Nella geografia politica dell'Italia durante il predominio spagnolo era presente un caso del tutto particolare: lo stato della Chiesa nell'Italia centro-settentrionale. Il Concilio di Trento aveva riconfermato e rafforzato un ruolo di assoluto primato per il papa; l'età della Controriforma aveva poi ribadito la centralità del cattolicesimo in ogni aspetto della vita civile.
Dalla suprema autorità del pontefice dipendevano non solo la vita religiosa, ma anche la conduzione degli affari politici della Chiesa, intesa come stato temporale. La corte di Roma venne configurandosi come lo stato assoluto per eccellenza, monarchia spirituale e temporale allo stesso tempo.
Le arti apparvero come il mezzo più efficace per celebrare il trionfo di questo potere e per diffondere tra le masse i contenuti dell’ortodossia cattolica: la rappresentazione di storie sacre doveva aderire fedelmente alle Sacre Scritture, ma doveva anche essere comprensibile a tutti, in un fervore religioso sempre più attraversato da inquietudini mistiche e aspirazioni alla mondanità.
I maggiori artisti dell'epoca passarono da Roma, da Guido Reni ad Annibale Carracci, da Caravaggio a Poussin, il classicismo e i primi impulsi barocchi trovarono qui un ambiente fecondo per esprimersi soprattutto grazie al mecenatismo delle alte gerarchie cattoliche. Aumentarono così le committenze ecclesiastiche, dando luogo a un’opera di costruzione e di rinnovamento architettonico e decorativo degli edifici, senza precedenti.
Tra il 1560 e il 1660 la maggior parte delle chiese italiane venne restaurata, modificata e decorata. Roma, in particolare, cambiò volto, per diventare il simbolo della cattolicità.
La tendenza alla spettacolarizzazione coinvolse ogni aspetto della realtà sociale, culturale e artistica del momento. Al raccoglimento e alla ricerca di introspezione tipica della religiosità protestante, la Chiesa romana contrappose la solenne teatralità della liturgia post-tridentina.
Il linguaggio artistico barocco, che trovò una definizione intorno al 1630, durante il pontificato di Urbano VIII (1623-1644), rispose alla perfezione alle esigenze della celebrazione della chiesa romana.
L’arte abbandonò l’idea rinascimentale di rappresentare l’ordine della natura preferendo ad esso l’artificio che consentiva di mettere in scena una seconda realtà. Le tre arti si fusero, cosicché scultura e architettura tesero sempre più ad effetti pittorici, mentre la complessità architettonica e il dinamismo scultureo furono raggiunti in pittura attraverso effetti illusionistici.
La diffusione, in tutto il mondo cattolico, dell’architettura "gesuitica", partendo dal modello romano della Chiesa del Gesù, fu inoltre uno dei principali veicoli di diffusione internazionale della cultura barocca.
Colui che meglio incarna l’immagine di sovrano assoluto di questa monarchia spirituale è Urbano VIII (Firenze, 1568 - Roma, 1644). Durante il suo pontificato, orgoglio e ambizione, nepotismo e immense ricchezze si combinarono con gli ideali della più raffinata bellezza estetica.
Nato a Firenze nel 1568, Maffeo Barberini, dopo aver compiuto studi di diritto, si dedicò giovanissimo alla carriera ecclesiastica. Già elevato ad alte dignità da Sisto V, a trentacinque anni, fu nominato arcivescovo, a trentasei, nunzio apostolico in Francia e cardinale.
Aveva cinquantacinque anni quando fu eletto papa il 6 agosto 1623, alla morte di Gregorio XV Ludovisi. Si dedicò con zelo all’applicazione delle norme sancite da Concilio di Trento tentando di restaurare la disciplina e l’autorità della Chiesa di Roma.
Potenziò il Tribunale dell’Inquisizione, che durante il suo papato processò Galilei, e si adoperò per frenare in Europa il dilagare del protestantesimo.
Per quanto riguarda invece la sua attività politica, annetté nel 1631 allo stato Pontificio il ducato di Urbino e si impegnò in una guerra contro i Farnese per il dominio del ducato di Castro (1642-1644), che si rivelò rovinosa per le finanze pontificie.
Con la bolla In eminenti condannò nel 1642 la dottrina religiosa di Giansenio e incoraggiò le missioni cattoliche soprattutto in Asia.
Durante tutta la vita, egli dimostrò un grande interesse per la cultura e per le arti, circondandosi di eruditi, artisti e letterati. Egli stesso si dilettava a comporre poemi in greco ed in latino. La sua opera di mecenatismo fu una delle cause della fioritura a Roma della cultura barocca.
Urbano VIII dedicava ogni pomeriggio alla letteratura, alla musica, agli amici, alle cavalcate nei terreni attorno ai palazzi vaticani. Dopo l’acquisto, nel 1626, della villa di Castel Gandolfo, due volte l’anno, in maggio e in ottobre, si ritirava nella quiete delle colline attorniato, dalla sua corte di artisti, poeti e collezionisti. Mecenate non soltanto di Gian Lorenzo Bernini e Borromini, e di numerosi pittori emergenti come Pietro da Cortona e Nicolas Poussin, le sue scelte artistiche segnarono profondamente la storia contemporanea del gusto romano.
Bernini fu colui che assunse un ruolo ufficiale all’interno del programma politico del papa, traducendo in scultura ed in architettura le mire propagandistiche della Chiesa.
Fin dal 1628, il pontefice gli commissionò il proprio monumento sepolcrale, da collocare nella nicchia destra dell’abside della basilica vaticana, un’opera grandiosa, che costituirà il nuovo modello delle tombe monumentali di età barocca
Poussin nato nel 1594, compie la sua formazione a Parigi dove ha modo di approfondire la conoscenza della pittura italiana (conservata nelle collezioni reali), dei manieristi della scuola di Fontainebleau, e delle incisioni di Raffaello e di Giulio Romano.
Decide poi di intraprendere un viaggio in Italia e, dopo un soggiorno a Venezia, giunge nel 1624 a Roma dove rimarrà per il resto della sua vita.
La prima produzione italiana di Poussin rivela l'influsso di Tiziano, in particolare dei Baccanali che gli ispirano alcuni dipinti di soggetto mitologico caratterizzati da una gamma cromatica chiara e luminosa: si vedano Trionfo di Flora, Ispirazione del poeta, Baccanale con la suonatrice di liuto (Parigi, Museo del Louvre) e Morte di Germanico (Minneapolis, Institut of Arts).
L'artista si rivolge con crescente interesse e nostalgia al mondo antico: i soggetti storici o sacri tratti dal repertorio greco-romano sono raffigurati in composizioni di grande equilibrio formale, rigore ed essenzialità (Ratto delle Sabine, 1637, New York, Metropolitan Museum; la prima serie dei Sacramenti 1636-1640). Altro tema centrale dell'opera di Poussin è il paesaggio.
Sulla scia di Annibale Carracci, anche Poussin interpreta il paesaggio secondo un ideale classico di armonia e perfezione (Paesaggio con i funerali di Focione, 1648, Oakly Park, Shropshire, Earl of Plymouth Collection; Quattro Stagioni, dal 1660, Parigi, Louvre; Paesaggio con Orfeo ed Euridice).
L’artista nato nel 1575, esordì nella bottega del fiammingo Denijs Calvaert, ma i primi insegnamenti, fondamentali per il suo successivo sviluppo artistico, li ebbe all'Accademia degli Incamminati di Ludovico e Annibale Carracci.
In realtà il pittore manifestò presto la propria autonomia, come dimostra l'Incoronazione di Maria e quattro santi (1595 ca., Bologna, Pinacoteca Nazionale).
Dopo la partenza di Annibale Carracci per Roma i suoi rapporti con Ludovico si fecero sempre più tesi e arrivarono alla rottura dopo che Reni si aggiudicò, in concorrenza con il maestro, gli affreschi per la facciata di Palazzo Pubblico (1598). Probabilmente intorno al 1601 l'artista lasciò Bologna in compagnia di un altro accademico Francesco Albani (1578-1660) alla volta di Roma.
Qui lavorò inizialmente per il cardinale Paolo Emilio Sfrondato, eseguendo alcuni dipinti per la chiesa di Santa Cecilia in Trastevere. Tra il 1603 e il 1605 si datano la Crocifissione di San Pietro (Roma, Pinacoteca Vaticana), il Martirio di Santa Caterina (Albenga, Museo Diocesano) e gli Apostoli Pietro e Paolo (Milano, Pinacoteca di Brera).
Tra il 1607 e l'anno successivo l'artista entrò in contatto con il cardinale Scipione Borghese, per il quale realizzò gli affreschi nella sala delle Nozze Aldobrandini e in quella delle Dame in Vaticano.
Tra il 1609 e il 1610 egli lavorò al ciclo pittorico della cappella dell'Annunziata, annessa al palazzo pontificio del Quirinale; tra il 1611 e il 1612 partecipò alla decorazione della cappella Paolina in Santa Maria Maggiore e nel 1614 affrescò l'Aurora nel Casino Rospigliosi.
Del 1611 è un'altra importante commissione, eseguita per la cappella Berò in San Domenico a Bologna, il dipinto raffigurante la Strage degli Innocenti (Bologna, Pinacoteca Nazionale).
Nel 1614 il Reni si trasferì di nuovo a Bologna dove risiedette fino alla morte, pur continuando a spostarsi lungo la penisola. Nel 1621 soggiornò brevemente a Napoli. Tra il 1621 e il 1626 attese a due tele per la chiesa di San Pietro in Valle a Fano, mentre del 1625 è la Trinità per la chiesa dei Pellegrini di Roma.
Gli anni Trenta si aprono con la Pala della Peste (1630, Bologna, Pinacoteca Nazionale) e proseguono con una serie ininterrotta di grandi committenze conclusesi solo con la morte dell'artista nel 1642.
Fratello di Agostino e cugino di Ludovico, nato nel 1560, nel 1582 fu promotore con loro della fondazione a Bologna di un’accademia artistica chiamata Accademia dei Desiderosi che nel 1590 mutò nome assumendo quello di Accademia degli Incamminati.
La stretta collaborazione dei tre Carracci non era finalizzata soltanto all’insegnamento, ma anche all’attività pittorica; insieme essi realizzarono una serie di decorazioni ad affresco di soggetto allegorico-mitologico per vari palazzi bolognesi. Nei dipinti giovanili di Annibale è evidente l’interesse naturalistico, ben visibile in opere come La bottega del macellaio (1582-1583, Oxford, Christ Church) e Il mangiafagioli (1583-1584, Roma, Galleria Colonna).
I viaggi in Toscana, a Parma e a Venezia gli permisero di entrare in contatto con i grandi maestri del classicismo rinascimentale e con i protagonisti del colorismo veneto. La novità della sua pittura si palesa sia nelle opere di soggetto religioso, come il Battesimo di Cristo (1585, Bologna, chiesa di San Gregorio) e l’Assunzione della Vergine (1592, Bologna, Pinacoteca Nazionale), sia in quelle di soggetto mitologico quali la Venere con un satiro e due cupidi (1588, Firenze, Galleria degli Uffizi).
L’artista raggiunse la piena maturità a Roma dove ebbe modo di confrontarsi con le opere di Raffaello e Michelangelo; in Palazzo Farnese realizzò prima la decorazione di un camerino (1595-1597), di cui faceva parte la tela con Ercole al bivio ora nelle Gallerie di Capodimonte a Napoli, quindi la grande Galleria (1597-1602) che portò a termine in collaborazione con il fratello Agostino.
Nel 1603-1604 eseguì, insieme al Domenichino e all’Albani, le lunette per la cappella del Palazzo Aldobrandini, tra le quali spicca la Fuga in Egitto (Roma, Galleria Doria Pamphilj). Negli ultimi anni di vita una grave malattia limitò fortemente la sua attività.
Tra le ultime opere si ricorda la Pietà (Londra, National Gallery).
L’impronta lasciata dal pontificato di Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini, alla città di Roma fu determinante per le vicende artistiche del '600. Il suo gusto e quello della sua famiglia costituirono l’orientamento stilistico, sul quale si modellarono le scelte delle altre famiglie mecenati.
Urbano VIII era un uomo colto e ambizioso, desideroso di legare il nome della propria illustre casata non soltanto alla storia ecclesiastica, ma anche a quella politica e artistica. Fondamentale fu l’incontro con lo scultore Gian Lorenzo Bernini, che aveva già lavorato per il cardinale Borghese, uno dei più vivaci collezionisti dell’epoca.
Il giovane Bernini dovette, subito, apparire al papa l’artista più adatto tra quanti ve ne erano a Roma, per celebrare la gloria della Chiesa cattolica ed il trionfo della propria casata. Il primo incarico ufficiale, la realizzazione del Baldacchino di San Pietro, fu, infatti, di enorme importanza e da quel momento le commissioni si susseguirono senza tregua, tanto che lo stesso Scipione Borghese ed il re d’Inghilterra furono costretti a chiedere al papa il permesso di far lavorare l’artista per loro.
Le api e l’alloro, emblemi dei Barberini, restano oggi sulle opere berniniane a simbolo imperituro della potenza di questa famiglia, che non esitò a distruggere importanti vestigia del passato, pur di veder celebrata la propria gloria.
Nacque, in occasione della spoliazione delle decorazioni in bronzo del Pantheon, per procurarsi il bronzo necessario alla realizzazione del Baldacchino, il celebre detto: "Quod non fecerunt barbari/ fecerunt Barberini".
Alle commissioni papali, si devono alcune delle più importanti opere artistiche e architettoniche di Roma, dal grandioso sepolcro di Urbano VIII in San Pietro alla residenza di Castelgandolfo, dal Collegio di Propaganda Fide al palazzo Barberini, il più grande edificio privato della città, decorato, al suo interno, da uno splendido affresco di Pietro da Cortona raffigurante il Trionfo della Divina Provvidenza.
Il dipinto, che occupa la volta del salone principale, celebra in forme magniloquenti, studiate con cortigiana adulazione dal poeta Francesco Bracciolini (1566-1645), la gloria del potere spirituale e temporale del papato, assieme alla gloria della famiglia, il cui simbolo, le api campeggiano nel centro.
Il cardinale Scipione Borghese (Roma, 1576 - 1633), nipote di papa Paolo V (Camillo Borghese), era dotato di un infallibile intuito nella valutazione delle opere d’arte e era animato da una passione che lo portò spesso ad azioni spregiudicate pur di aggiudicarsi l’acquisto delle opere più pregiate.
Proprio tali azioni, insieme al suo oculato mecenatismo di talenti straordinari - basti ricordare Gian Lorenzo Bernini, Caravaggio, Domenichino, Guido Reni, Rubens - suscitarono l’attenzione generale e sono all’origine della fama del cardinale.
Degna di menzione anche la creazione della straordinaria Villa Borghese, impostata sulla competizione delle tre arti ad imitare e superare la natura. Egli promosse un gusto nuovo, ma sempre però memore del passato, sereno, sciolto e tangibilmente vicino all’osservatore.
Furono "suoi" gli scultori, i pittori e gli architetti che aprirono l’orizzonte verso un nuovo stile, il barocco romano, che sarà imitato in tutta Europa.
Gian Lorenzo Bernini nacque a Napoli e attorno al 1605 si trasferì con la famiglia a Roma, città che lasciò solo nel 1665 quando, ormai all’apice della fama, fu chiamato a Parigi da Luigi XIV.
Morì a Roma nel 1680. Nella bottega del padre Pietro, uno scultore tardomanierista, compì la sua formazione artistica, dedicandosi allo studio dei grandi maestri del '500 e della statuaria antica.
Egli rivelò il suo precoce talento nei gruppi marmorei di Enea e Anchise, del Ratto di Proserpina, del David e dell’Apollo e Dafne, eseguiti tra il 1619 e il 1625 su incarico del cardinale Scipione Borghese (Roma, Galleria Borghese).
L’ascesa al soglio pontificio di Urbano VIII Barberini assicurò a Bernini un posto di rilievo nella vita artistica romana come dimostra l’elezione ad architetto della Fabbrica di San Pietro. Per la basilica vaticana il Bernini eseguì il grandioso baldacchino (1624-1633), la tomba di Urbano VIII (1639-1647), la statua equestre di Costantino (1654-1668), il San Longino (1629-1638), la scenografica Scala Regia (1663-1666) oltre alla spettacolare cattedra (1656-1666) e al colonnato antistante la chiesa (1656-1667).
Tra le maggiori opere architettoniche dell’artista si ricordano inoltre la chiesa di Sant’Andrea al Quirinale (1658-1670) e i progetti commissionati dal re di Francia Luigi XIV per il palazzo del Louvre, che non vennero mai realizzati perché ritenuti incompatibili con il gusto classicista e le esigenze abitative francesi.
Al nome di Bernini sono associate anche alcune celebri fontane romane: dalla Fontana dei Fiumi (1648-1651) in piazza Navona alla Fontana del Tritone in piazza Barberini (1640). L’artista eseguì anche un cospicuo numero di ritratti scultorei, tra i quali quello di Scipione Borghese (1632, Roma, Galleria Borghese) e di Costanza Buonarelli (1635, Firenze, Museo del Bargello).
Bernini: il vortice di marmo
Con il barocco tre arti tesero a fondersi: scultura e architettura tesero sempre più ad effetti pittorici e di plasticità, mentre la complessità architettonica e il dinamismo delle sculture furono raggiunti in pittura attraverso effetti illusionistici che dilatavano gli spazi, fondendosi, in alcuni casi, con gli stessi elementi degli arredi edilizi. Gian Lorenzo Bernini fu uno dei massimi interpreti del nuovo stile; la materia inerme acquistava vita, si faceva spettacolo e trasmetteva messaggi di una religiosità sospesa fra pulsioni mistiche e volontà di trasmettere il volto terreno, trionfante, del cattolicesimo. Le grandi "braccia" del porticato di Piazza San Pietro sembravano voler abbracciare tutta la cristianità.
Francesco Castelli detto Borromini (Bissone, Canton Ticino 1599 - Roma 1667) iniziò la sua attività come apprendista scalpellino a Milano.
Intorno al 1619 si trasferì a Roma, dove compì uno studio appassionato dell'architettura di Michelangelo e proseguì il modesto lavoro di intagliatore di marmi al servizio di Carlo Maderno (1556-1629) il quale, riconosciuto il talento del giovane, gli affidò l'esecuzione di alcuni disegni architettonici per San Pietro e palazzo Barberini.
La lunga attività artigianale influì in modo determinante sulla sua successiva carriera di architetto, in cui è evidente il gusto per i dettagli fantasiosi e decorativi, accuratamente eseguiti.
Borromini non utilizzò mai materiali preziosi o sontuosi, preferendo le materie povere come lo stucco e il mattone, impreziosite solo dalla forma che l’artista conferì loro con fantasia inesauribile.
Il grande successo di Gian Lorenzo Bernini, figura antitetica a Borromini per temperamento e concezioni artistiche, ostacolò e ritardò l’affermazione del giovane architetto che solo nel 1634 realizzò a Roma il suo primo progetto autonomo: il complesso di San Carlo alle Quattro Fontane, con ambienti conventuali, chiostro e chiesa (la facciata venne iniziata solo nel 1665).
A questa opera seguirono l'incarico di costruire il convento e l'oratorio dei Filippini (1637-1649) e due prestigiose commissioni che rivelano lo straordinario genio innovatore di Borromini: la trasformazione interna della basilica di San Giovanni in Laterano (1646-1649), affidatagli dal papa Innocenzo X con il vincolo di conservare le antiche strutture e il soffitto ligneo cinquecentesco, e la costruzione della chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza avviata nel 1642.
Tra le principali opere compiute dall'architetto si ricordano la chiesa di Sant'Agnese in piazza Navona (1652-1655) e il grandioso prospetto del collegio de Propaganda Fide (1660-1662).
L'architettura di Borromini è caratterizzata da un costante contrasto di forze, dall'alternanza di concavità e convessità, di strutture rettilinee e curvilinee, di sporgenze e rientranze che animano ritmicamente facciate e interni in un rapporto dialettico con lo spazio.
Borromini ebbe un carattere introverso, scontroso e umbratile, che probabilmente influì sulle vicende personali ed artistiche della sua vita; a differenza del Bernini, estroverso e magniloquente, non riuscì mai ad instaurare rapporti e relazioni con committenti prestigiosi e potenti. Il suicidio ne concluse tragicamente la vita e la carriera nel 1667.
Pietro Berrettini detto Pietro da Cortona (Cortona, 1596 - Roma 1669) passò il periodo della sua formazione iniziale nella nativa Cortona, nei pressi di Arezzo, dove l'artista studiò con il pittore Andrea Commodi attivo nella cittadina toscana dal 1609 al 1612.
Il giovane allievo seguì il maestro a Roma e qui proseguì gli studi con Baccio Ciarpi. Durante il soggiorno romano l’artista, oltre a mantenere contatti con i residenti toscani, iniziò a stabilire rapporti con il locale ambiente classicista e in particolare con l’erudito Cassiano dal Pozzo.
Quest'ultimo, divenuto in seguito uno dei suoi maggiori committenti, lo stimolò allo studio dell'antichità: si collocano in questi anni i suoi disegni tratti dai rilievi della Colonna Traiana.
Il pittore venne precocemente impiegato in grandi decorazioni ad affresco: nel 1616 lavorava nella villa Arrigoni-Muti a Frascati, tra il 1624 e il 1626 nella chiesa di Santa Bibiana a Roma; tra il 1626 e il 1629 era attivo per i Sacchetti nella loro villa di Castelfusano.
Al 1631 risalgono i lavori in Palazzo Barberini; qui il pittore, coadiuvato da alcuni allievi, prima eseguì i dipinti della cappella (1631-1632) e più tardi (1633-1639) affrescò la volta del salone con il Trionfo della Divina Provvidenza. Contemporaneamente l'artista era impegnato anche in altre committenze; di questi anni è la decorazione ad affresco della sagrestia di Santa Maria in Vallicella.
Nel 1637 compì un viaggio nell'Italia Settentrionale. In questa circostanza sostò a Firenze dove il granduca Ferdinando II de’ Medici lo incaricò di affrescare la Sala della Stufa in Palazzo Pitti con le Quattro età della vita. Tornato a Roma nel 1640, in seguito venne richiamato a Firenze per nuovi affreschi al primo piano della residenza granducale (1641-1647).
Rientrato definitivamente a Roma nel 1647, venne incaricato dalla Congregazione dei Filippini di dipingere la cupola della chiesa di Santa Maria in Vallicella terminata nel 1651; a essa seguirono gli affreschi dei pennacchi (1655-1660) e del soffitto della navata (1664-1665). Tra il 1651 e il 1654 Pietro affrescò la galleria che Francesco Borromini aveva costruito nel Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.
Sono questi gli anni in cui il pittore si impegnò assiduamente anche in architettura, ricostruendo la chiesa dei Santi Luca e Martina al Foro, progettando il prospetto di Santa Maria in via Lata e intervenendo sull’esterno e sull’interno di Santa Maria della Pace.
Nonostante il perdurare della pittura su tela per quadri da stanza, di chiara destinazione privata, l’epoca del barocco è sostanzialmente caratterizzata dalla diffusione di grandi decorazioni ad affresco che ricoprirono superfici sterminate di edifici religiosi e profani.
La grande decorazione barocca interpretava perfettamente le fastose esigenze dei principi romani, laici ed ecclesiastici, che amavano vedersi esaltati nella gloria e nel fasto delle allegorie mitologiche, elaborate concettosamente da schiere di eruditi.
Pietro da Cortona fu l’interprete migliore di questa vena decorativa e celebrativa; il suo eccezionale talento si può apprezzare in pieno soprattutto negli immensi soffitti affrescati, dove trovarono pieno sfogo la sua inesauribile ricchezza d’inventiva, le sue doti di mirabile regista di scene affollatissime e il suo gusto scenografico.
L’artista toscano, giunto a Roma nel 1612, entrò subito in contatto con la pittura dei Carracci e di Lanfranco adottandone le novità pittoriche con prontezza e interesse.
Il suo stile eroico è fatto di "sublime gestire" e di appassionati atteggiamenti, in una felice combinazione tra meditazione sulla statuaria classica e uso di una pennellata fluida e distesa a largo tratto. La tavolozza pura e luminosa di Pietro da Cortona è tratta dalla grande pittura veneziana del '500 attraverso l’interpretazione nuova che ne diede il Rubens in Italia.
Incontrastato campione del barocco pittorico, Pietro assunse un ruolo di guida non solo per coloro che, allievi o diretti seguaci, ne divulgarono in seguito la lezione più fedele, ma anche per un gran numero di artisti italiani e stranieri, soprattutto francesi dell’età di Luigi XIV, che in lui trovarono il punto di riferimento nel genere della grande pittura aulica e religiosa.
Negli ultimi anni di attività Pietro da Cortona si dedicò all’architettura mettendo in mostra uno stile molto più controllato, dominato ancora da ricordi cinquecenteschi.
Se Pietro fu particolarmente versato nella rappresentazione di tematiche mitologiche e profane, Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio fu il migliore interprete dello spirito barocco nei temi sacri, che dipinse ad affresco nelle principali chiese gesuitiche romane.
Fu lo stesso sant’Ignazio di Loyola a scegliere in Roma il luogo dove edificare la chiesa madre dell’ordine dei gesuiti da lui fondato, dedicata al santissimo Nome di Gesù e nota come Chiesa del Gesù.
Costruita tra il 1568 ed il 1575, essa presenta un interno a croce latina con una vasta navata ripartita da paraste binate, con tre cappelle per lato, un transetto appena aggettante, un’ampia tribuna absidata e una maestosa cupola.
La decorazione della navata, raffigurante il Trionfo del Sacro Nome di Gesù, rappresenta il capolavoro di Giovanni Battista Gaulli, detto il Baciccio (1639-1709), pittore genovese che qui inscenò una delle rappresentazioni più perfette del trionfo barocco.
Commissionato nel 1672 e ultimato undici anni più tardi, l’affresco, il cui tema fu scelto dagli stessi padri gesuiti, occupa l’intero soffitto della grande navata, simulando la vastità celeste affollata di santi e di angeli. In un trionfo di luci e di colori, le figure si dispongono a gruppi, dilagando oltre le fastose cornici dorate e coinvolgendo, nella gloria della seconda persona della Trinità, gli angeli e i putti scolpiti a decorazione del soffitto.
È come se la volta della chiesa si aprisse sull’azzurro cielo, lasciando apparire agli occhi dei fedeli la luce abbagliante che emana dalla visione celeste, e coinvolgendoli nel miracolo.
Integrando tra loro pittura, scultura e architettura, l’artista superò le norme della simmetria per inscenare una composizione vorticosa, dove un movimento centrifugo lascia spazio al monogramma di Cristo.
La luce divina esalta gli eletti e precipita i dannati, in un groviglio di figure scorciate che accentuano l’illusionismo spaziale. Esempio tra i più alti della pittura religiosa del '600, l’affresco divenne il modello ideale della decorazione chiesastica di età barocca.