Il termine "Umanesimo" venne usato per la prima volta ai primi dell' '800 per indicare l'area culturale ricoperta
dagli studi classici e lo spirito che le è proprio, in contrapposizione all'ambito delle discipline scientifiche. La parola humanista veniva però impiegata già verso la metà del '400, e deriva da humanitas, che in Cicerone e Gellio significa educazione e formazione spirituale dell'uomo nella quale svolgono un ruolo essenziale le discipline letterarie (poesia, retorica, storia, filosofia). Ora, a partire soprattutto dalla metà del '300, e poi in misura sempre crescente nei due secoli successivi, si sviluppò in Italia appunto una tendenza ad attribuire grandissimo valore agli studi delle litterae humanae e a considerare l'antichità classica, greca e latina, come un paradigma e un punto di riferimento per le attività spirituali e la cultura in generale. "Umanesimo" significa dunque in generale questa tendenza che, sorta essenzialmente in seno alla cultura italiana, verso la fine del '400 si diffuse in molti altri paesi europei.
La classica interpretazione dello svizzero Jacob Burckhardt che, ne La civiltà del Rinascimento in Italia (1860), esasperava la frattura tra Medioevo e Rinascimento, portando alle estreme conseguenze i giudizi negativi degli stessi protagonisti dell'epoca sulla media aetas, appare oggi per molti versi inaccettabile. Burckhardt, infatti, contrapponeva un Medioevo esclusivamente centrato sulla trascendenza e sull'universale a un Rinascimento tutto centrato sull'immanenza e sull'individuo, un Medioevo religioso e teocentrico a un Rinascimento irreligioso, paganeggiante e antropocentrico. Quest’ultimo emergeva dalla sua ricostruzione come la felice età della «scoperta dell’uomo e della natura, come un risveglio dalle illusioni della fede di cui era vittima l'uomo medievale, come un processo di liberazione che aveva condotto alla nascita dell’“uomo moderno”.
Questa interpretazione, nonostante la sua efficacia e la sua fortuna, ha sollevato numerose obiezioni. Già Konrad Burdach, nei suoi voluminosi studi Dal Medioevo alla Riforma (1912-1939), rifiutò la tesi della netta frattura tra le due età, contrapponendole un'interpretazione continuista, che sottolineava il significato originariamente religioso del termine "rinascita" e ne individuava le origini fin nelle esigenze di rinnovamento religioso presenti nel XII-XIII secolo in autori come Gioacchino da Fiore o san Francesco. L'individuo moderno e irreligioso del Burckhardt lasciava così il posto a un uomo assai diverso: profondamente religioso e impegnato nella ricerca di una renovatio che già il Medioevo auspicava. Sulla scia di Burdach, la critica novecentesca ha proceduto a smantellare pezzo per pezzo il grandioso affresco burckhardtiano operando, per così dire, in due direzioni. Da un lato gli studiosi del Medioevo, rifiutando la tesi della frattura, hanno approfondito la ricerca dei tratti comuni alle due epoche, fino a retrodatare la "rinascita" degli studi classici nel XII secolo. Da un altro lato gli studiosi dell'età moderna sono venuti sempre più identificando il proprio oggetto con la nascita della nuova scienza moderna e hanno quindi teso a posticipare la modernità al XVII secolo. In entrambi i casi la cultura umanistico-rinascimentale ha perso, progressivamente, la propria caratteristica di "pensiero moderno" e lo stesso concetto di Rinascimento ha rischiato di uscire vanificato dal dibattito interpretativo.
Tra gli studiosi contemporanei dell'Umanesimo, spiccano soprattutto P.O. Kristeller ed E. Garin, le cui interpretazioni contrapposte risultano in realtà fecondissime proprio nella loro antitesi e, se si prescinde da alcuni presupposti dei due autori, si possono integrare a vicenda. Secondo Kristeller, l'Umanesimo rappresenterebbe solo una metà del fenomeno rinascimentale, e, per di più, quella "letteraria", non quella filosofica; pertanto, esso sarebbe pienamente comprensibile solo se considerato insieme con l'Aristotelismo sviluppatosi parallelamente, che esprimerebbe le vere idee filosofiche dell'epoca. Secondo Garin, invece, gli Umanisti si volsero a un tipo di speculazione non sistematica, problematica e pragmatica, e approntarono un nuovo metodo che, incentrato su un nuovo senso della storia, va considerato come effettivo filosofare; la direzione contemplativo-metafisica che l'Umanesimo italiano imboccò dalla seconda metà del '400 sarebbe stata poi la conseguenza dell'avvento delle Signorie e dell'eclissarsi delle libertà politiche repubblicane.
Ora, è vero che "umanista" indica originariamente il mestiere del letterato, ma questo mestiere andò ben oltre l'insegnamento universitario, entrò nella vita attiva e si fece davvero "nuova filosofia". Inoltre, l'Aristotele di questo periodo fu un Aristotele spesso letto nel testo originale, senza la mediazione delle traduzioni e delle esegesi medievali; si trattò quindi di un Aristotele rivisitato con un nuovo spirito che solo l'Umanesimo può spiegare. Infine, il grande mutamento del pensiero umanistico non fu soltanto legato a un mutamento politico, ma alla scoperta e alle traduzioni di Ermete Trismegisto e dei Profeti-Magi, di Platone, di Plotino e dell'intera tradizione platonica. La cifra che contraddistinse l'Umanesimo fu dunque un nuovo senso dell'uomo e dei suoi problemi, un nuovo senso che trovò espressioni multiformi e talora opposte, ma sempre ricche e spesso molto originali, e che culminò nelle celebrazioni teoretiche della "dignità dell'uomo" come essere "straordinario" rispetto a tutto l'ordine del mondo.