Nato a Edimburgo nel 1711 da famiglia di piccola nobiltà, Hume frequentò l'università della sua città, ma senza concludere gli studi, e si dedicò invece a letture personali (Locke, Berkeley, soprattutto Hutcheson, che insegnava nella scozzese università di Glasgow), concependo sin dalla giovinezza il progetto di costruire un nuovo tipo di filosofia.
Dal 1737 al 1739 si recò in Francia, dove soggiornò nel Collegio di La Flèche (l'antica scuola di Cartesio) ed elaborò la sua prima opera importante, il Trattato sulla natura umana, in tre libri, che pubblicò a Londra nel 1740.
Poiché l'opera ebbe scarsa risonanza, Hume ne rielaborò il contenuto in due opere successive, i Saggi filosofici sull'intelletto umano, poi ribattezzati in Ricerche sull'intelletto umano, dove riesponeva il primo libro del Trattato, e le Ricerche sui princìpi della morale, dove ne riesponeva il terzo libro, usciti entrambi in forma definitiva nel 1751.
Nel 1741 scrisse anche i Saggi morali e politici.
Nel frattempo Hume tentò la carriera universitaria, sia a Edimburgo che a Glasgow, ma a causa delle sue idee scettiche e sospette di ateismo non riuscì mai ad ottenere una cattedra.
Si dedicò allora alla carriera politica, diventando prima segretario di un generale, al seguito del quale partecipò a una spedizione militare in Francia, poi prendendo parte ad un'ambasceria a Vienna e a Torino e infine diventando segretario dell'ambasciatore inglese a Parigi. In quest'ultima veste soggiornò dal 1763 al 1766 nella capitale francese, dove entrò in rapporti con i principali filosofi illuministi (Diderot, d'Alembert, Rousseau).
Tornò in Inghilterra in compagnia di Rousseau, col quale però ruppe subito dopo i rapporti. Nel 1767 fu nominato Sottosegretario di Stato per il Nord e dopo alcuni anni lasciò l'incarico, ritirandosi a Edimburgo per dedicarsi liberamente ai suoi studi. Scrisse inoltre i Discorsi politici, le Quattro dissertazioni (di cui una intitolata Storia naturale della religione), la Storia dell'Inghilterra, che ebbe molta fortuna, e i Dialoghi sulla religione naturale, usciti postumi. Morì a Edimburgo nel 1776.
Sin dalla giovinezza, come abbiamo visto, Hume aveva concepito il progetto di costruire una nuova filosofia, che trovò la sua prima espressione complessiva nel Trattato sulla natura umana.
Essa consisteva, come dice il titolo dell'opera, in una scienza della natura umana, realizzata con lo stesso metodo con cui Newton aveva costruito la scienza della natura fisica, cioè col metodo sperimentale.
I fenomeni che questa nuova scienza doveva descrivere erano i «fenomeni morali», cioè le conoscenze, i sentimenti, le passioni dell'uomo, i quali dovevano essere ricondotti ad una «natura comune», fondamentalmente uguale per tutti gli uomini.
In tal modo la nuova scienza doveva diventare la sintesi di tutte quelle che a partire da allora furono chiamate in Inghilterra le «scienze morali» (moral sciences), cioè l'etica, la politica, l'estetica e la religione naturale (ad esse si sarebbe aggiunta ben presto, come vedremo, anche l'economia).
Non è difficile riconoscere il carattere illuministico di questo progetto di Hume, sia per la considerazione della scienza sperimentale come unica forma possibile di conoscenza, sia per la presupposizione di una comune natura umana.
Ciò che tuttavia contraddistingue l'idea di natura umana è il fatto che questa non viene da Hume identificata con la ragione, come avveniva ancora in Locke e in Berkeley, bensì, come vedremo, con una specie di istinto, o sentimento, da Hume chiamato credenza (belief).
In ciò si rivela indubbiamente l'influenza della filosofia del «sentimento morale», in particolare nella forma datale da Hutchenson, e si manifesta anche una certa affinità, come ugualmente vedremo, col pensiero di Rousseau.
L'indagine sulla natura umana, condotta da Hume nel primo libro del Trattato e nelle Ricerche sull'intelletto umano, muove da quello che, a suo giudizio, è il fenomeno dal quale derivano tutti gli altri, l'esperienza. Sulla scia di Locke e di Berkeley, Hume concepiva l'esperienza come costituita esclusivamente da sensazioni e da idee.
Solo che, per Hume, tra le une e le altre non c'è altra differenza che il grado di vivacità e di forza. Perciò egli preferisce chiamare le sensazioni col nome di «impressioni», al fine di sottolinearne la maggiore forza e vivacità, lasciando il nome di «idee» alle immagini delle sensazioni che si conservano nella memoria o nell'immaginazione inevitabilmente più deboli e illanguidite.
Naturalmente le idee derivano dalle impressioni, di cui sono appunto le immagini, per cui non ha senso parlare di idee innate, che sono tutte particolari, come le impressioni, e non ha senso parlare di concetti universali (universali sono solo i nomi, come per Hobbes e Berkeley).
Anche in Hume, dunque, come in Locke e Berkeley, le idee hanno il significato di rappresentazioni particolari esistenti nella mente, e non sono ciò per mezzo di cui si conosce la realtà, ma sono esse stesse, insieme con le impressioni, l'oggetto della conoscenza.
Un altro fenomeno facilmente osservabile, secondo Hume, è il fatto che le idee tendono ad associarsi tra di loro, cioè hanno una tendenza analoga a quella che, nella fisica newtoniana, è l'attrazione reciproca fra i corpi, ossia la forza di gravità.
Le impressioni si presentano a noi in un certo ordine (di contemporaneità e di successione) che non possiamo dire a che cosa sia dovuto. Possiamo tuttavia constatare che, quando due impressioni si sono presentate in un certo ordine, anche le corrispondenti idee tendono a presentarsi allo stesso modo.
Se noi abbiamo avuto, ad esempio, un'impressione di pesantezza sollevando un blocco d'acciaio, ci meraviglieremmo moltissimo se, trovandoci più tardi a sollevare un oggetto che ha le stesse caratteristiche di grandezza, colore, lucentezza, levigatezza, ecc., questo nuovo oggetto ci risultasse leggero.
Allo stesso modo ci meraviglieremmo se, dopo aver visto tante volte all'alba seguire il mattino, vedessimo tornare la notte dopo un'ora sola di luce; o se, dopo aver provato dolore nel toccare la brace, vedessimo qualcuno camminare senza segni di sofferenza sui carboni ardenti.
In altri termini, un'impressione già presentatasi unita a un'altra, quando si ripresenta, provoca una certa aspettativa che si ripresenti anche l'altra.
E se le due impressioni si sono presentate insieme più e più volte, tale aspettativa si fa più intensa, fino a diventare un'abitudine, e una certezza così radicata, che grideremmo al miracolo se la seconda impressione non si presentasse.
In ciò consiste il fenomeno della "associazione delle idee", con cui Hume tenta di spiegare tutta la nostra attività mentale.
Questa attrazione, o associazione tra le idee, è anch'essa governata da leggi ben precise, che sono la legge di somiglianza, in base alla quale si associano idee di cose tra loro simili, la legge di contiguità spazio-temporale, in base alla quale si associano idee di cose tra loro vicine nello spazio o nel tempo, e la legge di causalità, in base alla quale si associano idee di cause e idee di effetti.
In base a queste leggi dell'associazione Hume è in grado di spiegare tutti i fenomeni della vita psichica, per esempio il formarsi dei nomi universali.
Quando molte idee di cose particolari, le quali sono anch'esse tutte particolari, anzi individuali, si assomigliano tutte fra di loro, e quindi tendono ad associarsi costantemente, noi per abitudine le colleghiamo per mezzo di uno stesso nome, che è dunque universale, cioè è unico e insieme indica molte cose, ma non corrisponde a nessuna idea universale.
Mentre la facoltà di conservare le impressioni, trasformandole quindi in idee, è per Hume la memoria, la facoltà di collegare tra loro le idee è l'immaginazione.
Quest'ultima non è però una facoltà attiva, in quanto collega tra loro le idee semplicemente in base all'abitudine, cioè quando constata che una certa associazione tra idee, dovuta a qualcuna delle tre leggi sopra menzionate, si ripete costantemente.
Esistono tuttavia,secondo Hume, due tipi fondamentali di collegamento fra le idee, quelli che esprimono una semplice relazione, in cui un'idea è ricavata da un'altra senza alcun bisogno di ricorrere all'esperienza, e quelli che riguardano una questione di fatto (matter of fact), in cui un'idea è collegata con un'altra perché si ritiene che le cose ad esse corrispondenti siano di fatto collegate, il che può risultare solo dall'esperienza.
Mentre le semplici relazioni tra idee, secondo Hume, esprimono connessioni necessarie, tali cioè che la loro negazione sarebbe contraddittoria, le questioni di fatto esprimono connessioni soltanto contingenti, tali cioè che la loro negazione non è affatto contraddittoria.
Perciò, dice Hume, le prime si fondano sul principio di non contraddizione (inteso evidentemente come principio di identità), mentre le seconde si fondano sulla legge di causalità.
Alle relazioni tra idee Hume riconduce tutte le proposizioni della matematica, le quali sono valide necessariamente non perché esprimano connessioni necessarie tra cose esistenti di fatto, ma perché esprimono appunto delle semplici connessioni tra idee.
L'oggetto della fisica matematica (newtoniana) non è quindi una realtà bensì un'astrazione.
La matematica riesce, è vero, a fissare certi rapporti esatti, in proposizioni che si dimostrano vere: ma può far ciò perché lavora su puri nomi, il cui valore è fissato per convenzione (e, pertanto, può rimanere immutabile).
Quando invece si voglia interpretare, con i rapporti così stabiliti la realtà, non si potrà esser certi che le impressioni reali trovino corrispondenza precisa in quei "nomi" di cui abbiamo astrattamente fissato i rapporti. Anzi, tale corrispondenza non potrà mai esserci del tutto, appunto perché da un lato abbiamo a che fare con impressioni, dall'altro con nomi e astrazioni.
Anche Hume perciò, come Locke e Berkeley, non ritiene che la matematica sia applicabile alla fisica, perché quest'ultima ha a che fare non con relazioni tra idee, ma con questioni di fatto.
Lo stesso si deve dire del concetto di causa, ancor più necessario alla scienza della natura. Tutta la scienza si fonda infatti sul presupposto che, dati certi fenomeni, non potranno non presentarsene certi altri, i quali si dicono per questo "causati" dai primi.
Prendiamo come esempio una palla da biliardo che, muovendosi, va ad urtarne un'altra. All'urto segue il movimento della seconda palla.
Noi diciamo che l'urto è la causa, ed il movimento della seconda palla l'effetto.
La palla A si muove e tocca la palla B; questo è il fatto antecedente cui do il nome di urto. La palla B si muove, allontanandosi dalla palla A; ecco il secondo fatto.
Ma nella impressione complessa del movimento della palla A, che cosa trovo che accenni ad un movimento futuro della palla B?
Secondo Hume, che ha eliminato il concetto di sostanza, anziché analizzare l'idea dei corpi e volerne spremere ciò che non ci si trova, dobbiamo ricorrere alla nostra esperienza positiva immediata, e domandarci che cosa avvenga in noi, quando crediamo che all'urto segua il movimento.
Così Hume sposta la questione dalle impressioni di sensazione a quelle di riflessione. Come perveniamo a sapere che c'è un rapporto causale?
Vi perveniamo dopo aver sperimentato molti casi simili. Senonché da molti casi simili, considerati in se stessi, non si può mai estrarre nessuna idea che già non si trovi in ogni singolo caso.
La differenza, se c'è, non può trovarsi se non in qualche impressione, determinata nella nostra mente dal ripetersi di casi simili. In effetti noi constatiamo in noi stessi l'inclinazione "abituale" a passare da un'idea ad un'altra, o da un'impressione ad un'idea.
Dopo aver già osservato molte volte che una palla, urtando un'altra palla la mette in moto, vediamo, in questo momento, la palla A che muove in direzione della palla B e sta per toccarla: l'impressione attuale è naturalmente associata, in noi, con l'idea del movimento successivo dell'altra palla.
Siamo, allora, spinti a rappresentarci quest'idea.
Ma l'affermare una realtà successiva a quella che attualmente sperimentiamo è come rappresentarci il futuro come se già lo vedessimo.
Si tratta di un'attesa certa: non possiamo fare a meno di aspettarci che la palla B si muova. La realtà di cui ci fidiamo è la stessa di una realtà che affermiamo.
Questa necessità, che noi avvertiamo in noi stessi, di estendere il senso della credenza dall'impressione attuale all'idea abitudinariamente associata è l'origine di "connessione necessaria".
È allora evidente che questa pretesa costrizione oggettiva è la proiezione di una aspettazione soggettiva per cui, come si è visto, la presenza di A richiama quella di B.
Il fondamento di tale proiezione è l'abitudine; perché, dopo un grandissimo numero di volte che B è seguito ad A, io non mi accorgo più di aspettare B dopo A per una mia disposizione soggettiva; penso che debba seguire senz'altro, automaticamente, per il fatto stesso che c'è A.
Se, tuttavia, considero più attentamente che cosa è A, mi accorgo che questa presunzione è infondata: in un oggetto qualsiasi non potrà mai trovarsi la necessità di un altro oggetto, diverso dal primo, e che tuttavia lo debba seguire.
Hume osserva che, trattandosi di una questione di fatto, la connessione deve essere ricavata dall'esperienza, ma l'esperienza attesta semplicemente la contiguità spaziale tra le cose rappresentata dalle idee, per esempio il fatto che, ogniqualvolta c'è del fumo, non lontano da esso c'è anche del fuoco, e la successione temporale tra esse, per esempio il fatto che prima c'è il fuoco e poi c'è il fumo; l'esperienza non attesta, invece, la connessione necessaria tra le due cose: non è contraddittorio, infatti, che ci possa essere del fumo senza fuoco, o del fuoco senza fumo.
Stabilito che la connessione di causalità non risulta dall'esperienza, a Hume rimane da spiegare come mai una semplice contiguità spaziale, o una successione temporale tra due eventi, venga invece scambiata per una vera e propria connessione causale, cioè tale per cui il primo evento è considerato causa reale del secondo.
La spiegazione che egli ne dà è, ancora una volta, l'abitudine: poiché noi siamo abituati a vedere che, ogniqualvolta c'è del fumo, c'è anche del fuoco, «crediamo» che il fuoco sia effettivamente causa del fumo.
È l'abitudine, insomma, a suscitare in noi la credenza (belief) nella connessione causale.
La fisica, dunque, a differenza della matematica, è fondata su una semplice credenza, quindi le sue leggi non hanno un valore necessario, ma solo un valore probabile.
In ciò Hume si stacca dalla concezione moderna, e illuministica, della scienza, avvicinandosi invece a quella che sarà la concezione della scienza nel Novecento.
La credenza di cui parla Hume non è un'effettiva conoscenza, cioè un'impressione, perché non deriva dall'esperienza, ma è solo un sentimento, una specie di istinto. Tuttavia essa è forte e vivace come se fosse un'impressione, ed è «naturale», cioè appartiene per natura a tutti gli uomini.
Essa è la fonte di ogni certezza ed è ciò che costituisce più propriamente la natura umana, ossia ciò che accomuna tra loro tutti gli uomini, distinguendoli dagli altri esseri viventi.
Con questa dottrina, dunque, Hume ha realizzato il suo progetto giovanile, quello di costruire una scienza della natura umana, basata sull'indagine sperimentale dei fenomeni.
Della dottrina della credenza Hume si serve anche per spiegare l'idea di sostanza, che noi abbiamo a proposito dei corpi esterni (sostanza materiale) e a proposito di noi stessi (sostanza spirituale).
Noi non abbiamo, osserva Hume, nessuna esperienza, e quindi nessuna impressione, dell'esistenza di corpi materiali, intesi come sostanze, ma abbiamo impressioni solo del colore, della forma, della solidità, del peso, ecc.
Perciò non possiamo affermare, in base a una qualche conoscenza, che le sostanze materiali esistano: in ciò Hume non fa che portare alle estreme conseguenze, come già aveva fatto Berkeley, l'affermazione di Locke, secondo cui la sostanza non è altro che il sostrato oscuro, cioè non percepito, delle qualità.
Hume tuttavia spiega perché noi crediamo ugualmente nell'esistenza dei corpi: è solo l'abitudine, egli afferma, a vedere che un certo numero di impressioni, per esempio il colore, la forma, la solidità, il peso, ecc., sono spesso associate tra loro, a suscitare in noi la credenza nell'esistenza di un corpo.
La stessa esistenza dei corpi, dunque, è oggetto di credenza, come lo è l'idea di causalità.
Hume va oltre Berkeley, sottoponendo alla stessa critica anche l'idea della sostanza spirituale, cioè l'esistenza del soggetto conoscente, che invece Berkeley aveva considerato fuori discussione e a cui anzi aveva ridotto l'intera realtà.
Secondo Hume noi non abbiamo esperienza, cioè impressione, del nostro «io», ma solo dei nostri stati di coscienza (sensazioni, idee, sentimenti, ricordi,desideri, passioni), i quali fanno la loro apparizione nella nostra coscienza come in una specie di teatro.
In altre parole, secondo Hume, noi non siamo una sostanza sempre identica a se stessa, una «persona» dotata di una propria identità immutabile, ma siamo soltanto un fascio di impressioni che si susseguono nel tempo.
Anzi, se l'io fosse una sostanza, osserva Hume, tutte le cose, le quali non sono altro che impressioni, sarebbero dei modi di questa sostanza e si avrebbe pertanto una concezione panteistica come quella di Spinoza.
Anche in questo caso ciò che ci assicura della nostra esistenza, e della nostra identità personale, è semplicemente la credenza, cioè il sentimento, la convinzione che ciascuno di noi ha di essere sempre la stessa persona, nonostante il susseguirsi, e quindi il mutare, dei nostri stati di coscienza.
Poiché siamo abituati a riferire certe impressioni a noi stessi, piuttosto che ad un corpo esterno, noi finiamo col credere di essere un soggetto distinto dalle nostre impressioni: ma questo soggetto non ha maggiore realtà di quanta ne abbiano i corpi.
Già Locke del resto, come abbiamo visto, faceva dipendere l'identità personale unicamente dalla coscienza, cioè dalla memoria.
A causa di queste dottrine Hume fu accusato di scetticismo, cioè di avere negato qualsiasi verità: ma egli riteneva di essere uno scettico moderato, perché non negava l'esistenza dei corpi, delle persone, delle stesse leggi naturali, ma soltanto la loro conoscibilità, e vi sostituiva una serie di credenze, nelle quali riteneva di avere individuato l'elemento specifico della natura umana.
In questo modo riteneva, anzi, di avere costruito l'autentica scienza dell'uomo, cioè di avere spiegato «scientificamente» come e perché gli uomini credano nell'esistenza delle cose, della natura e di se stessi.
È evidente che in questa convinzione Hume applicava innumerevoli volte il principio di causalità, o di ragion sufficiente, inteso nel senso lato del termine, cioè come certezza che ogni cosa abbia una spiegazione, ovvero un perché.
L'intento di Hume, nel progettare una scienza dell'uomo, non era solo di spiegare i fenomeni psichici, ma anche quello di costruire una morale, che per lui rappresentava la parte più importante di tutta la filosofia, in quanto condizione della convivenza sociale.
Nell'ambito della morale, esposta nel terzo libro del Trattato sulla natura umana e ripresa poi nelle Ricerche sui princìpi della morale, egli svolge anzitutto un'analisi delle passioni.
Le passioni sono caratteristiche, come la credenza, della natura umana, e sono impressioni derivanti non dall'esperienza, ma da altre impressioni.
Esse possono derivarne direttamente, come il piacere e il dolore, o indirettamente, attraverso altre passioni, come l'amore e l'odio, l'orgoglio e l'umiltà, ecc.
La stessa volontà, per Hume, non è altro che una passione, la quale nasce dall'impressione che noi abbiamo di produrre qualche movimento del corpo o qualche idea della mente. Come tale, essa è libera solo nel senso che non è soggetta a coazioni esterne, non nel senso che sia arbitraria, cioè casuale (per Hume, infatti, il libero arbitrio è identico al caso).
In quanto prodotte dalle impressioni, le passioni, secondo Hume, non dipendono in nessun modo dalla ragione e la ragione dunque è del tutto impotente a orientare le azioni umane. Come facoltà di conoscere i fatti, la ragione può dire soltanto come una cosa è, non come deve essere, perciò non può né suscitare una passione, né opporsi a una passione: solo un'altra passione può fare questo.
«La ragione» dice Hume «è, e deve solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire ed obbedire ad esse». Di conseguenza, secondo il filosofo scozzese, l'etica, cioè la morale, non può assolutamente fondarsi sulla ragione, come pretendevano, oltre ai filosofi razionalisti (Cartesio e Spinoza), anche empiristi come Locke e Berkeley.
Per questa sua dottrina Hume è stato considerato da alcuni filosofi del Novecento l'autore di una legge, detta appunto legge di Hume, secondo la quale è vietato dedurre da proposizioni descrittive, cioè esprimenti una conoscenza, proposizioni prescrittive, cioè esprimenti un comando, ovvero una norma, e quindi l'etica non può fondarsi su nessuna conoscenza, il mondo della conoscenza e quello dell'azione essendo completamente divisi l'uno dall'altro.
In realtà Hume osservò semplicemente che è scorretto, dal punto di vista logico (cioè della logica aristotelica, l'unica che egli conoscesse), passare da proposizioni formulate col verbo «essere» (cioè is, «è») a proposizioni formulate col verbo «dovere» (cioè ought, «deve»), perché ciò costituisce un «passaggio ad un genere diverso» (mentre, secondo Aristotele, la deduzione presuppone sempre l'identità del genere).
Inoltre va osservato che non tutti i filosofi orientati a fondare l'etica sulla conoscenza, o sulla ragione, attribuiscono a questa un valore soltanto descrittivo, cioè condividono la concezione humiana della ragione e della natura umana (ciò vale, in effetti, per Cartesio e per Spinoza, che escludono dalla realtà qualsiasi finalità, e dunque qualsiasi ordine normativo, ma non per i filosofi che invece ammettono il finalismo).
Se dunque, per Hume, la morale non può fondarsi sulla ragione, su che cosa si fonderà? Hume risponde, come Hutcheson, che essa si fonda sul sentimento morale, cioè sulla propensione, propria della natura umana, a provare un senso di compiacimento, e quindi di approvazione, di fronte alle azioni virtuose, ed un senso di ripugnanza, e quindi di disapprovazione, di fronte alle azioni malvagie.
Si tratta, secondo Hume, di un sentimento disinteressato, che ci spinge ad agire non solo in vista del nostro utile, ma anche in vista dell'utile altrui, e dunque ad agire moralmente.
In realtà, a suo modo di vedere, una delle passioni caratteristiche della natura umana è la simpatia, intesa in senso letterale, cioè come disposizione a condividere (syn, «com» le passioni (pàthe) altrui, e quindi benevolenza verso gli altri.
L'uomo infatti, secondo Hume, è per natura socievole, contrariamente a quanto affermava Hobbes, quindi desidera l'approvazione degli altri e ne teme la disapprovazione.
Sulla base di questi sentimenti si può costruire un'etica che, per usare l'espressione di Hutcheson, assegni come fine alle azioni «il maggior utile possibile per il maggior numero possibile di persone».
Dalla sua concezione dell'etica Hume ricava anche una concezione della politica sostanzialmente ottimistica e conservatrice, quale risulta dai suoi Saggi morali e politici e anche dalla sua Storia dell'Inghilterra. Essendo convinto, infatti, che gli uomini sono per natura socievoli, egli rifiuta la spiegazione contrattualistica dell'origine della società (avanzata, oltre che da Hobbes, anche da Locke), ritenendo che la società esistente sia perfettamente naturale, cioè conforme alla natura umana, e che sia altrettanto naturale l'assetto socio-economico che la caratterizza, fondato essenzialmente sul diritto di proprietà. Il maggior utile possibile per il maggior numero di persone, proposto come fine all'etica, costituisce per Hume anche la giustizia, nel senso sociale e politico del termine, e consiste nel garantire a ciascuno la possibilità di godere liberamente la sua proprietà privata. Perciò Hume fu favorevole al tipo di regime instaurato in Inghilterra con la rivoluzione del 1688, che egli interpretò come una costituzione mista, cioè una giusta mescolanza tra la monarchia, in quanto comprendente il re, l'aristocrazia, in quanto comprendente la Camera dei Lords, e la democrazia, in quanto comprendente la Camera dei Comuni.
Alquanto critico è, invece, l'atteggiamento di Hume nei confronti della religione, quale risulta dalla sua Storia della religione naturale e poi dai suoi Dialoghi sulla religione naturale. Anche la religione, come l'etica, non ha per Hume alcun fondamento razionale: tutti i tentativi di dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio, a suo avviso, non sono validi, perché si fondano sull'estensione dell'idea di causalità al di là dell'esperienza, il che non è ammissibile. In tal modo Hume rifiuta anche le posizioni del deismo del suo tempo, cioè la validità razionale della religione naturale.
Anche la religione, come l'etica, si fonda unicamente sui sentimenti: in particolare essa si fonda sul sentimento di terrore provato dagli uomini primitivi di fronte a certi fenomeni naturali, che li indusse a immaginare l'esistenza di esseri simili a loro, gli dèi, responsabili di tali fenomeni. Nacque così prima il politeismo, che è la più antica forma di religione, e da esso derivò il monoteismo, che tuttavia ha conservato tracce del politeismo nel culto dei santi e nella credenza negli angeli e nei demoni. Tuttavia Hume non condivide nemmeno l'ateismo dei liberi pensatori, perché afferma che un popolo privo di religione non può esistere, o, se esiste, è in tutto simile ad un popolo di bruti.