Il Parmenide (in greco Παρμενίδης), scritto presumibilmente tra il 368 e il 361 a.C., appartiene ai cosiddetti dialoghi dialettici. Conosciuto come l'opera più complessa ed enigmatica di Platone, narra il dialogo avvenuto tra gli eleati Parmenide e Zenone, ad Atene in occasione delle Grandi Panatenee, e il giovane Socrate - dialogo quasi sicuramente mai avvenuto.
Cefalo, voce narrante del dialogo, racconta di come, con alcuni filosofi di Clazomene, una volta giunto ad Atene abbia chiesto a Glaucone e Adimanto di essere condotto da Antifonte, in modo da farsi raccontare la discussione avvenuta tra il vecchio Parmenide, Zenone e il giovane Socrate - dialogo che lo stesso Antifonte non ha ascoltato in prima persona, ma di cui ha sentito parlare da Pitodoro. Il Parmenide si presenta così fin dall'inizio nella forma del dialogo riportato, costruito su quattro livelli: tale scelta è stata interpretata come una ulteriore prova da parte dell'autore che la discussione presentata non è storicamente mai avvenuta. D’altra parte, i riferimenti cronologici in nostro possesso non permettono di affermare che il giovane Socrate abbia mai potuto dialogare con l'anziano Parmenide.
L'opera appare divisa in due parti, di estensione diseguale. Dopo un breve cappello introduttivo, in cui Socrate attacca le posizioni assunte da Zenone per difendere il maestro (126a1-127d6), si entra nel vivo del dialogo: nella prima parte (127d6-135c7), sotto forma di dialogo indiretto, Parmenide discute con Socrate la dottrina delle idee, sollevando tre pesanti obiezioni apparentemente irrisolvibili; segue la descrizione da parte di Parmenide di un metodo ipotetico per indagare la verità (135c8-137c3), da cui si passa infine alla seconda parte del dialogo (137c4-166c5), la più lunga e complessa. Qui lo stile si evolve in dialogo diretto tra Parmenide e il giovanissimo Aristotele («quello che divenne uno dei Trenta», allora undicenne, non il filosofo), in cui il filosofo mostra un esempio del metodo di indagine appena delineato analizzando le due ipotesi tra loro opposte "se l’uno è" (εἰ ἔν ἐστι) e "se l’uno non è" (εἰ μή ἔστι τὸ ἔν). Sviluppando quattro conseguenze per ognuna delle due ipotesi, il filosofo giungerà alla fine del dialogo a delle conclusioni aporetiche per entrambi i casi.
Nella casa di Pitodoro, in cui si trovano riuniti Parmenide con l'allievo Zenone, il giovane Socrate, il giovanissimo Aristotele (non il filosofo) e altri due ospiti anonimi, Zenone dà lettura di un proprio scritto in cui, difendendo le affermazioni del maestro, attacca quanti ammettono la molteplicità degli enti: se infatti gli enti fossero molteplici, sorgerebbero infinite contraddizioni, col risultato che di ogni ente si dovrebbe dire che è al tempo stesso uno e molteplice, simile e dissimile, e via discorrendo. A tale conclusione Socrate però obietta che i molti possono sì esistere, se partecipano di alcune unità da cui traggono il nome: per esempio, diciamo "simili" tutte le cose che partecipano di un’idea della "somiglianza". Non ha dunque senso meravigliarsi che le cose, i molti, siano simili e dissimili allo stesso tempo; piuttosto ci si dovrebbe meravigliare se il simile in sé diventasse dissimile, e viceversa (129a).
Parmenide tuttavia non tarda a mostrare al proprio giovane interlocutore alcune difficoltà che sorgono da quanto ha appena detto. Non è infatti da escludersi che Platone abbia voluto rappresentare, per bocca del giovane Socrate, alcune istanze giovanili della propria filosofia, di cui analizza le possibili contestazioni. Una prima obiezione, di carattere generale, riguarda la natura delle idee: l'eleate infatti immagina la possibilità che, accanto alle idee di giusto e bene, uguaglianza e grandezza, esistano anche quelle di uomo e acqua, o addirittura quelle decisamente ridicole di capello o fango. Socrate si dice sicuro dell'esistenza delle idee di bontà e grandezza - affermando quindi la natura assiologica delle idee -, mentre esprime perplessità circa le idee di uomo e acqua, e riconosce l'assurdità delle idee di capello o fango. Parmenide prosegue allora con altre tre obiezioni più specifiche.
La prima difficoltà riguarda la partecipazione (mètexis) dell'idea con l'oggetto sensibile: «ciascun oggetto che partecipa [di un'idea] partecipa dell'intera idea o di una parte»? Socrate tenta di proporre un paragone con il giorno, che pur essendo uno illumina varie terre, oppure con un lenzuolo che copre vari uomini. Tuttavia, nel caso del lenzuolo, esso non potrà essere per intero su ciascun uomo, ma solo per una sua parte. Se ne deduce che anche per quanto riguarda l'idea, essa dovrà essere divisa in tante parti, quante gli oggetti che ne partecipano (130e4-131e9).
Parmenide pone a Socrate una seconda difficoltà, che il filosofo Aristotele successivamente definirà "del terzo uomo". Se si pensa che tutte le cose grandi, tra di loro, abbiano qualcosa che le accomuni, ovvero la partecipazione al grande in sé, allora è plausibile pensare anche che tutte le cose grandi, a loro volta, abbiano qualcosa in comune con il grande in sé: ecco allora apparire una seconda idea di grandezza, di cui partecipano sia gli oggetti grandi sia l'idea di grande. Allo stesso modo, è però possibile ipotizzare che vi sia qualcosa che accomuni il grande in sé, gli oggetti grandi e la nuova essenza appena trovata, ipotesi che porterebbe alla comparsa di un'ulteriore idea di grandezza, innescando così un processo infinito (132a1-b2). A nulla giova l'ipotesi di Socrate per cui le idee potrebbero esistere solo nel pensiero; da ciò infatti Parmenide conclude che «o ciascuna cosa consiste di pensieri e tutte pensano oppure esse, pur essendo pensieri, sono prive di pensiero» (132b3-c11). Socrate ipotizza allora che le idee possano essere modelli fissi, di cui le cose sensibili sono solo copie. In questo caso la partecipazione delle cose alle idee altro non sarebbe che «l'essere foggiate come immagini di esse». Tuttavia in questo modo si ricade nell'obiezione del "terzo uomo" (132b4-133a10).
Si tratta della più pesante teoreticamente. Se le idee sono veramente entità in sé, aventi sostanza in rapporto a se stesse, esse diventano allora per noi inconoscibili, in quanto occuperebbero un piano ontologico a se stante rispetto a quello umano/sensibile. Stando così le cose non solo sarebbe per noi impossibile conoscere il bello o il bene in sé, ma accadrebbe che persino gli dèi, detentori della scienza in sé (episteme), non sarebbero in grado di conoscere gli oggetti sensibili presenti nel mondo degli uomini - conclusione a dir poco assurda:
«-E ancora non hai visto (b) la difficoltà più grave, a voler porre ogni Idea come una e distinta.
-Quale difficoltà?, chiese.
(134b) -Le Idee in sé, come tu stesso dici, non sono sul piano della nostra esperienza.
-No, infatti.
-E ciascuna di esse non potrà essere oggetto se non della scienza in sé.
-Sì.
-Scienza che però noi non possediamo.
-No.
-Dunque, nessuna Idea è da noi conosciuta, perché non partecipiamo della scienza in sé.
-Sembra di no.
-Sarà dunque inconoscibile per noi il bello in quanto tale, e il bene in quanto tale, e tutto ciò che noi ammettiamo come Idea in sé.
-Può essere vero, riconobbe. (135b)
-E d'altra parte, Socrate, concluse Parmenide, se non si ammette che esistano le Idee delle varie realtà, non si avrà un punto di riferimento per il pensiero, (c) e si distruggerà la forza della dialettica.
-Questo è vero, affermò.»
Concepite separate dalla realtà empirica, le idee finiscono per non poter nemmeno essere oggetto di conoscenza: tuttavia, Platone ribadisce che senza esse non c'è "punto di riferimento per il pensiero". Gli ultimi dialoghi rappresentano appunto la ricerca della "mediazione" tra l'''inseità'' delle idee e la loro "presenza" nell'esperienza; e tale ricerca comincia dalla discussione delle ipotesi sull'Uno del Parmenide.
La lettura del Parmenide pone di fronte al complesso rapporto tra il pensiero di Platone e l’Eleatismo. Anzitutto, la scelta del personaggio di Parmenide come conduttore del dialogo indica la volontà da parte dell’autore di mostrare le affinità tra la propria filosofia e quella dell'eleate. Parmenide ed Eraclito erano visti da Platone come gli iniziatori della filosofia, riconducibili ai due filoni di pensiero: Parmenide-Zenone-Gorgia ed Eraclito-Protagora. Scegliendo Parmenide come conduttore del dialogo, dunque, Platone ha voluto da un lato sottolineare il suo debito nei confronti del monismo eleatico, e dall'altro dimostrare l’assurdità di una simile unità assoluta.
Non è infatti possibile spiegare il molteplice in riferimento a se stesso, poiché esso richiede il riferimento ad un’unità fondativa - ragion per cui unità e molteplice sono inseparabili. D’altra parte, l’unità del molteplice non è altro che un insieme di unità e molteplicità relative, su cui avrà il compito di indagare la filosofia attraverso la dialettica. Le idee sono dunque quegli enti primi, eterni e immobili di cui partecipano le cose sensibili. Esse rimangono sempre identiche, in sé e per sé, e separate dal mondo sensibile a causa della propria superiorità ontologica: solo attraverso il ragionamento sarà possibile conoscerle, in modo da conoscere così i criteri di ragionamento assoluti fondativi della vera conoscenza, dell'etica e della politica.
In secondo luogo, la partecipazione degli oggetti alle idee viene interpretata da Socrate sia come "presenza" che come "somiglianza", ma in entrambi i casi non si è al riparo da critiche e obiezioni (si pensi alle tre difficoltà sollevate da Parmenide nella prima parte): le idee devono allora essere postulate, in maniera tale da salvare il pensiero.
Solo in questo modo è possibile spiegare l'indirizzo del pensiero e della filosofia. In caso contrario, come affermato dallo stesso Parmenide in 135c-d, non si saprebbe che fare della filosofia, dal momento che, negando le idee, verrebbe meno lo scopo dell'indagine filosofica, che è appunto quello di indagare le verità somme attraverso la dialettica.
Per le sue difficoltà e complicazioni intrinseche, l'interpretazione del Parmenide platonico ha sempre costituito uno dei problemi più difficili che la critica storica ha dovuto risolvere. Esaltato da alcuni e in primo luogo dallo Hegel, come il capolavoro della logica e della dialettica antiche; ad altri è invece sembrato un puro "gioco", oppure un dialogo incompleto, mancante dell'ultima parte, riservata alle conclusioni positive. Ad altri ancora, infine, esso è parso come l'opera in cui Platone compie lo sforzo più poderoso per definire in modo rigoroso la sua ontologia e la sua metafisica. È inutile dire che l'atetesi si è accanita contro questo dialogo più che contro qualsiasi altro.
Tuttavia la ricostruzione dell'evoluzione filosofica di Platone si incontra a questo punto con quell'interpretazione di questo dialogo che la critica moderna sempre più consenziente, è venuta delineando nel quadro generale dei rapporti tra Platone e la filosofia eleatica.
L'esame critico di questa filosofia, infatti, si imponeva ormai a Platone per una ragione di fondo: la considerazione, cioè, che i caratteri melissiani con cui Platone aveva delineato la sua dottrina ontologica non erano sufficienti a garantire la molteplicità degli eide dal riaffiorare della fondamentale contraddizione parmenidea.
Ciascun eidos "è" se stesso e, nello stesso tempo, "non è" gli altri e, cosi, quella compresenza di essere e di non essere, per cui Parmenide aveva negato la realtà del molteplice, tornava a intaccare alla radice la possibilità stessa della molteplicità degli eide. Allorché Platone, ormai vecchio, prende coscienza di questa difficoltà che minacciava di far crollare tutto il suo edificio speculativo, e anziché indulgere alla "misologia", si accinge al confronto con l'eleatismo e al ripensamento della sua filosofia con "impeto" giovanile (e non a caso è un Socrate giovane, accusato di inesperienza filosofica, quello che nel Parmenide discute con il vecchio Parmenide e il maturo Zenone), dandoci cosi uno degli esempi più entusiasmanti di "vita filosofica" e, nello stesso tempo, pervenendo a risultati per molti aspetti nuovi, in cui l'esigenza scientifico-razionale e la dialettica prendono un posto sempre più preminente.
Platone avverte molto bene che la polemica eleatica contro il molteplice è il nodo cruciale del problema e dichiara che la sua dottrina dei “generi” e delle “specie” è stata elaborata proprio con lo scopo di evitarne le aporie. Cosi infatti Socrate si volge a Zenone, il quale aveva precedentemente sostenuto che, se si ammette che gli enti sono molti, si è poi costretti ad ammettere che essi sono tutti simili e tutti dissimili:
«Ma dimmi questo: non ritieni che vi sia un eidos, in sé e per sé, della somiglianza, e un altro contrario di questo, che è dissimile, e che di questi, che sono due, partecipiamo ed io e te e tutte le altre cose che diciamo molteplici? E che quelle cose che partecipano della somiglianza sono simili, almeno nella misura in cui ne partecipano, quelle che partecipano della dissomiglianza sono dissimili, e quelle che partecipano di entrambe sono simili e dissimili? E cosa c'è di strano e di meraviglioso se ogni cosa partecipa di questi due opposti e per questa doppia partecipazione risulta che le stesse cose siano simili e dissimili; se, difatti, qualcuno potesse mostrare che le stesse cose simili diventano dissimili e le stesse cose dissimili diventano simili, questo, io penso, sarebbe veramente un prodigio, mentre invece non mi pare per nulla strano, o Zenone, che ciò che partecipa di ambedue gli opposti venga dimostrato affetto da ambedue le affezioni che essi rappresentano. Cosi non è assurdo mostrare che tutto è uno per il fatto che partecipa dell'unità e che lo stesso tutto è molteplice perché partecipa della molteplicità [ ... ]. Quando dunque riferendosi ad oggetti di questo tipo, uno si proverà a dimostrare che lo stesso oggetto è uno e molteplice, per esempio pietre, legni e simili, noi diremo che dimostra che qualcosa è una e pure molteplice, ma non che l'eidos dell'uno come tale è molteplicità, e che l'eidos della molteplicità come tale è unità» (Parm., 129 a-d).
Ma proprio a questo punto interviene Parmenide per sottolineare le difficoltà che nascono dall'ammettere «da una parte i generi del reale, presi come tali e dall'altra le cose che ne partecipano» (130 b). E, innanzi tutto, non è ragionevole ammettere gli eide del giusto, del bello, del bene, ecc. e poi rifiutare quelli delle cose più vili, come il fango, il sudiciume, ecc., perché per la scienza non ci sono cose più belle e più vili e i caratteri costitutivi della realtà non ammettono distinzioni di questo tipo. Ma le maggiori difficoltà nascono quando si analizza il concetto di partecipazione, perché il dissidio tra la logica della visione e logica della parola si apre all'interno stesso del mondo delle idee; vi sono idee di cose visibili (ad es., uomo, cavallo, ecc.), di cose invisibili (ad es., il giusto, il vero, ecc.) e vi sono idee di relazioni, che non sono esse stesse “cose” (ad es., eguaglianza, grandezza, ecc.). Duplice è quindi il criterio di assunzione degli eide, da un lato l'identità di “visione” e dall'altro l'identità di “nome”. È da qui che nascono tutte le difficoltà in cui ci si imbatte, quando si provi a spiegare come una cosa visibile partecipa della sua "forma" e poi di tutte quelle altre idee che sono richieste dai "nomi" che qualificano i suoi rapporti con altre cose. Difficoltà destinate ad accrescersi quando si passa a considerare ciascun eidos in se stesso e in rapporto con gli altri: in un mondo delle idee che sia concepito come visivo modello di quello empirico non dovrebbero trovar posto quegli eide che non corrispondono a “cose”, ma a “relazioni” e a “nomi”.
Tali aporie appaiono insormontabili. Ciascuna delle molteplici cose sensibili partecipa di tutto l'eidos o solo di una parte di esso? Nessuno dei due casi è possibile, perché nel primo l'eidos, sarebbe, per cosi dire, «separato da se stesso» tante volte per quante volte sono molteplici le cose in cui è presente, e nel secondo caso esso risulterebbe composto di tante parti quante sono le cose che ne partecipano. In altri termini, in entrambi i casi l'eidos perderebbe il suo peculiare carattere di essere "uno". E vi è ancora un'altra difficoltà:
«Penso che questa sia la ragione per cui tu pensi che ciascun eidos sia una unità: quando a te sembra che vi sia una molteplicità delle cose grandi, allora forse ti sembra che vi sia una certa idea, unica e identica per colui che osserva tutte le cose molteplici, e per questo tu ritieni che il grande sia una unità. - Tu dici il vero, dissi. - E che avverrà se tu guardi con la tua anima a questo modo a tutte queste cose, cioè al grande in sé e a tutte le cose grandi? Non apparirà ancora un altro "grande", unico, grazie al quale tutte le cose necessariamente appaiono grandi? - Sembra. - Apparirà quindi un altro eidos della grandezza, oltre alla grandezza in sé e alle cose che ne partecipano; e altre a tutti questi sempre un altro ancora, grazie al quale tutte queste cose saranno grandi; cosicché non sarà più per te uno solo ciascuno degli eide, ma infiniti di numero» (Parm., 132 a-b).
È questo il famoso argomento che, dalla celebre formulazione aristotelica, vien chiamato del "terzo uomo" e che già era stato avanzato dal sofista Polisseno, eleatizzante nel senso della scuola di Megara. Un semplice sguardo, del resto, a questa sezione del Parmenide, fa vedere quanto fossero dibattute da Platone stesso, nel seno dell'Accademia, quelle questioni relative alla dottrina delle idee che saranno poi riprese da Aristotele nelle sue obiezioni. Ulteriori difficoltà nascono dal supporre che gli eide non siano altro che nostri pensieri esistenti solo nella nostra mente, perché essi saranno pur sempre pensieri di "qualcosa che è" e inoltre dall'ammettere o meno che tutte le cose partecipino ad essi, ne consegue rispettivamente che tutto o nulla è pensiero. Si dovrà dunque pensare che tale partecipazione è solo un'imitazione (mimesis) di una"copia" ad un modello?
Ma anche per questa via non si sfugge al pericolo di ricadere alternativamente nell'argomentazione ad infinitum del "terzo uomo" e nella relatività degli eide. E infine l'ultima e più e radicale difficoltà: quella di concepire realmente gli eide come assoluti, "separati" e trascendenti le cose sensibili. Giacché se si vuole tener fermo questo punto, bisogna concludere poi che gli eide possono bensì essere relativi tra loro, ma non relativi a noi (lo schiavo empirico è schiavo del padrone empirico e non del padrone "in sé", che a sua volta sarà padrone dello schiavo empirico e non dello schiavo "in sé"): gli eide sono quindi inconoscibili (altrimenti tornerebbero ad essere relativi a noi, e non più per sé), il loro rapporto con le cose è di pura "omonimia", cioè una identità di nomi a cui non corrisponde nessun nesso reale, e perciò il mondo delle idee è un "doppione" del nostro mondo, la cui conoscenza in sé può appartenere solo a Dio, il quale però, proprio per questo, si troverebbe allora nell'assurda situazione di non poter conoscere il nostro mondo visibile.
Giunti così all'estremo della difficoltà e non potendosi, d'altra parte, assolutamente rinunciare ad ammettere l'esistenza degli eide, perché altrimenti verrebbe meno qualsiasi punto fermo e si distruggerebbe completamente ogni possibilità e ogni capacità di argomentare e di fare della dialettica, è necessario riprendere da capo il problema seguendo l'avversario sin nell'intima profondità delle sue obiezioni. Si tratta di una esercitazione dialettica, di un "gioco faticoso", che implica un metodo rigoroso. Questo risulta chiaro dalle parole seguenti di Parmenide:
«Bisogna però fare ancora un'altra cosa, e cioè non solo, dopo aver posto come ipotesi l'esistenza di ciascuna cosa, cercare le conseguenze che derivano dall'ipotesi, ma anche, se vuoi esercitarti nel modo migliore, vedere quali sono le conseguenze di una ipotesi la quale neghi l'esistenza dell'oggetto della prima.
- che vuoi dire? rispose Socrate.
- Prendiamo per esempio, disse, se sei d'accordo, questa stessa ipotesi posta da Zenone, se c'è la molteplicità; bisogna vedere che cosa ne consegue per la molteplicità rispetto a se stessa e rispetto all'uno e quali ne sono le conseguenze per l'uno rispetto a se stesso e rispetto alla molteplicità; e poi, d'altra parte, negando la molteplicità, vedere di nuovo le conseguenze che derivano per l'uno e la molteplicità, per ciascuno di questi due sia nei confronti di se stesso sia nei confronti dell'altro» (Parm., 135e-136a).
La dottrina delle idee comporta dunque varie difficoltà teoriche all'apparenza quasi insormontabili, ultima delle quali l'impossibilità da parte degli uomini di poter coltivare una scienza delle cose soprasensibili, ovvero l’episteme. Tale conclusione induce Parmenide a porre al suo giovane interlocutore la domanda: «Che farai allora della filosofia?» (135c5).
A detta di Parmenide, il principale problema di Socrate è l'essere troppo giovane e poco allenato nell'esercizio dell'indagine filosofica. Per porvi rimedio il vecchio filosofo delinea al proprio interlocutore un metodo di indagine basato su ipotesi da verificare attraverso il ragionamento (136a4-c5). Tale metodo è così riassumibile: a proposito di qualsiasi oggetto o argomento, si prendono due ipotesi tra di loro contrarie e opposte, una che dica "che è" e l’altra "che non è", e se ne svolgono tutte le conseguenze possibili e immaginabili. Valutando alla fine i risultati di questa indagine dialettica, è possibile scoprire quale delle due ipotesi sia veritiera quale no. Solo con un simile allenamento si può apprendere il modo per discernere la verità ed evitare che essa sfugga da sotto gli occhi.
La teoria delle idee non è dunque dichiarata falsa, ma condizionata da un metodo insufficiente. Parmenide sollecita un'indagine meno schematica, più articolata, che consiste nel considerare le conseguenze sia positive sia negative delle ipotesi poste. È un suggerimento che la dialettica trae dalla tecnica di dimostrazione per assurdo inaugurata da Zenone (e ripresa poi anche da Aristotele). La descrizione della procedura prefigura di fatto l'articolazione del resto del dialogo.
Per far comprendere meglio l’esercizio appena descritto, Parmenide decide di darne prova con l’aiuto di Aristotele, brillante ragazzino lì presente. Da questo punto in avanti, il dialogo prenderà la forma del discorso diretto, in cui quello che si potrebbe sostanzialmente definire un monologo di Parmenide viene intervallato dalle frasi di assenso del suo giovanissimo interlocutore. Oggetto di un'analisi accurata e dettagliatissima sarà l’uno, svolgendo dapprima l’ipotesi che lo afferma, e in seguito quella che lo nega. Per ogni ipotesi verranno dedotte quattro conseguenze, per un totale di otto deduzioni (tutte aporetiche), di seguito schematizzate secondo l'analisi di Migliori.
L’uno in sé. Se l’uno è uno, non ammetterà nessuna forma di pluralità, sia essa interna o esterna. L’uno quindi non è composto di parti, non è in nessun luogo, e non è né in movimento né in quiete, ed è esterno al tempo. Tuttavia in questo modo, nessun altro ente potrà esistere all’infuori dell'uno, nemmeno l'essere stesso. Ma non esistendo l’essere, nemmeno l’uno sarà (137c4-142a8).
L’uno in rapporto agli altri dall’uno. Se l’uno è, dovrà partecipare dell'essere. Ma non coincidendo, l’uno e l'essere costituiranno due parti di un tutto, e per renderli fra loro diversi, si dovrà introdurre anche il diverso. Viene introdotto il due, e di conseguenza anche il numero. Pertanto l’uno non è uno, ma un insieme di parti: l’uno contiene in sé la molteplicità (142b1-157b5).
Gli altri dall’uno in rapporto all’uno. Se l’uno è, gli altri dall'uno, in quanto ad esso partecipi, cioè in quanto parti del Tutto, si troveranno ad essere allo stesso tempo infiniti (in quanto molteplici) e limitati (in quanto parti). Essi cioè saranno un insieme molteplice composto di unità, trovandosi ad essere tra di loro simili e dissimili (155e2-159b1).
Gli altri dall’uno considerati in sé. Se l’uno è, gli altri dall'uno considerati in se stessi come separati dall’uno, non parteciperanno dell’uno e pertanto, privi dell’uno, non potranno essere composti di unità, e quindi non saranno molti (159b2-160b1).
L’uno in rapporto agli altri dall’uno. Se l’uno non è, esso è diverso dagli altri, in quanto "non essere" qui significa semplicemente "essere diverso da". In questo caso l’uno si pone in relazione col molteplice, e a loro volta gli altri dall'uno parteciperanno delle loro affezioni (160b5-163b6).
L’uno in sé. Se l’uno non è, e se "non essere" indica l’assenza dell’essere, esso sarà privo di caratteri, e perciò non sarà né uno né molti (163b7-164b4).
Gli altri dall’uno considerati in sé. Se l’uno non è, gli altri dall'uno, rispetto a se stessi, non possederanno nessuna delle affezioni dell’uno, e nemmeno saranno molti, ma lo sembreranno soltanto. Infatti, ogni singolo ente di cui la molteplicità si compone, potrà solo apparire uno, senza esserlo, poiché l’uno non esiste (164b5-165e1).
Gli altri dall'uno in rapporto all'uno. Se l’uno non è, gli altri dall'uno rispetto all'uno che non è, non parteciperanno di ciò che non è, e non saranno né uno né molti né niente di determinato (165e2-166c2).
L’analisi di Parmenide risulta dunque alla fine completamente aporetica. Il discorso attorno all’uno, con cui si è aperto il dialogo, si mostra in tutti i proprio limiti, e la teoria monistica di Parmenide ne esce di fatto confutata (166c2-5). La pratica platonica dell’elenchos si coniuga qui con la reductio ad absurdum, ma questo metodo non è autosufficiente, poiché non è in grado di giungere ad una verità definitiva e inattaccabile. Non è infatti ben chiaro quale sia lo scopo effettivo di tale metodo e la critica è divisa secondo diverse interpretazioni. Migliori ha comunque fatto notare che molte delle aporie presenti nei ragionamenti di Parmenide sono in realtà dovute alla polisemia dei termini utilizzati, i cui significati non vengono mai definiti in maniera univoca, ma anzi lasciati nel vago.
In tal modo, per ogni eidos preso in esame, vi saranno due ipotesi contrarie otto conseguenze, e questo è appunto lo schema seguito nella lunga pragmateia che occupa tutta la seconda e più lunga sezione del dialogo. Essa, come la critica moderna è sempre meglio venuta vedendo, è il vero capolavoro dell'ironia platonica, nel senso per cui essa, riprendendo le argomentazioni dell'avversario con lo scopo di portarle all'assurdo, le svolge fino alle estreme conseguenze. In tal modo nella complicatissima analisi delle relazioni che intercorrono tra essere e non-essere, uno e molteplice, tutti gli argomenti che l'eleatismo zenoniano adduceva contro l'uno come elemento di un molteplice si ritorcono, nell'ipotesi contraria, contro lo stesso Uno dell'eleatismo. Ma il cammino intrapreso da Platone non poteva certo arrestarsi a questo punto, perché se anche l'ironia del Parmenide era la definitiva dissoluzione della problematica zenoniana, la contraddizione di fondo che Parmenide rilevava nella molteplicità in quanto tale era eliminata ancora solo marginalmente e richiedeva a un tempo una critica specifica e una nuova soluzione. È nel Sofista infatti che Platone, toccando il fondo del problema, si risolve a compiere quel "parricidio", senza il quale è impossibile proseguire verso la soluzione: «perché per difenderci» dice lo straniero di Elea «sarà necessario che noi sottoponiamo a esame il discorso del nostro padre Parmenide, e dovremo sostenere con forza che ciò che non è, a sua volta, in certo senso è».