Il genere pittorico del vedutismo visse nel Settecento l’epoca del suo maggiore splendore. Le rappresentazioni di paesaggi e di città si erano sviluppate nel corso del XVII sec., soprattutto a Roma, dove artisti per lo più fiamminghi e olandesi si erano stabiliti per ritrarre monumenti ed edifici che ne celebrassero gli splendori, passati e presenti. Le vedute reali, che mostravano un interesse documentario per alcuni aspetti della città e dei dintorni, vennero ben presto affiancate da altre raffigurazioni, in cui la realtà forniva soltanto uno spunto per inscenare composizioni di fantasia, nelle quali rovine e antichità suggerivano uno spunto poetico per committenti eruditi. Nel secolo successivo, il Grand Tour dette un nuovo slancio alla produzione vedutista. A Venezia, a Roma e a Napoli gli artisti lavoravano soprattutto per il mercato straniero, esigente nel richiedere raffigurazioni dei luoghi più famosi, delle feste e delle cerimonie che si svolgevano in città, ma anche desideroso di possedere una testimonianza pittorica delle civiltà passate. I ruderi degli antichi templi e delle costruzioni antiche possedevano un fascino tutto particolare, un valore simbolico legato alla caducità della vita e alla nostalgia di un tempo ormai perduto. Vedutisti come il Pannini, Marco Ricci, Canaletto e Francesco Guardi accostarono allora nei loro quadri edifici reali ad altri di fantasia o ripresi da altri contesti, senza alcun nesso storico né topografico, al fine di creare suggestivi e pittoreschi paesaggi, spesso animati dalla vivace inserzione di piccole figure che si muovono tra le architetture.
Il Grand Tour
Secolo di viaggiatori per eccellenza, il Settecento vide affermarsi tra i membri dell’aristocrazia e della piccola nobiltà europea un tipo di viaggio educativo in Italia denominato Grand Tour. Coloro che affrontavano il Grand Tour erano giovani spinti dal desiderio di esplorare, imparare e comprendere lo spirito e la cultura degli altri paesi, ma anche desiderosi di divertirsi e dimenticare i propri affanni distraendosi con l’osservare la varietà del mondo. La conoscenza di un’arte, di una letteratura, di una musica, di un teatro, di un costume e di un folklore diversi dalla propria patria sono i motivi che spinsero i Grands Tourists ad intraprendere il viaggio nel Bel Paese, attraverso Roma, Firenze, Napoli e Venezia, tappe istituzionalizzate per la scoperta delle meraviglie d’Italia.
Per un giovane aristocratico del XVIII sec. il viaggio in Italia costituiva una tappa d’obbligo della propria formazione culturale. Il fascino esercitato dal Bel Paese era molto forte: soprattutto città come Venezia, Firenze, Roma e Napoli attiravano i visitatori con le loro memorie del passato, le chiese, gli antichi palazzi e le opere d’arte che vi si conservavano. Il possesso di opere prestigiose era la massima ambizione per i Grands Tourists, soprattutto membri della nobiltà britannica e tedesca, i quali acquistavano quanto potevano, accontentandosi spesso di copie. Le scoperte archeologiche suscitarono una vera e propria 'febbre' collezionistica, tanto che ben presto i 'turisti' costituirono una minaccia delle antichità di Roma. Se i reperti più importanti erano irraggiungibili, quanto emergeva dagli scavi era accessibile a chiunque non avesse problemi di denaro. Il mercato antiquario visse allora uno dei periodi di maggiore fortuna, invano contrastato da leggi che vietavano l’esportazione. La preponderanza del turismo d’oltremanica non fu casuale: già dal Seicento alcuni intellettuali inglesi si erano avventurati in Italia, ritenendo questo viaggio un’indispensabile esperienza formativa. Francis Bacon nel saggio Of Travel del 1615 ne aveva ribadito l’importanza, dando il via ad un numero sempre crescente di viaggi di connazionali, attratti dalle bellezze decantate nelle sue pagine. Se Roma costituiva una meta fissa e irrinunciabile, le scoperte archeologiche di Ercolano e di Pompei indussero i visitatori della seconda metà del Settecento a spingersi più a Sud, giungendo non di rado fino alla Sicilia, alla ricerca delle origini della civiltà della Magna Grecia. I viaggi avvengono, per quanto possibile, secondo un calendario consigliato. Diviene irrinunciabile mancare alle grandi festività offerte dalle singole città in occasione di ricorrenze speciali e di celebrazioni patronali: la festa dei Santi Pietro e Paolo a Roma, di Santa Rosalia a Palermo, del Redentore a Venezia, di San Gennaro a Napoli attirano folle di turisti desiderosi di conoscere il folklore locale, insieme a festeggiamenti popolari come il Palio di Siena o la corsa dei tori in campo San Polo a Venezia. Assieme agli aristocratici viaggiano anche artisti e letterati, i quali nei loro scritti ci hanno lasciato un’eccezionale memoria dell’Italia del tempo.
Goethe in Italia
"Addio! Pensami in questo momento importante della mia vita". Con queste parole Goethe si commiatava dall’amata Charlotte von Stein al Brennero, accingendosi nel 1786 a compiere un viaggio in Italia. Non era la prima volta che egli intraprendeva un viaggio in questo paese. Come tutti i nobili e gli intellettuali nordici dell’epoca egli aveva già varcato le Alpi per ammirare le vestigia dell’antichità e le città d’arte italiane; ma questo fu il suo soggiorno più lungo. L’Italia trovata dal letterato tedesco sul suo cammino era un paese frammentato in tanti stati, alcuni dei quali, come la Lombardia, sotto il dominio austriaco, altri, come il Vescovado di Trento e la Repubblica veneta, indipendenti, ma ancora per poco. Quasi del tutto disinteressato alle vicende politiche, Goethe rivolse la sua attenzione soprattutto alle opere d’arte, alla natura ed al paesaggio che incontrava viaggiando in carrozza. Dalla valle dell’Adige, coltivata a frutteti e a vigneti, scese sul Lago di Garda e poi a Verona, a Vicenza, a Padova e a Venezia, dove ebbe modo di frequentare la società cittadina e di assistere alla rappresentazione delle Baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni. Ogni cosa è annotata nel suo poetico Diario: le passeggiate nelle calle alla scoperta della città, la visita alle chiese, la giornata trascorsa sulla spiaggia del Lido. La prossima volta che egli visiterà Venezia, nel 1790, non avrà più queste piacevoli sensazioni, preso dalla nostalgia per gli affetti rimasti in Germania. Ansioso di giungere a Roma, si soffermò appena a Ferrara, a Bologna, a Perugina e ad Assisi. Alloggiato stabilmente nel centro cittadino, entrò subito a far parte della cerchia di intellettuali tedeschi che risiedevano nella Città Eterna, ammirando insieme a loro o in solitudine i resti archeologici e i capolavori dell’arte. Tra una visita ed un’altra trovò anche il tempo di completare la tragedia Ifigenia in Tauride, di rileggere la Storia dell’arte nell’antichità di Winckelmann e di disegnare gli scorci paesaggistici più suggestivi. Trasferitosi a Napoli, Goethe si lasciò affascinare più dalla bellezza della natura che non dagli scavi di Pompei, iniziati da poco. All’inizio di aprile del 1787, egli giunse in Sicilia, visitando Palermo, Segesta, Agrigento, Taormina ed infine Messina, da dove si reimbarcò per il continente. La via del ritorno lo porterà a Firenze, a Milano e, attraverso la Svizzera, di nuovo in Germania.
Pittura per turisti
Tre grandi artisti del Settecento italiano furono impegnati durante la loro carriera nel dipingere souvenirs per i giovani aristocratici e i benestanti borghesi che intraprendevano il loro Grand Tour in Italia. Assieme ai ritratti di Pompeo Batoni, le vedute del Canaletto costituivano perfetti ricordi della splendida città di Venezia da riportare in patria, mentre per le antichità romane il tocco geniale apportato da Giovanni Battista Piranesi rendeva le sue opere ricercatissime tra i turisti più danarosi. Incuranti dei prezzi che lievitavano per l’enorme richiesta sul mercato, non c’era turista danaroso che rinunciasse a riportare in patria la testimonianza degli splendidi paesaggi italiani o il proprio ritratto realizzato durante il viaggio. Antenati delle odierne fotografie e cartoline delle vacanze, i quadri venivano poi appesi alle pareti delle residenze straniere e commentati per gli amici tra aneddoti e ricordi dell’Italia. Poiché all’inizio del Settecento non esisteva la figura istituzionalizzata dell’antiquario, quale l’intendiamo oggi, le fonti di approvvigionamento delle opere passavano attraverso mercanti, privati collezionisti e, per ciò che riguardava l’arte contemporanea, gli stessi artisti. Pittori e scultori di fama lavoravano a pieno regime per i turisti, così come i copisti e i disegnatori, incaricati di fornire versioni dei dipinti e delle statue classiche più celebri. Se le vedute di paesaggio e i ritratti erano i generi più apprezzati, non mancavano commissioni di nature morte, piacevolmente decorative, e di scene di genere, apprezzate per il gusto aneddotico e popolare.
Le rovine, quinte della fantasia
Le rappresentazioni di paesaggi e di città si erano sviluppate nel corso del XVII sec., soprattutto a Roma, dove artisti per lo più fiamminghi ed olandesi si erano stabiliti per ritrarre monumenti e edifici che ne celebrassero gli splendori, passati e presenti. Nel Settecento il Grand Tour dette un nuovo slancio alla produzione vedutista. A Venezia, a Roma e a Napoli gli artisti lavoravano soprattutto per il mercato straniero, esigente nel richiedere raffigurazioni dei luoghi più famosi, delle feste e delle cerimonie che si svolgevano in città, ma anche desideroso di possedere una testimonianza pittorica delle civiltà passate. I ruderi degli antichi templi e delle costruzioni antiche possedevano un fascino tutto particolare, un valore simbolico legato alla caducità della vita e alla nostalgia di un tempo ormai perduto. Vedutisti come il Pannini, Marco Ricci, Canaletto e Francesco Guardi accostarono allora nei loro quadri edifici reali ad altri di fantasia o ripresi da altri contesti, senza alcun nesso storico né topografico, al fine di creare suggestivi e pittoreschi paesaggi, spesso animati dalla vivace inserzione di piccole figure che si muovono tra le architetture. Ormai divenuta un genere autonomo, la pittura di paesaggio venne interpretata dall’artista secondo la sensibilità del momento, divenendo ora reale raffigurazione di un luogo, ora capriccio di fantasia, dove realtà e immaginazione si mescolano nell’atmosfera vibrante di vedute dai vasti orizzonti. La perfetta orchestrazione di luci e di ombre armonizza tra loro i suggestivi scenari naturali, gli edifici fantastici e le vivaci figurine, intente nelle loro quotidiane occupazioni, fondendoli con tocchi di colore lievi e intrisi di luce.
La camera ottica
Alla fine del Cinquecento, con il perfezionarsi degli studi sull'ottica in seguito al successo del cannocchiale astronomico di Galilei, si diffuse l'uso della camera ottica con lenti, descritta in trattati quali la Pratica della prospettiva (1568) di Daniele Barbaro e la Magia naturalis (1589) di Giovanni Battista Della Porta.
Fu quest'ultimo a insegnare l'applicazione in pittura di questo strumento, che tanta fortuna ebbe nel Settecento.
Si trattava di una sorta di scatola con un foro su una faccia, su cui era applicata una lente: l'immagine esterna veniva proiettata rovesciata e invertita sulla faccia opposta grazie a uno specchio obliquo collocato all'interno della scatola.
Questa immagine era nuovamente riproiettata su un vetro smerigliato su cui si poggiava il foglio di carta per procedere all'operazione di ricalco.
La camera ottica fu impiegata sistematicamente dai vedutisti veneziani del Settecento, da Canaletto a Guardi, a Bellotto.
Il Canaletto, autentico promotore della grande fortuna del vedutismo veneziano del Settecento, fu immediatamente riconosciuto dai contemporanei come uno dei massimi artisti del suo tempo. L'artista, che in realtà si chiamava Giovanni Antonio Canal, nacque a Venezia nel 1697.
Figlio di Bernardo Canal, a quel tempo uno dei più noti scenografi per il teatro, iniziò il suo percorso artistico a fianco del padre, esperienza che non mancò certo di influenzare la sua attività di vedutista.
Nel 1719 i Canal erano a Roma impegnati in allestimenti teatrali, ma l'anno successivo il giovane Canaletto si iscrisse alla Fraglia di Venezia, la locale corporazione dei pittori. È da ascrivere a quest'epoca l'inizio della sua attività di vedutista ormai indipendente dalla bottega paterna.
I suoi esordi di pittore di vedute mostrano un gusto scenografico e l'interesse per una gamma cromatica giocata su tonalità scure, fortemente chiaroscurate. Successivamente la sua pittura si schiarisce, i colori diventano sempre più tenui, immersi in un'atmosfera solare e cristallina, in linea con gli esiti della contemporanea pittura veneziana di Giambattista Tiepolo.
Mentre le opere della prima fase dell'attività del Canaletto sono caratterizzate da una preparazione di colore rosso cupo sulla quale il pittore dipingeva direttamente, quelle successive presentano un secondo strato grigio che nel corso del tempo lascerà il posto ai toni del beige e del rosa pallido.
Nella sua ricerca pittorica diventa dominante l'attenzione per la rappresentazione dal "vero" e per la resa naturalistica della luce, attraverso la quale si sofferma a indagare i particolari.
Ma le sue vedute non possono essere definite fotografiche. Il maestro non dipinse direttamente dal vero; tuttavia, dal vero eseguì disegni preparatori, utilizzando la camera ottica, che poi rielaborò liberamente.
A seconda delle esigenze di rappresentazione, egli usava contemporaneamente più punti focali, e non uno solo come previsto dalle regole prospettiche tradizionali.
Accanto ai luoghi più celebri di Venezia, come il Canal Grande, piazza San Marco, il ponte di Rialto, raffigurò le zone più periferiche dell'Arsenale, di campo Santa Maria Formosa e di campo San Rocco, immerse in una forte luce solare, popolate di piccole e agili figurette che ne animano le piazze e i canali.
All'inizio del quinto decennio risale il viaggio del Canaletto lungo le rive del Brenta, durante il quale eseguì numerosi disegni, incisioni e dipinti.
Lo accompagnava il nipote Bernardo Bellotto, anch'egli pittore di vedute. Nel 1746 Canaletto partì per l'Inghilterra, dove soggiornò quasi senza interruzioni fino al 1756 circa.
In questi anni eseguì una serie di straordinarie vedute del fiume Tamigi e di ville per i prestigiosi committenti dell'aristocrazia inglese. Scarse sono le notizie sull'attività del pittore sino al 1760, anno in cui si stabilì nuovamente a Venezia. Morirà nella sua città natale pochi anni più tardi, nel 1768.
Il Rio dei Mendicanti
Canaletto raffigura con estremo rigore, con una lucida aderenza al dato visivo, senza dettagli dispersivi e inutilmente descrittivi, uno dei luoghi più suggestivi di Venezia, con i suoi edifici pittoreschi, le caratteristiche case con le altane, le facciate macchiate dall'umidità e i panni stesi al sole.
Il giovane vedutista ritrae l'aspetto quotidiano della vita veneziana, con figurine intente alle loro occupazioni di ogni giorno, descritte con precisione e ricchezza di particolari.
In tal modo il quadro diviene come la fotografia di un angolo animato della città, restituendo ci la quotidianità di una giornata di sole qualunque di inizio Settecento.
La veduta si dispone lungo il modesto rio dei Mendicanti, il canale di fronte alla chiesa di San Lazzaro dei Mendicoli, verso il campo dei santi Giovanni e Paolo. Una precisa prospettiva costruita con rigore attraverso l'uso della camera ottica serra la composizione, chiusa sui due lati da una ma di edifici, nobili e austeri sulla sinistra, pittoreschi e popolari dall'altra parte del rio.
Forte delle sue esperienze di scenografo teatrale, Canaletto realizza una veduta estremamente lucida e minuziosa, attento all'esatta resa della luce e allo studio delle ombre.
L'aspetto dimesso e il taglio quotidiano conferiscono alla scena un senso di malinconia, accresciuto dall'impiego di una tavolozza sobria, giocata su pochi toni di colore.
Nipote del Canaletto, il Bellotto entrò giovanissimo nella bottega dello zio, dove apprese l’arte e la tecnica del vedutismo. A vent’anni compì un soggiorno di studio a Roma, disegnando e dipingendo vedute della città e delle sue antiche rovine.
Fu proprio a contatto con l’ambiente romano che si accentuò il suo distacco dai modi del Canaletto, che poi diverrà definitivo. Qui il giovane artista apprese il gusto per una nitida e precisa intelaiatura prospettica, alla quale sempre corrisponde un colore chiaro e cristallino.
Fu a Roma, inoltre, che egli iniziò a dipingere le vedute ideate, i "capricci", ampie prospettive di fantasia, impeccabili dal punto di vista architettonico, dove sono raccolti elementi eterogenei, ma tutti legati alla Roma antica. Nel 1744 egli era in Lombardia; nel 1745 a Torino dove, per i Savoia, dipinse l’Antico ponte sul Po e i Bastioni di Palazzo Reale (Torino, Galleria Sabauda). Appartengono a questo periodo varie vedute di Verona, città dove soggiornò per qualche tempo.
La vita del Bellotto diviene, da questo momento in poi, una continua peregrinazione per le città più importanti dell’Europa del Nord. Egli seguì infatti il cammino di molti altri pittori veneti, attivi nelle più importanti capitali europee, acclamati come decoratori e sollecitati da un collezionismo internazionale in espansione, che guardava al mercato con occhio attento.
Dal 1747 viaggiò in Sassonia, realizzando una serie di vedute della città di Dresda. Spostatosi poi a Vienna, vi dimorò dal 1759 al 1761, lavorando per la corte degli Asburgo.
Dopo un soggiorno in Baviera, tornò a Dresda, per spostarsi nel 1767 a Varsavia, dove divenne pittore di corte e rimase sino alla morte, sopraggiunta nel 1780. Qui lavorò anche alla decorazione del Palazzo Reale, ma l’opera è andata perduta.
La fredda analisi descrittiva delle sue vedute della città polacca conferisce loro un carattere documentario, utile per la ricostruzione della città dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale.
Straordinario "fotografo" della città di Roma nel Settecento, Giovanni Paolo Pannini conquistò una posizione di assoluto rilievo nel panorama artistico italiano, specializzandosi in paesaggi urbani reali, in vedute ideali e in "capricci" architettonici, arbitrarie rappresentazioni di monumenti storici in composizioni immaginarie. Entro un impianto costruito su precise linee prospettiche, egli dipinse fantastiche vedute di edifici e resti celebri dell’antichità di Roma, arricchite mediante l’inserimento di colonne troncate, vasi, capitelli e statue. Le architetture del Pannini quasi mai sono fini a se stesse, ma cornici di composizioni a soggetto biblico o storico, dove attorno ad un monumento, fra vestigia dell’antichità, le figure, delineate con cura, assistono alla predica di un apostolo. Nella sua pittura, alla sicurezza dell’impaginazione spaziale e architettonica si uniscono l’estrema precisione del tratto ed un colore fluido, ricco di riflessi luminosi e di intonazione chiara e piacevole. La dilatazione dello spazio è frenata entro valori atmosfericamente e prospetticamente esatti. La popolarità delle sue vedute è testimoniata dalle numerose repliche dello stesso soggetto, che si conservano, destinate ad un mercato sempre crescente e spesso composto da stranieri innamorati dell’Italia. Molto richieste dalla committenza furono pure le sue rappresentazioni degli eventi mondani, di cui Roma fu teatro nel corso del secolo, le quali ci forniscono una straordinaria immagine della città, quale appariva agli occhi di un uomo del Settecento.
Francesco Lazzaro Guardi, figlio del pittore Domenico Guardi (1678-1716) e di Maria Claudia Pichler, nasce a Venezia nel 1712 ; entrambi i genitori appartengono alla piccola nobiltà trentina di Mastellina in Val di Sole.
Il padre muore il16 ottobre 1716 lasciando la vedova e i figli Gianantonio, Maria Cecilia, Francesco e Nicolò: il primogenito Gianantonio eredita la bottega paterna; la secondogenita Maria Cecilia sposa nel 1719 Giovanni Battista Tiepolo.
La prima notizia sull'attività artistica di Francesco risale al 1731; secondo il Morassi, nella bottega del fratello, Francesco apprende "quella pittura illusionistica, cioè tutta a strappi e sfregature a macchie, la quale non indulgeva punto allo studio del disegno in senso accademico e dei volumi ben definiti, per affidare tutto il suo peso agli effetti luministici in un'atmosfera estremamente variata".
Verso il 1735 sarebbe passato nella bottega di Michele Marieschi, pittore di vedute e di capricci, rimanendovi fino alla sua morte, nel 1743. Viene datata intorno al 1740 la prima opera firmata, un Santo adorante l'Eucaristia, copia parziale e reinterpretata, secondo i canoni di Federico Bencovich, della pala del Piazzetta dei Santi Giacinto, Lorenzo e Bertrando del 1739.
Francesco trae dal Bencovich una lettura drammatica ed pateticamente espressionistica, un santo "bruciante di un’estasi macerata, quasi aggressiva" (Ragghianti), costruendo la figura in forte rilievo plastico pur mantenendo una nervosa vibrazione di tocco.
È la stessa pennellata vibrante che costruisce il vasto paesaggio della Burrasca di Zurigo, recuperando, con il tramite di Salvator Rosa e di Marco Ricci, e caricando di un impulso espressivo sconosciuto un tema prediletto della cultura olandese del Seicento.
Le vedute
"Comincia a dipingere vedute verso il 1750, quando il Canaletto è a Londra: prima capricci alla Marco Ricci, poi riprese dirette di Venezia, ora aperte in orizzonti larghissimi, ora centrate su un sito pittoresco, un andito, un arco, un ponte, una vecchia casa in laguna.
Le anima volentieri con folla di macchiette piene di agitazione … gli piace localizzare una situazione emotiva e poi, di colpo, estenderla a tutto lo spazio del quadro.
È qui che può mettere in gioco la sua tecnica agilissima; ed è questo il lato più tiepolesco della sua pittura. Da una nota di colore fa scaturire tutta una gamma di toni fitti e salienti che si concludono in una luminosità dilagante, spesso attenuata in delicatissime tonalità di madreperla e tutta percorsa da vibrazioni e da fremiti … Il Guardi non si allontanerà mai dalla sua città.
Le emozioni che gli dà un gioco di luce su un vecchio muro o un riflesso del cielo nell’acqua non sono emozioni puramente visive: scendono dirette a ridestare un ricordo e con esso il sentimento del vissuto.
Perciò ama i muri cadenti, pieni di rampicanti e di muffe; potrebbe dirsi un pittore di rovine moderne.
Il suo, dunque, non è più il paesaggio come veduta esatta, ma il paesaggio come esperienza individuale legata, non meno che al luogo, al tempo e allo stato d’animo.
È il preludio al paesaggio romantico" (Argan).
"Sono capricciose persino le sue vedute dei luoghi presi dal vero nelle quali egli, ove può, inserisce elementi estemporanei di fantasia: sicché le sue vedute stesse assumono spesso, per il variare dei colori e il gioco dell'atmosfera, per quei silenzi così misteriosi, un sapore di morbido ed estenuante mistero.
I Capricci
Quanto infine ai paesaggi di fantasia e ai capricci, essi ci trasportano di quando in quando sino al limite di un mondo in cui la realtà si trasfigura nel sogno; cioè, per usare un termine moderno, alle soglie del surrealismo. Visioni di incantesimo affiorano talvolta dalla laguna come spettri grondanti malinconia senza fine: sono gli esempi del contrapposto serioso ai capricci nati da un animo scherzevole e felice che assumono in codesto controcanto l'aria presaga di una fragilità delle cose, irremovibile, fatale" (Morassi).
Eduard Huttinger, riprendendo queste ultime considerazioni, le esaspera attribuendo al Guardi sentimenti tardo- romantici del tutto estranei al pittore: "...in Francesco Guardi ... Venezia divenne città magica e subì una trasfigurazione suggestiva: poesia contrapposta alla cronaca.
Guardi riproduce ciò che è in movimento, la gioia dell'attimo fuggevole: moltitudini di persone che, come larve trasportate dall'istinto e dalla passione, si riversano vacillanti lungo i canali, nelle calli, nei campi e sulle piazze inondati della fluttuante atmosfera che li avvolge.
La struttura specifica della sua immaginazione ha reso Guardi capace di svelare una dimensione della città che solo raramente è presente in Canaletto e anche in Bellotto: la Venezia discosta, fuori mano, la "Venezia minore".
Qui, come pure nei Capricci (la parola deriva dalla terminologia vasariana; Cesare Ripa ne formulò la definizione nel 1593: "... si dicono capricci le idee che [...] si manifestano lontane dal modo ordinario"), Guardi lascia trasparire un sentimento che solo in lui è documentato con tale seduzione: la decadenza di Venezia.
I suoi "Capricci" visualizzano qualcosa che va al di là di un pittoresco e stupefacente "theatrum mortis" spensierato. Non alternano facoltativamente architetture fantastiche a scenografie: sono "capricci lagunari". Compendiano il carattere vetusto di Venezia, la malinconia della caducità, del marcio e del fatiscente, il senso della corrosione, il morso del tempo e delle intemperie, il lutto e la solitudine, il silenzio morto e il vuoto della laguna, fino a reificare questo complesso di sensazioni in visioni oniriche appagate, ma vibranti di pulsazioni demoniache".
Pre-Impressionista?
Guardi documentò le feste e le regate in onore dei personaggi illustri che passavano a Venezia e si distinse dal rigore visivo e prospettico canalettiano per il forte gusto commemorativo ed episodico.
Ma i suoi quadri di feste e di regate, a dispetto del soggetto raffigurato, raggiungono paradossalmente effetti di somma tristezza e di melanconia, e contrappongono alla città parata a festa la decadenza degli apparati effimeri.
La vicenda artistica del Guardi, del resto, si colloca in parallelo all'atmosfera di declino che si respirava a Venezia nel Settecento.
La sua poetica ci restituisce un'immagine della città in cui la luce si accende in balenii e si spegne in ombre profonde.
Egli sembra avvertire la fine di un'epoca e di una città, ormai tagliata fuori dai commerci internazionali, privata dei suoi domini sul mar Egeo, a margine dei giochi politici europei, in una posizione di passiva neutralità.
Il pittore propone una città in movimento, con personaggi che si riversano nei canali come trasportati dall'istinto, quasi senza meta, in un'atmosfera fluttuante che avvolge ogni cosa. Un senso di disorientamento pare cogliere ognuna delle piccole figure che popolano la tela, spesso volgendo le spalle al riguardante.
La sua interpretazione del vedutismo rivela una sempre più spiccata tensione espressionistica, n;sa anche attraverso una tavolozza costantemente accordata su toni bassi.
Le visioni lucide e reali di Canaletto si fanno in Guardi visioni sempre più palpitanti:
"Nel corso di una vecchiaia sapiente e visionaria l'artista, attraverso il sentimento del luogo e del tempo, coglie una Venezia appartata e solitaria, dove mare e cielo tendono a unirsi come condizione spirituale: liberatosi dai fenomeni per cogliere soltanto l'essenza, la sua relazione con la città diviene più intellettiva che sensibile.
Egli interpreta la luce di Venezia come luce spaziale. Cosicché senza luce non esistono né forme né colori. Tuttavia il Guardi non può essere considerato anticipatore degli impressionisti: l'impressionismo, prima di essere un mezzo di espressione, è un modo di vedere e di percepire; e il modo di vedere di Francesco si qualifica come naturale, non scientifico: l'oggetto non è reso obiettivamente, ma filtrato dallo spirito che misteriosamente indaga sulla linea dell'orizzonte, quasi come in una impercettibile fusione tra visione dell'occhio e visione sognante della fantasia, in un ritmo contemplativo assai vicino al sentire musicale manifesto nei concerti del contemporaneo Vivaldi ... Ne deriva una pittura impalpabile, aerea, fatta di luce avvolgente, sorretta da una tavolozza di inafferrabile e preziosa gamma cromatica.
Il paesaggio non esiste più come tema, è pretesto per la ricerca pura di ritmi luminosi, di trasparenze, di pulviscoli argentei cilestrini..." (Rossi Bortolatto).
Marco Ricci rappresenta una delle figure artistiche di maggior rilievo nell'ambito della pittura paesaggistica veneta del XVIII secolo.
Avviato all'arte dallo zio Sebastiano Ricci, tra le figure più interessanti nel panorama pittorico italiano a cavallo tra Seicento e Settecento, Marco dimostrò ben presto la sua propensione per il paesaggio, da lui ritratto con una veridicità e un'attenzione alla luce tali da ricordare le poetiche visioni dei maestri olandesi del XVII secolo, di cui nella Venezia del tempo non mancavano estimatori e collezionisti.
Ormai divenuta un genere autonomo, la pittura di paesaggio viene interpretata dall'artista secondo la sensibilità del momento, divenendo ora reale raffigurazione di un luogo, ora capriccio di fantasia dove realtà e immaginazione si mescolano nell'atmosfera vibrante di vedute dai vasti orizzonti.
La perfetta orchestrazione di luci e di ombre armonizza tra loro i suggestivi scenari naturali, gli edifici fantastici e le vivaci figurine, fondendoli con tocchi di colore lievi e intrisi di luce.
L’arte dell’incisione deve la sua fortuna alla possibilità di moltiplicare una stessa immagine un infinito numero di volte. È sulla matrice che l’artista compie il proprio atto creativo, che si rivelerà poi sulla carta. Senza poter controllare costantemente la sua opera, come un pittore od uno scultore, l’incisore vede le forme da lui create solo a rovescio, non potendo fare altro che supplire al diretto controllo dell’immagine con una grande capacità tecnica ed un’esperienza in grado di consentirgli di prevedere quello che sarà il risultato finale. Numerose sono le tecniche dell’incisione, un’arte antica il cui sviluppo si lega a quello del libro stampato e alla quale si dedicarono numerosi pittori di ogni nazionalità. Il Settecento vide impegnati geni eccellenti, quali Fragonard, Boucher, Hogarth, Tiepolo, Canaletto, Goya, disinvolti autori di originali o vivaci traduttori di dipinti altrui. A Roma, dove fin dal 1738 era nata la Calcografia Camerale ad opera del pontefice Clemente XII, si esercitarono nell’incisione grandi nomi della pittura e dell’architettura, tra i quali spicca quello di Giovan Battista Piranesi, uno dei più alti interpreti di quest’arte.
Giovan Battista Piranesi
Giovanni Battista Piranesi rappresenta una delle figure più intriganti della storia dell’arte del XVIII sec. Nato a Mojano di Mestre nel 1720, ma vissuto quasi tutta la vita a Roma, dove si spense nel 1778, fu architetto e disegnatore. Difficilmente classificabile in un preciso movimento artistico, egli dette con la sua opera un’interpretazione assolutamente personale del recupero dell’antico in voga al suo tempo. Avviato allo studio dell’architettura, mostrò una maggiore predilezione per la tecnica incisoria, anche se in campo edilizio lasciò capolavori come la chiesa di Santa Maria del Priorato di Malta a Roma, costruita nel 1764, assieme alla ristrutturazione della piazzetta antistante. I motivi decorativi tipici dell’antichità classica, quali i trofei e i festoni, affollano la facciata della piccola chiesa, dove la purezza del bianco e delle linee architettoniche classiche si contrappongono alla fantasia sbrigliata degli elementi ornamentali. Già da otto anni era uscita la monumentale raccolta in quattro volumi delle Antichità romane, una serie di incisioni di monumenti della Città Eterna, disegnati con un taglio scenografico ed una predilezione per gli aspetti pittoreschi. Tali caratteristiche stilistiche si accentuarono nelle fantasmagoriche invenzioni delle Carceri, edite in forma definitiva nel 1761, una serie di incisioni dall’intonazione drammatica, fortemente concitata, di edifici di fantasia immensi e disarticolati e privi di un punto di riferimento centrale. Contro le logiche visioni delle antichità di Winckelmann, Piranesi oppose un recupero archeologico condotto con la disarmante consapevolezza che ciò che è perduto, lo è per sempre. Davanti alle straordinarie opere della classicità, perfette nelle loro forme, egli rimase come attonito, conscio di poter far rivivere il passato soltanto attraverso le sue rovine. Amico dell’architetto inglese Robert Adam, col quale spesso si recava a visitare le rovine romane, gli dedicò il Campo Marzio dell’antica Roma (1762), un’opera minuziosa con la quale Piranesi si proponeva di restaurare con meticolosità filologica questa vasta area archeologica cittadina. L’ultima riflessione sull’antico fu rappresentata dall’illustrazione dei templi di Paestum, incisi ad acquaforte e completati dopo la sua morte dal figlio Francesco. Gli effetti chiaroscurali potentemente drammatici si accentuano, così come l’incisività del tratto, in modo da creare una visione di forte impatto emotivo.
Le tenebre di Piranesi
Le incisioni delle Carceri d’invenzione di Giovanni Battista Piranesi rappresentano uno dei maggiori capolavori dell’arte del Settecento. Di forte impatto scenografico, le ardite e drammatiche incisioni di irreali edifici penitenziari ribaltano ogni ordinato spazio prospettico, affiancando ombre nere e cupe a forti campi di luce.
Edite per la prima volta parzialmente nel 1750 nelle Opere varie di architettura, prospettiva, grotteschi, antichità, furono ripubblicate in forma accresciuta nel 1760-1761. Animato dalla volontà di celebrare la grandezza dell’antica Roma e dei suoi monumenti, l’incisore, che fu anche architetto ed archeologo, si lascia trasportare dalla fantasia, giungendo a concepire strutture potenti e grandiose ed immagini visionarie che preannunciano le inquietudini preromantiche. Le forme delle architetture si frammentano in angoli netti, realizzate con un vigore ed una frenesia che ha preso il nome di "acquaforte intensa", dalla tecnica impiegata. Gli immensi spazi non si misurano più con le rigide regole della prospettiva, bensì si disarticolano e si frammentano senza ordine, sottolineati da un intenso chiaroscuro, che accresce il sentimento drammatico delle composizioni.
Le acqueforti di Petitot
L’architetto e disegnatore Ennemond-Alexandre Petitot nacque nel 1727 a Lione, dove si formò alla scuola di Jacques-Germain Soufflot.
Consigliato dal maestro nel tentare l’ammissione all’Accademia Reale di Architettura di Parigi, vinse il Prix de Rome e nel 1745 si trasferì a Roma con una borsa di studio.
Gli anni trascorsi nella Città Eterna lo portarono a contatto con le vestigia dell’antichità classica e con le grandi opere del rinascimento e del barocco romano, che ebbero un enorme importanza per lo sviluppo del suo linguaggio artistico.
All’epoca del rientro a Parigi nel 1750, già famoso, ricevette l’incarico di realizzare la decorazione di alcuni palazzi privati e di edificare nella cattedrale di Notre-Dame la cappella d’Hancourt.
Più che l’architettura era il disegno ad affascinare il giovane Petitot, che si accinse ad incidere alcune tavole per la Raccolta di Antichità del collezionista, archeologo e scrittore Claude-Philippe Caylus (1692-1765), che lo introdusse nel giro di amicizie di Guillaume Du Tillot, ispettore delle Fabbriche del Ducato di Parma.
Iniziò così l’attività dell’artista per la corte ducale italiana, per la quale ricoprì l’incarico di Primo Architetto dal 1748 al 1765, contribuendo a rinnovare in chiave neoclassica il volto della capitale del piccolo stato guidato da Filippo di Borbone, figlio di Filippo V, re di Spagna.
Autore delle facciate di numerosi importanti edifici cittadini, quali la chiesa di San Pietro Apostolo, il Casino del Caffè, nonché la residenza estiva di Colorno, Petitot si accinse anche alla realizzazione di apparati effimeri allestiti in occasione di feste, matrimoni e funerali di corte.
Con straordinaria inventiva disegnò inoltre elementi decorativi destinati all’incisione, nei quali gli elementi rococò si uniscono con motivi ornamentali del nuovo classicismo in un perfetto equilibrio compositivo.
Perduto nel 1771 il favore del Du Tillot, divenuto primo ministro e non potendo più impegnarsi in opere edilizie per la municipalità, egli si concentrò esclusivamente sulla produzione grafica e sull’insegnamento all’Accademia delle Belle Arti di Parma, da lui fondata nel 1752.
Uscirà nel 1771 la raccolta di acqueforti Mascarade à la grecque, incise da Benigno Bossi, una serie di vasi e oggetti ornamentali che segneranno profondamente il gusto artistico a Parma, una piccola capitale che, nella seconda metà del Settecento, visse l’identico splendore delle maggiori corti europee.