui funzione fondamentale è indicata nel dar forma alle cose, di per sé altrimenti informi a causa della materia che le costituisce: e questo principio è verificato in primo luogo nel campo pratico.
L'errore, dunque, come abbiamo già notato, consiste non nell'affermare ciò che in assoluto non è, ma nello stabilire connessioni errate, non rispondenti al vero, cioè non corrispondenti alle reali connessioni che legano le idee.
A questo punto Platone è in grado di definire, in modo esatto e coerente, che cosa si debba intendere con le parole "pensiero", "sensazione" e "opinione".
È un passo che si può considerare in ogni senso decisivo, in forza del quale possiamo intendere la nascita della filosofia come vera e propria scienza. Anche i presocratici avevano parlato di pensiero e gli avevano attribuito il compito di intendere la verità (per esempio Eraclito, Parmenide e Anassagora).
Nessuno di loro aveva però inteso la natura "dialettica" del pensare; e così il pensiero si era configurato come una intuizione privilegiata della verità o dell'essere, una intuizione di tipo diretto e immediato.
In tal modo, però, il pensare non si caratterizzava in modo diverso da quella immediata intuizione delle cose che è fornita dalla sensazione: come allora distinguerli? Pensare o sentire non fanno differenza, e così si comprende che Protagora potesse ridurre il primo al secondo. Ne consegue che tutto si risolve in mere opinioni, relative e mutevoli.
Ora invece Platone è in grado di porre distinzioni essenziali tra pensare, sentire e opinare. Egli delinea in tal modo, per la prima volta, una compiuta descrizione dell'anima, distinta nelle sue tre principali attività: pensiero, opinione e sensazione.
Ai suoi estremi stanno il sentire (che è la pura ricettività del corpo) e il pensare (che è l'attivo ragionare, il dialogare muto dell'anima con se stessa).
Ma come mediatore si pone l'immaginare: attività mista che, muovendo dalle sensazioni, perviene a conclusioni verosimili (a opinioni, appunto), le quali tuttavia possono essere sia vere sia false. La sensazione, si potrebbe dire, è un fatto fisico, materiale.
Ma le immagini che ne derivano all'anima sono, diremmo oggi, un fatto "psichico", un immaginare interiore, che corrisponde allo stato del corpo che sente, cioè alle sensazioni del nostro corpo, ma non è detto che corrisponda allo stato oggettivo della cosa di cui opina: "Oggi è caldo" può dipendere semplicemente dalla nostra sensazione e non corrispondere del tutto al clima reale. Se uno è febbricitante percepirà un caldo eccessivo che non corrisponde affatto al clima.
A questa" oggettività" della cosa non perveniamo mediante sensazioni e opinioni soggettive, ma con un pensare razionale (dialettico) che è fondato per tutti su come la cosa "è" (su come sono e sono definibili le idee o forme di essa), e non per come io la sento o me la immagino.
Ed è appunto il ricorso all'immagine la mossa vincente e risolutiva di Platone: posta a mezza via tra il vero e il falso, tra le ombre del sensibile e la luce dei concetti veridici, l'immagine rende possibile la spiegazione dell'errore e la collocazione del sofista tra coloro che producono opinioni illusorie, cioè appunto discorsi che, pur essendo in loro stessi "qualcosa" (e non nulla), tuttavia non corrispondono ad alcuna cosa reale.
Nasce in tal modo, dobbiamo aggiungere, una nozione di anima come mondo interiore e soggettivo, capace di immagini, contrapposto al mondo esteriore delle "cose stesse”.
Platone precisa ulteriormente il suo punto di vista con le seguenti distinzioni: c'è il pensiero che, scaturendo dall'anima, si esprime nei suoni della voce; c'è il pensiero silenzioso che l'anima produce in se stessa e che mette capo a opinioni.
In entrambi si procede per affermazioni o negazioni (si afferma o si nega qualcosa relativamente a qualcosa; per esempio si dice: "La neve è bianca" o "La neve non è bianca").
Quando invece l'opinione si produce sulla base della sensazione, allora essa mette capo a una fantasia, a un'immagine o immaginazione. In tal modo la capacità dell'anima di immaginare viene da un lato collegata al discorso (poiché mette capo a un'opinione), dall'altro alla sensazione.
Questa attività mista dell'anima è così passibile di errore: alcune immagini che l'anima si fa, mossa dalle sensazioni, producono opinioni che sono meramente illusorie, mere "apparenze", appunto; altre invece saranno opinioni vere. Così viene offerta una soluzione al problema dell’errore superando il relativismo dei Sofisti.
Infatti è vero che quello che uno sente lo sente così come lo sente (io sento caldo, tu senti freddo e per ognuno dei due questa è una "verità" inconfutabile). Ma ciò che la sensazione mostra all'anima, provocando in essa una corrispondente opinione ("Oggi fa caldo", "Oggi fa freddo"), non è per questo equivalente a come la "cosa" è in sé ("Oggi è caldo", "Oggi è freddo").
Questa complessa relazione tra pensiero, opinione e sensazione si approfondisce ulteriormente nel Filebo.
Il punto di partenza del dialogo trae spunto dal riprendere il giudizio limitativo del Gorgia sul piacere.
Protarco, che sostituisce Filebo nella discussione, sostiene la tesi secondo cui per tutti gli esseri viventi il bene consiste nel piacere (ἡδονή); Socrate ritiene l'attività dell'intelligenza preferibile al piacere.
Per risolvere la controversia, i due devono partire da una definizione del piacere, il quale si manifesta in molti modi differenti.
Il filosofo richiama così il proprio interlocutore a un uso più attento dei termini del discorso, poiché i piaceri non sono tutti uguali, solo alcuni sono buoni e la maggior parte malvagi.
La stessa cosa d'altra parte, come Socrate non tarda a osservare, vale anche per la scienza e l'intelligenza.
Quella che si pone è quindi anzitutto una questione di metodo, che parte dall'analisi del rapporto uno-molti non tra le cose sensibili (come l'uomo o il bue) ma tra realtà estranee a nascita e corruzione (cioè tra Idee) come il bello o il buono:
«Per prima cosa si deve accettare il principio secondo il quale alcune di queste unità esistano veramente. In seguito si deve esaminare come queste unità, ammettendo che per ciascuna si tratta di un'unica entità sempre uguale a sé stessa e che non accoglie in sé né nascita né corruzione, possa tuttavia mantenersi saldamente come una unità.
Dopo di ciò si deve considerarla sia divisa nelle cose che sono generate e infinite, divenendo molteplice, sia nella sua interezza e separata da sé stessa, cosa che fra tutte sembrerebbe la più impossibile, ovvero che sia una e identica nell'uno e nei molti contemporaneamente».
(Filebo 15b)
Anche gli antichi, continua Socrate, sapevano che le cose hanno in sé il seme della finitezza e dell'infinitezza. Il rapporto uno-molti è infatti connaturato al logos, che per l'uomo è l'unico mezzo di accesso alla conoscenza.
È dunque necessario osservare le cose e ricondurle tutte a un'idea, risalendo fino a scoprire che questa non solo è unità, ma ha anche una struttura numerica, la quale collega l'unità originaria all'infinitezza.
Per poter dirsi esperti bisogna conoscere l'unità, ma per farlo è necessario partire dal numero dei molti.
Esempi di ciò sono l'alfabeto e la musica: Socrate afferma che nell'infinitezza della voce è riconoscibile un certo numero di vocali, e che non è possibile conoscere una lettera senza conoscere le altre, creando così le regole della grammatica che le uniscono tutte.
Ascoltato il discorso relativo a unità e molteplicità, Filebo e Protarco richiamano l'attenzione sul tema di partenza, il piacere.
Prima però Socrate dice di volersi concentrare su alcuni aspetti, primo tra tutti il fatto che il Bene è autosufficiente, cioè viene ricercato per sé stesso. Piacere e intelligenza devono essere esaminati separatamente: se dipendessero l'uno dall'altra, non sarebbero autosufficienti e quindi non sarebbero il Bene.
Tuttavia Protarco è costretto ad ammettere che non sono auspicabili né una vita di solo piacere né una di sola sapienza: nel primo caso si avrebbe il piacere ma non la coscienza di esso, mentre per il secondo si prospetta un'esistenza priva di emozioni.
Per gli uomini è dunque necessario un misto di piacere e conoscenza. Diversa è invece la condizione degli dei, che possono dedicarsi esclusivamente alla scienza: questo è il motivo per cui Socrate dice a Protarco che lo stile di vita misto appena descritto si colloca al secondo posto nella scala dei desiderabili.
Resta però da chiedersi che rapporto vi sia tra piacere e conoscenza.
Per rispondere, Socrate distingue la realtà in quattro generi: finito (pèiras) infinito (àpeiras), misto tra finito e infinito, causa della mescolanza.
Nel genere dell'infinito, che corrisponde alla molteplicità, rientrano tutte le cose che ammettono un più o un meno (come il caldo o il freddo), che sono quindi senza limite.
Al finito, invece, vengono ricondotte tutte le altre cose che sono determinate in modo preciso, come le forme geometriche.
Al terzo genere, risultato della mescolanza dei precedenti due, appartengono le cose che sono proporzionate, generate ponendo una misura all'infinito attraverso il limite.
Resta così da trovare il quarto genere, e Socrate lo individua nella causa della mescolanza, ovvero ciò che agisce modellando tutte le cose, mischiando finito e infinito.
Piacere e dolore si collocano nel primo genere: essi infatti ammettono gradazioni, e pertanto rientrano nel novero dell'illimitato. Non così è invece per la scienza, la quale richiede la proporzione e l'armonia garantita dal quarto genere: nell'uomo esso corrisponde all'anima, nel cosmo all'intelletto ordinatore.
Fatte queste premesse, Socrate e i suoi interlocutori possono ora dedicarsi all'analisi dei piaceri e alla nascita del desiderio, il quale ha origine nell'anima, non nel corpo: per esempio, una cosa è la sete, che deriva da una mancanza, altra è il desiderio di bere, che invece nasce nell'anima allo scopo di colmare il vuoto.
Questo parallelismo permette a Socrate di dimostrare che i piaceri possono essere cattivi: non sempre i piaceri e i dolori sono veri ma, così come le opinioni, possono anche essere falsi, poiché infatti capitano casi di persone che pensano di provare piacere senza che ciò avvenga realmente. Socrate si sofferma quindi sull'origine delle opinioni nell'anima:
«Mi sembra che la memoria, combinandosi insieme alle sensazioni, e quelle disposizioni dell'anima, che si verificano in questa situazione, talvolta scrivano quasi delle parole nella nostra anima: e quando viene scritto il vero, accade che in noi vi siano delle opinioni vere e veri discorsi, ma se questo scrivàno che è dentro di noi scrive il falso, deriveranno cose opposte alla realtà».
(Filebo 39a)
Il filosofo continua affermando che, in conseguenza di quanto detto, i malvagi hanno opinioni sbagliate e quindi godono di piaceri fallaci, mentre ai giusti accade il contrario.
Con la riflessione sul rapporto tra memoria e parola interiore Platone riafferma sia il primato dell'anima sia il significato del linguaggio che è responsabile della verità o falsità delle nostre affermazioni.
L'unificazione delle sensazioni avviene nell'anima in quanto raccolta e ordine della molteplicità, come il grammatico dalla pluralità dei suoni e delle lettere trova l'unità della lingua.
Siamo così giunti a un punto di sintesi dell'intero arco dei dialoghi consacrati al rapporto tra Uno (l'essere nella sua priorità astratta) e molteplicità. Il molteplice è un carattere costitutivo dell'essere: già il Teetèto insegnava che l'essere in quato identificazione è anche diversificazione e poneva la relazione alla base della conoscenza dell'essere assieme al rapporto unità, molteplicità della quantità e alla somiglianza e dissomiglianza della qualità.
Questa costatazione si è approfondita nel Sofista dove i cinque generi dicono che la relazione e quantità dell'essere riconosciuti nel Teetèto sono la forma stessa del mondo superiore ricco e plurale perciò identico in ogni sua parte ma in relazione con tutte le altre.
Perciò la relazione si ritrova come legame che mantiene l'unità nella complessità del'essere: solo dove ci sono molte realtà (quantità) si può cogliere l'unità come relazione che unifica diversificando.
Unifica, perchè tutte quante sono se stesse, e diversifica perchè ogni singola realtà e identica in sé, ma solo in relazione con le altre può cogliere l'unità.
Se possono confrontarsi è perchè tutte quante sono: diverse ma essere.
Dunque, se ci sono i generi sommi che spiegano come mai l'essere, come dice il Teeteto, è relazione e quantità allora attraverso il Filebo vediamo come questa realtà superiore, descritta dai generi sommi del Sofista, si esprime nel molteplice del mondo inferiore.
L'anima è causa della scienza perchè partecipando al mondo superiore delle vere forme della realtà, le Idee, lei sola può misurare il mondo sensibile ed evitare di abbandonarlo al caos.
I Sofisti avrebbero ragione solo se ci fosse solo l'indefinito, l'infinito. E Parmenide solo se ci fosse il finito, la razionalità chiusa e perfetta.
Ma il misto causato dall'anima mostra la possibilità della doxa vera, cioè la conoscenza della realtà molteplice dell'esperienza che può cogliere l'errore e la falsità.
La doxa non è più opposta alla verità, come sinonimo di errore o di sapere sofistico, ma si distinguono e si valorizzano, in essa, taluni aspetti che l'avvicinano alla verità.
Non solo nell'ambito della vita pratica, in cui se ne era sempre riconosciuto il valore, ma anche nella scienza trova spazio e significato la distinzione tra opinione vera e falsa.
Questa distinzione assegna all'opinione vera (da cui lo studio della natura non può prescindere) un ambito distinto e provvisorio di validità, non incompatibile - anche se non coincidente - con quello della verità filosofica.
È una conciliazione con la vita concreta, parallela all'inserzione delle idee nella realtà concreta. Va però aggiunto che tale processo non giunge a conclusione in Platone: il suo ideale della conoscenza rimane in definitiva legato a un'idea intellettualistica, non empiristica, di verità.
Filo conduttore di questa immensa ricostruzione è - non a caso - la misura, in cui le forme distinte delle idee sono sostituite da un principio unico d'ordine, forse più generico ma assai più flessibile: questa è la proposta finale del Timeo, simboleggiata nell'opera "mediatrice" del Demiurgo che dà ordine alle cose realizzando in esse le forme mediante leggi matematiche.
Solo le idee (e, in misura minore, le verità matematiche) sono conosciute a priori dall'intelligenza, ossia senza il ricorso all'esperienza. Pertanto, possono diventare oggetto di un sapere deduttivo, qual è la dialettica filosofica.
Essa infatti "discende" da un'idea all'altra, ricava una verità particolare da un'altra verità più generale, senza fare riferimento all'osservazione o alla conferma dei sensi. La natura, invece, ci è nota attraverso la sensazione e la conoscenza, che da tale base prende le mosse, non può pretendere di raggiungere la certezza dimostrativa di un sapere definitivo.
La scienza naturale è dunque un sapere congetturale e probabile, che non giunge, come la filosofia, a una verità assoluta.
Ciò non esclude, tuttavia, che anche la conoscenza della natura possa avvicinarsi per gradi all'esattezza della conoscenza filosofica, se assume come ipotesi verosimile l'esistenza di una struttura razionale, di un modello ideale che ha presieduto alla sua formazione.
La natura è infatti composta da quattro elementi semplici (fuoco, aria, acqua, terra). Lo spazio, che deve accogliere i quattro elementi, è un "ricettacolo" (chora) informe, da cui solo gradualmente emergeranno le forme visibili dell'universo. Per adattare allo spazio i quattro elementi e generare, dalla loro ordinata mescolanza, il mondo empirico dei corpi, il Demiurgo si serve di figure geometriche regolari (solidi tridimensionali, a più facce piane).
Queste sono, a loro volta, generate dalla reiterazione di figure più elementari: triangoli rettangoli isosceli o scaleni, dalla cui combinazione (per aggiunta o per rotazione) si originano tutte le superfici possibili.
L'universo, nella sua costituzione perfetta, è finito anziché (come ritenevano altre cosmologie antiche) infinito. Il dodecaedro (il più perfetto dei solidi regolari) corrisponde alla forma totale dell'universo: la più simile a quella perfetta della sfera.
Volutamente Platone presenta questa dottrina come un discorso "umano", cioè puramente probabile, ma nella sua articolazione fissa i risultati ultimi della sua riflessione sulla realtà: da un lato il finalismo, che guida l'azione del Demiurgo in funzione del bene; dall'altro il matematismo, che realizza la trasformazione delle idee in principi d'ordine.
Il Demiurgo ha introdotto un ordine nel caos delle origini, avendo di mira una perfezione ideale espressa dall'idea del Bene, l'idea cioè di determinare «il migliore dei mondi». A differenza del Dio biblico, il Demiurgo non crea il mondo dal nulla, ma conferisce forma e struttura razionale a una materia preesistente.
Il Demiurgo è simbolo dell'intelligenza o del finalismo riscontrabili nell'universo, la materia esprime invece la resistenza, la casualità che la ragione incontra nella spiegazione degli aspetti più particolari e determinati della formazione del mondo corporeo.
La divinità, anziché in una posizione di separatezza e indifferenza nei confronti della natura, appare qui in un ruolo di preveggenza ordinatrice, anche se incontra un limite irrazionale nella materia.
La materia impone cioè un limite all'ordinamento formale e al principio finalistico concepiti dal Demiurgo. Perciò la natura non può mai adeguarsi all'ordine perfetto delle idee, ma solo imitarlo imperfettamente, nei limiti fissati dello spazio e del tempo.
Nel Timeo Platone dà questa definizione del concetto di tempo: esso è «l'immagine mobile dell'eternità».
Generalmente, in Platone il tempo è sinonimo di divenire sensibile ed è il simbolo stesso della «irrazionalità» degli oggetti della doxa, del loro nascere e perire, del loro perenne mutare e non essere.
La pretesa di conoscere ciò che è nel tempo e che cosa sia il tempo appare assurda, non potendosi dare alcuna stabilità in questo ambito dell'esperienza. Invece, nel Timeo, il tempo misurato oggettivamente dai movimenti del cielo e degli astri diviene l'immagine sensibile più vicina alla perfezione ed eternità delle idee.
Muovendosi circolarmente e con moto uniforme, nel proprio "luogo", il cielo sembra volere imitare o esprimere sensibilmente l'eternità immobile delle idee.
Il moto perennemente ripetitivo degli astri, che riappaiono ciclicamente nell'esatta posizione in cui si trovavano all'inizio del loro movimento, esprime sensibilmente l'aspirazione del moto alla quiete, del mutevole all'identico, del temporaneo all'eterno. Platone distingue infatti due tipi di temporalità e di movimento: il modo uniforme e ciclico, con cui si muovono il cielo e gli astri, e la successione irregolare, che si constata nei movimenti casuali dei corpi sensibili.