L’azione formativa sia dei Greci sia dei Romani, pur dando spazio all'individuo, privilegia la comunità di appartenenza del singolo, considerata il luogo nel quale l'esistenza individuale trova i propri valori e modelli di comportamento e, dunque, riceve il suo autentico significato. Essa consiste, pertanto, in un'educazione prevalentemente di carattere sociale e politico, rispetto alla quale si pongono sia questioni di ordine etico sia considerazioni e valutazioni che attengono alla struttura della società e alle sue forme di organizzazione.
Educare l'eroe
Nella società arcaica il modello cui si ispira il processo formativo (la paidéia) è quello dell'areté eroica, il modello di virtù espresso dalla nobiltà guerriera. Solo l'aristocrazia guerriera è coinvolta in questo processo formativo, mentre ne sono esclusi gli altri uomini liberi, oltre agli schiavi. Nella società arcaica l'areté, espressione del sistema di valori dell'aristocrazia, è considerata innata, ossia un patrimonio ereditario e connaturato alla nobiltà. Come tale, l' areté è ritenuta non trasmissibile mediante l'educazione, proprio perché appannaggio di una ristretta cerchia di individui. La funzione dell' educare consiste, allora, nel far emergere e maturare proprio quelle virtù che, nell' eroe, sono appunto innate.
Fonti della paidéia greca, dalle origini arcaiche all'età classica, sono soprattutto l'lliade e l'Odissea, cioè i poemi attribuiti a Omero, nonché le Opere e i Giorni e la Teogonia di Esiodo. Se per Omero l'areté designa qualità quali la forza, il coraggio, l'astuzia della mente, la liberalità con gli ospiti, con Esiodo essa è identificata con la prosperità che nasce dall'onesto lavoro. Il processo formativo in questo periodo riguarda soprattutto la capacità di maneggiare le armi in guerra e di parlare nelle assemblee dei nobili. Fine dell'educare è la kalokagathia dell'eroe, un'armoniosa combinazione di tratti e capacità che lo rendano "bello" (kalòs) e "buono" (agathòs). La bellezza risponde ai canoni "atletici" del guerriero, con tutto il vigore e il furore che riesce a scatenare nel combattimento. La bontà è un insieme di qualità che denotano la rispondenza della condotta e dello stile di vita ai valori di una società competitiva come è quella della Grecia arcaica: primeggiare con le armi nel combattimento e nell'assemblea dei propri pari con la parola.
In questa società, il compito educativo non può essere svolto dalla famiglia, giacché la donna è chiamata a occuparsi solo dell'allevamento del bambino (fino ai sette anni) e il padre è impegnato nella guerra o nella vita pubblica. Non esistendo ancora la scuola, dell'attività educativa si devono far carico gli adulti, come loro dovere civico. Tra un adulto e un giovane si stabiliva, perciò, un rapporto nel quale l'adulto era il modello, l'''eroe'' cui il giovane avrebbe dovuto assomigliare. Tale relazione adulto-giovane aveva inoltre una forte connotazione affettiva, che poteva dar luogo anche a un legame di tipo amoroso, talora di natura passionale e sessuale.
'Dappertutto' la pòlis educa
Con lo sviluppo della pòlis, si affermano nuovi valori, interessi e bisogni. La partecipazione di un numero sempre crescente di cittadini alla vita pubblica provoca un cambiamento sia nella sfera dei valori di riferimento, sia nelle modalità formative. Appare sempre più viva l'idea che sia l'educazione a generare l'areté e a favorire la trasmissione e l'insegnamento della virtù. Inoltre, nella Grecia classica la nozione di paidéia è strettamente legata a quella di pòlis: alla sua base vi sono infatti l'apprendimento dei diritti e dei doveri del cittadino, l'assimilazione della tradizione civica, la conformazione della condotta alle leggi, l'accettazione piena e indiscussa dei caratteri etico-religiosi di quella tradizione.
Questi non sono dei 'contenuti' di un vero e proprio insegnamento scolastico, poiché si apprendono nello svolgimento delle attività fondamentali della pòlis, ossia "nel dire e fare le cose della città", scrive Platone, perché "dappertutto" la città insegna: nella famiglia come nel tribunale, nell'assemblea come nel teatro in cui si recitano le tragedie, nel rito religioso come nella gara sportiva.
Dunque, con lo sviluppo della pòlis l'educazione si trasforma, anche per effetto di quella straordinaria rivoluzione costituita dall'avvento della scrittura alfabetica, cui si accompagna la nascita di una scuola dell'alfabeto. Non solo i nobili, ma anche gli altri cittadini liberi, soprattutto quelli provenienti dalle classi agiate, cominciano a frequentare tale scuola, nella quale, oltre alle arti ginniche e musicali, si apprendono la lettura e la scrittura, tecniche fondamentali di comunicazione e partecipazione alla vita cittadina.
È ancora un'educazione di élite, poiché solo i ceti abbienti possono sostenerne i costi e disporre del tempo per fruirne. Si tratta, comunque, di un tipo di paidéia che guarda alla formazione armonica della persona e nella quale si conferisce sempre più rilievo alla cultura letteraria e musicale, non finalizzata a intenti pratici ma ritenuta importante per la crescita della personalità del giovane.
Così, mentre a Sparta si conserva un ideale educativo di tipo militare, ad Atene, con l'avvento della democrazia, la partecipazione di un numero sempre maggiore di cittadini alla vita politica pone l'esigenza di allargare gli spazi di libertà, mentre cresce l'impegno di partecipazione diretta del cittadino al funzionamento delle istituzioni. Viene alla luce allora una nuova cultura prodotta dal cambiamento sociale e politico, e pare opportuno dotare anche il cittadino comune della virtù politica. L’educazione interpreta e accompagna questa svolta, favorendo a sua volta i processi di democratizzazione e modernizzazione della pòlis. Nasce perciò la necessità di allargare il numero degli uomini "virtuosi", fornendo loro quell'educazione che in passato era appannaggio di una ristretta élite. All'interno di questo clima culturale, avranno un ruolo di rilievo i Sofisti, professori itineranti in cerca di clienti, intellettuali che danno un contributo fondamentale all'elaborazione delle nuove idee e dei valori di questo periodo, e sono maestri nell'arte di educare i giovani alla ricerca del successo individuale nella vita sociale.
I Sofisti elaborano un'attività educativa che si affranchi da una concezione ristretta e aristocratica e si apra a tutti gli uomini, perché, come pensa Protagora (486-411 a.c.), la virtù non è un privilegio dovuto alla nascita, ma è una caratteristica che si può coltivare e trasmettere. I Sofisti sostengono che la virtù è insegnabile e che le conoscenze sono trasmissibili attraverso l'educazione.
I Sofisti intendono soddisfare la crescente domanda di formazione di ceti dirigenti per il governo di una società complessa come quella ateniese, nella quale le sole abilità elementari del leggere e dello scrivere o del ricordare e citare i versi di Omero o di Esiodo non sono più sufficienti. È necessario dotarsi di conoscenze scientifiche, letterarie, artistiche e giuridico-politiche e, soprattutto, di una più elevata padronanza del linguaggio, in particolare delle tecniche del discorso, dell'abilità retorica di persuadere il prossimo (padroneggiando il discorso fino al punto da riuscire a sostenere opposte tesi su uno stesso argomento) e affermarsi come individui sia nelle assemblee che nella comunità. Con la Sofistica, alla base di una educazione superiore che richiede una cultura generale, non specialistica, viene posta una enciclopedia dei saperi di natura soprattutto letteraria e linguistica.
La paidéia socratica
La trasformazione politica e culturale avvenuta in Atene, che vede i Sofisti come protagonisti, produce una crisi dei valori etici tradizionali. Il disorientamento che ne deriva, sollecita la ricerca di un processo formativo del tutto nuovo, capace di consentire il superamento della crisi. La soluzione prospettata dai Sofisti, quella di un'etica del successo individuale e di una virtù insegnabile, è la soluzione giusta?
Secondo Socrate e Platone, il torto dei Sofisti è di non aver chiarito cosa sia per loro la virtù, e quali siano le finalità dell'educazione dell'uomo. Socrate (470/69-399 a.C.) non nega che la virtù sia insegnabile, ma si domanda prima di tutto cosa sia la virtù. Tutta la sua opera può essere intesa in senso educativo. Anche il modo in cui svolge la sua attività di dialogo e di confronto, nelle vie e nei centri della vita pubblica della città, riprende in modo nuovo la tradizione dell' adulto educatore dei giovani.
Egli dichiara di non essere un maestro, un "sophist6s", un sapientissimo, cioè il portatore di qualche "verità" da trasmettere, ma di voler essere solo la coscienza critica di Atene. E ritiene che la pòlis e i suoi cittadini debbano acquisire un alto livello di consapevolezza etica e di spirito critico. Nello stesso tempo, ritiene necessario che la pòlis cambi il suo éthos, identificandosi in nuovi valori, diversi da quelli tradizionali e da quelli - ancorati a un'etica della competizione e del successo - proposti dai Sofisti. Tali valori vanno ricercati attraverso una riflessione e un dialogo sempre aperti ed una vera e propria formazione morale e "cura dell'anima". Ma questa è possibile se l'uomo conosce se stesso, la sua anima. Socrate sollecita allora gli allievi a condurre da se stessi la ricerca sui valori e su di sé, gli uni con gli altri, poiché non c'è nessuno capace di farIo meglio di chi ne è l'oggetto.
Socrate esprime una forte critica contro l'uso spregiudicato che i Sofisti fanno della retorica e del potere "incantatore" della parola. Anch'egli è maestro di discorsi ma, a differenza dei Sofisti, non li considera un mezzo di persuasione, bensì uno strumento di dialogo e comunicazione fra persone intente a cercare - insieme - la verità sui valori morali da seguire. Per lui l'aretè non richiede solo il possesso di capacità di partecipazione alla vita politica, ma implica una ricerca sempre aperta sulla conoscenza del bene e del male, dunque sui principi cui orientare le proprie scelte nel corso dell'esistenza.
A tal fine il metodo educativo di Socrate si articola in due momenti essenziali, uno critico e negativo, l'altro positivo: l'ironia e la maieutica.
Con l'ironia chi interroga - Socrate stesso - si pone come colui che "non sa" e, perciò, chiede a coloro che credono di sapere quale sia la "verità" su una certa questione. Interrogando, egli smaschera quella presunzione di verità, dimostra che essa è solo frutto di un sapere superficiale e di un atteggiamento acritico e dogmatico, facendo sorgere nell'interlocutore dubbi e inquietudini tali da spingerlo alla ricerca. Non l'affermazione presuntuosa della propria competenza e del proprio sapere, ma il riconoscimento della propria ignoranza, il sapere di non sapere, costituisce il passaggio obbligato per ogni apprendimento della verità. Al momento dell'ironia segue quello della maieutica, un'arte simile a quella delle levatrici, che fa partorire "la verità" e opera sugli uomini e sulle "anime partorienti".
L'arte socratica non "trasmette" il sapere, ma si limita a comunicare, nel dialogo, lo stimolo per la ricerca, aiutando ciascuno a generare, cioè a far nascere da sé e in se stesso la verità. Dialogando, il filosofo colloca nell'anima del proprio interlocutore alcuni "semi" -la capacità di interrogarsi e di riflettere - che germoglieranno se il terreno è favorevole e se sarà sempre adeguatamente curato.
Ambiente educativo e educazione nella società giusta
Il progetto filosofico di Platone (428 ca.-348 ca. a.C.) ha una valenza - allo stesso tempo - speculativa e politico-educativa. Secondo Platone la filosofia è ricerca di ciò che ci fa vivere bene ed è insegnamento di vita. Filosofare è educare gli uomini a ben vivere e a ben pensare. Non è certo quello che fanno i Sofisti, che sono dei maestri di tecniche del discorso e non di verità. Con la persuasione retorica delle suggestioni e delle opinioni essi non producono una conoscenza vera.
Per Platone, invece, la comunicazione linguistica è psicagogia, "guida d'anime" verso la filosofia. Il fine è la verità e la retorica è solamente uno strumento al servizio di questa. Solo l'arte della dialettica è capace di educare, rendendo migliori coloro ai quali si rivolge, poiché sa "piantare e seminare parole con scientifica consapevolezza".
La ricerca della verità è anche "passione" e "desiderio" della verità, quindi è eros. L'eros filosofico si presenta come un vero e proprio rito di iniziazione: l'amore è inteso da Platone come un demone che media tra dei e uomini e che consente agli individui il "salto" verso l'assoluto, verso la verità, verso il mondo delle Idee. Il maestro deve condurre l'allievo a contemplare le essenze ideali: la bellezza di un corpo o di un'anima è il tramite per giungere, proprio attraverso l'educazione, a contemplare la bellezza del mondo delle Idee. Eros arriva così a coincidere con la vera conoscenza: solo nell'anima del filosofo, tuttavia, tale identificazione sarà totale.
Platone, in coerenza con la tradizione greca, inserisce il processo educativo all'interno della comunità in cui vive l'individuo; ma ai suoi tempi la città di Atene stava vivendo una grave crisi politica che, secondo Platone, era anche crisi morale. Si tratta della crisi drammatica - ideale e culturale, prima ancora che politica e sociale - che ha colpito Atene nei decenni successivi alla sconfitta nella guerra del Peloponneso del 404 a. C.
La rigenerazione della pòlis passa allora per una riforma del processo educativo, che abbia come stella polare la scienza del bene e che ponga uno stretto nesso tra virtù e sapere, nella convinzione che il nucleo del processo educativo riguardi l'educazione dell'anima dell'uomo, sia cioè interiore.
Secondo Platone la vita della pòlis è divenuta, di fatto, diseducativa, perché tali sono l'organizzazione della società e dello Stato, i contenuti delle arti, le esperienze che si svolgono nella vita quotidiana. Egli allora vuole contrapporre uno Stato che educhi i suoi membri, a uno Stato che diseduca: senza un'educazione adeguata, ogni sistema sociale e statuale è destinato a entrare in crisi e ogni individuo - anche quello dotato delle migliori attitudini - rischia di diventare "cattivo".
Nel suo stato ideale, Platone prevede, anzitutto, la realizzazione di un ambiente educativo appropriato, ossia di una società "educante", poiché l'educazione è "in ogni dove", è nelle attività fondamentali della pòlis. L’attività educativa è un compito che spetta allo Stato, poiché da essa dipende che i cittadini siano in grado di assumere e di svolgere i compiti propri a ciascuno. Mentre la società giusta educa i suoi cittadini in modo informale, con il suo assetto ordinato e razionale, l'impegno di Platone è concentrato sull' educazione della classe dirigente, convinto che per la 'salute' dello Stato chi governa debba possedere le competenze necessarie e che, d'altra parte, lo Stato si salverà solo se i governanti saranno filosofi o i filosofi governanti. Per questo i futuri difensori e governanti sono sottoposti a un iter formativo lungo e impegnativo. Solo i migliori studieranno la filosofia e sapranno avvalersene nel governo dello Stato.
Poiché consente di attingere all'Idea suprema del bene e della giustizia, la filosofia infatti possiede un'importanza determinante per il governo, inducendo il governante a conformare il più possibile la vita dello Stato e degli individui al modello ideale di "società giusta". Anche le donne possono essere governanti e, quindi, seguire l'iter formativo proprio di chi è chiamato a governare.
Poiché lo Stato sarebbe perfetto se a comandare fossero solo i "migliori" (i filosofi), si richiede un impegno prioritario nella selezione di costoro: "tutti i cittadini", sottolinea Platone, "devono essere indirizzati ciascuno a quell'unica attività per cui hanno naturale disposizione, perché ciascun individuo, attendendo all'unica opera che gli è propria, non diventi molti, ma resti uno, e così tutto lo Stato sia uno e non molti". Una volta selezionati i membri dell'élite intellettuale destinata al governo, si tratterà di sottoporli a un rigoroso programma educativo: essi saranno gli unici a ricevere una completa educazione formale di alto livello.
A tale opera educativa contribuiscono, oltre alla filosofia, alla musica e alla ginnastica, l'aritmetica, la geometria e l'astronomia: e anche tale preminenza accordata alla cultura filosofico-scientifica segnala un distacco dell'educazione platonica da quella sofistica.
Vanno invece eliminate le suggestioni e le distorsioni della verità presentate dai poeti. Persino la poesia omerica e quella di Esiodo sono considerate diseducative, giacché raffigurano modelli negativi di condotta e potrebbero, quindi, generare cattive abitudini nei futuri custodi dello Stato.
Scholé e conoscenza teorica
Aristotele (383-322 a.C.) ha affrontato i problemi della formazione dell'uomo all'interno della Politica, poiché anche per lui, come per Platone, il fine dell'educazione è politico. L’ educazione svolge un compito essenziale per il funzionamento dello Stato, poiché contribuisce a conformare le giovani generazioni ai fondamenti sociali, culturali e politici della comunità in cui nascono e che un giorno contribuiranno a governare.
Non si tratta tuttavia, come in Platone, di educare i cittadini in funzione di un "modello" di Stato giusto. Per Aristotele l'educazione deve essere adattata al tipo di costituzione esistente: quindi deve essere democratica se la società è democratica, oligarchica se la società è oligarchica; egli esclude, però, che la tirannide consenta un'educazione vera e propria.
Per quel che concerne i fini dell'educazione, Aristotele esprime esigenze sostanzialmente coincidenti con quelle platoniche. Anche per lui lo Stato è una comunità di diversi: da una parte vi è chi produce, dall'altra chi vive agiatamente e chi vive secondo ragione. Questa distinzione sociale comporta una diversità nell'accesso all'educazione: l'educazione disinteressata riguarderà solo i cittadini liberi, mentre l'unica educazione professionale, non servile, sarà quella concernente l'arte bellica. Per il resto, agricoltori, artigiani e operai non avranno educazione, ma si limiteranno all'apprendimento delle nozioni necessarie alla loro attività.
Coloro che saranno chiamati a governare devono essere educati non al lavoro bensì all'ozio (scholé). Vivere nell'ozio significa svolgere un'attività intellettuale disinteressata, fondata sulle scienze teoretiche, che hanno il loro fine in se stesse.
Un nuovo primato dell'educazione retorico-letteraria
Nello stesso periodo, il retore Isocrate (436-338 a.C.) propone una strada diversa per uscire dalla crisi della pòlis. Anch'egli affida all'educazione il compito di preparare un'élite intellettuale in grado di costituirsi come nuova classe dirigente.
Tuttavia, a differenza di Platone, Isocrate ritiene che una riforma della vita intellettuale implichi un'affermazione netta della cultura retorico-letteraria su quella filosofico-scientifica. Egli giudica vana la pretesa platonica di poter giungere a una scienza esatta del giusto e dell'ingiusto e ritiene sbagliato, perché fonte di illusione, prospettare ai propri allievi il raggiungimento di una tale sapienza perfetta.
Come i maggiori Sofisti, Isocrate colloca a fondamento dell'insegnamento "l'arte del discorso", cioè la retorica, sottolineando così il carattere pratico-politico - e non teoretico degli obiettivi formativi che si pone.
Il modello educativo definito da Isocrate avrà successo, diffondendosi nei grandi Stati ellenistici e, poi, a Roma, laddove la formazione dell'oratore diverrà una componente essenziale nella preparazione del cittadino alla vita pubblica e in quella del funzionario, inserito in una "macchina" statale sempre più complessa.
L'educazione classica nell'epoca ellenistica e romana
L’educazione è al centro della civiltà ellenistica, nella quale soltanto essa "è divenuta veramente se stessa, ha raggiunto la sua forma classica, e insomma definitiva" (H.-I. Marrou). L’epilogo dell'età della pòlis in Grecia, segna l'accantonamento di un ideale educativo destinato alla formazione di un uomo politico, del cittadino. Dopo le conquiste di Alessandro Magno, la comunità politica si allarga fino a includere territori vasti, un impero, ma l'ideale educativo si particolarizza, dedicandosi alla formazione dell'individuo, della sua anima, della sua interiorità, proprio perché è venuto meno il rapporto diretto con la comunità.
La paidéia viene allora a rappresentare la cultura come perfezionamento dell'uomo. Lo scopo dell'esistenza perseguito dagli individui appartenenti alle classi dirigenti è il compimento di una personalità ricca e perfetta. Ogni uomo, dirà alcuni secoli dopo Plotino, deve imporsi come compito fondamentale quello di modellare la "propria statua", facendone l'opera di tutta una vita: e proprio questo è il senso dell'educazione, che è ora concepita come estesa a tutta l'esistenza e non più solo al periodo iniziale.
L’educazione antica, giunta a piena maturità, vede ora attenuarsi o indebolirsi alcuni suoi caratteri: la formazione fisica perde importanza rispetto alle componenti spirituali della cultura; la dimensione artistica e musicale arretra a favore di quella retorica e letteraria.
In quest'epoca l'educazione diviene pubblica - come avevano auspicato Platone e Aristotele - e l'emanazione di una legislazione scolastica da parte dell'autorità politica (soprattutto municipale) costituisce un fatto normale.
Nella prima età repubblicana l'educazione a Roma si basa sui costumi degli antenati e il compito dell'educatore consiste nel far conoscere questi costumi e la tradizione.
La politica di conquiste, la rapida espansione della repubblica e lo sviluppo della società romana suggeriscono ai ceti dirigenti di rivedere alcuni aspetti dell'antica tradizione culturale e educativa. Si aprono scuole greche, tenute da liberti (schiavi liberati), che ottengono un crescente successo e diventano il maggiore veicolo di diffusione della cultura ellenica a Roma: un fatto di importanza epocale, in quanto la cultura greca lascerà un'impronta indelebile sul costume, sugli stili di vita e sul modo di pensare di molte generazioni; essa passerà successivamente nell'Europa medievale e moderna, diventando, insieme ad aspetti specifici della cultura romana (ad esempio il diritto) e insieme al Cristianesimo, una componente essenziale della "civiltà occidentale".
L’educazione romana diviene perciò un adattamento di quella ellenistica all'ambiente latino. La tradizione educativa classica - cioè il modello greco della paidéia - si sviluppa a Roma nell'idea di humanitas - come "aspirazione verso l'uomo totale", "formazione d'un uomo completo" (H.-I. Marrou), in cui si sviluppino armonicamente "le potenze del corpo e dell' anima". Si tratta di una formazione centrata - essenzialmente - sulla cultura generale e non su quella specialistica, con una preminenza della preparazione retorico-letteraria rispetto a quella matematico-scientifica.
La Chiesa come società educante
Con la fine dell'impero romano e la diffusione del Cristianesimo, entrano in crisi anche le concezioni educative tradizionali. La "cristianizzazione" della società romana porta a un accantonamento dei modelli educativi ereditati dalla Grecia classica. All'educazione viene ora assegnato il compito totalmente nuovo di tendere a realizzare un ideale di perfezione, che è Dio stesso. Ma l'uomo non può con i suoi soli mezzi realizzare questo fine soprannaturale e ha bisogno della grazia. L’educazione quindi è un "viaggio" impegnativo e difficile, è ascesi e sforzo continuo di miglioramento etico e spirituale.
Il valore fondamentale dell'educazione cristiana non è, come per la cultura greca, la conoscenza, bensì la carità, l'amore. In tale situazione la Chiesa si pone come vera e propria società educante. "Nasce un nuovo modello di società ispirata e sorretta dai valori del Vangelo e che trova nella Chiesa il suo ideale e il suo strumento di attuazione. La Chiesa deve farsi il lievito di tutta quanta la società, indicando le i fini da realizzare e gli strumenti per raggiungerli" (Franco Cambi).
La Chiesa educherà i credenti con ogni mezzo e attività: con la predicazione del Vangelo, i sacramenti, la liturgia e la catechesi, con tutte le forme artistiche, dall' architettura alla pittura, dalla musica e dai canti al linguaggio delle immagini che popolano le pareti delle chiese, suscitando speranza e timore in chi le vede.
Inizialmente i contenuti dell' educazione cristiana riguardano le verità di fede e i precetti per la condotta del cristiano e sono impartiti - oltre che nella Chiesa e dalla Chiesa - anche in seno alla famiglia, che, d'ora in poi, sarà un luogo fondamentale dell'educazione cristiana, quello in cui si dovrà formare l'anima del fanciullo.
Il Maestro interiore e il progetto di una cultura cristiana
Grande importanza - anche nel campo dell'educazione - ha la linea suggerita da Agostino (354-430), che respinge la cultura pagana, caratterizzata secondo lui da formalismo, estetismo e erudizione, nonché dalla volontà di anteporre la vanità dell'eloquenza alla serietà della vita cristiana. Agostino privilegia il rapporto educativo tra maestro e allievo, eliminando ogni riferimento alla comunità politica e confinando il processo educativo nell'ambito della catechesi.
Preoccupazioni principale di una cultura cristiana devono essere i problemi veri e non le parole; attraverso la sola erudizione, invece, l'uomo non si rivolge a Dio, ma si avvilisce in conoscenze di natura inferiore. Solo il vero sapere, la scienza cristiana, avvicina a Dio.
L’educazione è - per Agostino - una questione interna alla filosofia, ne è una specificazione. La filosofia è dialogo interiore dell'anima e di Dio, il suo scopo è la conoscenza di Dio, cioè la sapienza. Finalità dell'educazione è concorrere alla formazione dell'uomo alla sapienza e alla virtù. Suo punto di partenza è il "conosci te stesso" socratico, ma la meta e il senso di questo viaggio sono diversi da quelli del filosofo greco. Difatti, se è nell'anima che abita la verità, la fonte di questa è al di là dell'anima: è Dio. È Dio a illuminare la mente e a permettere di cogliere le Idee divine, i modelli in base ai quali Dio stesso ha creato ogni cosa. Dunque, senza Dio non potremmo conoscere e l'intelletto umano sarebbe immerso nelle tenebre. Dio è il maestro interiore. Egli solo comunica verità. Nella comunicazione educativa non è il "maestro" umano che insegna veramente, ma è Cristo che "intus docet", insegna nell'interiorità dello scolaro, su cui, comunque, le parole dell'insegnante hanno il compito di stimolare e suscitare la ricerca della verità.
Scholae e Università
Nel periodo che va dal VII al X secolo, il grande merito della cultura cristiana è quello di aver salvato, almeno in parte, molti testi di autori classici greci e latini. Questi testi, tuttavia, sono letti e interpretati dalla luce delle verità di fede, spesso prescindendo dal loro autentico contenuto.
In ambito cristiano, sin dal V secolo, si stabilisce altresì una sistemazione delle discipline di insegnamento che influenzerà gran parte dei percorsi formativi del Medioevo: le sette arti liberali (il Settenario ) si dividono nel Trivio (grammatica, retorica e dialettica) e nel Quadrivio (aritmetica, musica, geometria e astronomia).
Nell'VIII secolo, il monaco irlandese Alcuino (735-804), sotto il regno di Carlo Magno, istituisce la Schola Palatina, un centro culturale e formativo in cui operano alcuni fra i maggiori intellettuali dell'epoca, con l'ambizione dichiarata di fare di Aquisgrana, la capitale del Sacro Romano Impero, una "Nuova Atene". Alcuino prescrive di insegnare le arti liberali come propedeutiche agli studi teologici. Questi ultimi si basano sulle Sacre Scritture, su atti e decreti concili ari e sulle principali opere dei Padri della Chiesa, in primo luogo di Agostino.
L’educazione medievale sarà completamente permeata dalla religiosità cristiana. La stessa filosofia dell'Occidente - nell'età del Medioevo - sarà una Scolastica, vale a dire una filosofia delle scuole, che sono scuole in cui si dibattono problemi teologici. In esse, lo scopo dello studio e della meditazione di monaci, chierici e dottori, è di cercare di comprendere il senso ultimo della verità rivelata, per quanto ciò sia possibile all'uomo.
Il metodo d'insegnamento nelle scuole si lega all'idea che la verità sia già data attraverso la rivelazione. L’auctoritas religiosa e culturale della tradizione ecclesiastica è indiscussa: è quella delle Sacre Scritture, dei decreti della Chiesa e delle interpretazioni che delle Scritture hanno dato i Padri della Chiesa. La lezione è un legere, un leggere a voce alta le opere che permettono di accedere alla Verità, al significato nascosto nelle Scritture, è un audire, un ascoltare e meditare, memorizzare e acquisire quei contenuti di verità.
Più tardi, dopo l'XI secolo, in Occidente avviene lo sviluppo delle Scuole cattedrali o "episcopali", situate nelle sedi vescovili delle città. Vi si forma un clero più colto, più vicino alle esperienze e alle sensibilità maturate fra i nuovi ceti produttivi urbani.
Del tutto nuovo è il costituirsi di scuole di liberi maestri (la più famosa delle quali è quella aperta da Abelardo, 1079-1142), da cui si svilupperanno successivamente le Università e nelle quali gli insegnamenti vengono impartiti sia a chierici che a laici.
Per seguire le lezioni di un dotto famoso confluiscono in città numerosi chierici. Questi clerici vagantes o goliardi sono veri e propri nomadi della cultura, tipico prodotto di un'epoca di mobilità geografica e sociale. È dalla loro associazione in un'universitas, ovvero in una corporazione simile a quelle delle arti e mestieri e che si rivolge a tutti gli studenti, che si formeranno le Università, sempre, comunque, attraverso una licentia docendi concessa dalla Chiesa.
Le università forniscono una preparazione culturale capace di garantire l'esercizio di professioni (quella medica o di giurista) o un'ascesa ai gradi più elevati delle carriere ecclesiastica e amministrativa. Le discipline portanti sono le arti liberali, la medicina, la giurisprudenza e la teologia. Il raggio di azione e di influenza delle università si estende a tutta la cristianità. Le due più importanti sorgono a Parigi e a Oxford.
L’intellettuale diventa adesso magister, professor, un erudito, un dotto. È un lavoratore specializzato, un artigiano del sapere, il cui mestiere è di studiare, pensare e trasmettere il proprio sapere mediante l'insegnamento.
Il cammino intellettuale che lo studente è invitato a percorrere riflette il metodo filosofico della Scolastica. La lectio delle scuole monastiche diviene commento di un testo, in particolare delle Sacre Scritture e dei Libri Sententiarum di Pietro Lombardo (1095 ca.-1160) (approvati ufficialmente dalla Chiesa e costituiti da una specie di "prontuario", di raccolta di schemi di discussione e di risposte su problemi di alto valore speculativo) e, nelle facoltà delle Arti, anche commento di un'opera di Aristotele. La lectio viene ora integrata con il metodo della quaestio e della disputatio: prima domande e risposte, poi la disputa, consistente nell'esaminare, su ogni problema, tesi contrapposte e argomenti pro o contro una data tesi. Dal commento nasce la discussione: al centro viene posta la ricerca della verità. Il maestro non è solo un esegeta dei testi, ma un pensatore che cerca e trova soluzioni. Egli affronta, dunque, delle Quaestiones, cioè delle discussioni su un tema stabilito e risponde a tutte le obiezioni emerse durante la discussione
Fra i grandi maestri e filosofi della Scolastica che esprimono considerazioni sull' educazione emergono Bonaventura e Tommaso d'Aquino.
Bonaventura da Bagnoregio (1217/1221-1274); francescano, nell'Itinerarium mentis in Deum, descrive l'ascesa mistica dell'anima verso Dio; si tratta di un processo dotato anche di un senso pedagogico, poiché in esso l'uomo realizza la propria perfezione. Anche per Bonaventura, come per Agostino, il vero maestro è Cristo, che è "fonte di ogni retta conoscenza", "via, verità, vita", "luce della divina sapienza" che "rivela le cose profonde e nascoste".
Tommaso d'Aquino (1221/1227-1274), il maggior esponente dell'Aristotelismo cristiano, riconosce all'educazione una relativa autonomia. Per Tommaso ogni uomo è educabile, in quanto essere razionale e sociale; compito dell'educazione è quello di completare l'opera della generazione, conducendo il giovane fino allo stato perfetto dell'uomo, ossia alla virtù. Il docente produce la scienza nel discente, determinando il passaggio dalla potenza all'atto, guidandolo gradualmente ad acquisire la conoscenza di ciò che ignorava. A differenza di Agostino, quindi, il maestro umano ha una funzione positiva importante, essenziale nel processo educativo.
La nascita della pedagogia moderna
Nell'età moderna si possono individuare due approcci alla pedagogia:
uno epistemologico, centrato sul sapere, che si pone il problema di come trasmettere al fanciullo la conoscenza, di cui il massimo rappresentante è Comenio;
l'altro antropologico, che parte dal fanciullo e si pone il problema di fargli acquisire il gusto del sapere e di renderlo felice, di cui massimo rappresentate è Jean-Jacques Rousseau.
Durante l'età moderna, i paradigmi pedagogici subiranno cambiamenti rilevanti. Se il Rinascimento contrappone la cultura classica a quella medievale, la Riforma protestante e, poi, la stessa riforma cattolica, da un lato suggeriscono la necessità del carattere religioso dell'educazione e, dall'altro, tendono a promuoverne la diffusione in tutti gli strati della popolazione e non solo fra le élites.
Inoltre nelle proposte educative si affermano nuovi contenuti e finalità indotti dalla rivoluzione scientifica, dallo sviluppo tecnico e sociale e dal nuovo rilievo che al lavoro viene dato nei paesi europei più avanzati (ma anche dal Calvinismo). A partire dal Seicento viene poi messa in discussione la stessa pedagogia umanistica, con il primato che aveva accordato all'educazione retorico-letteraria, per sottolineare invece la centralità di una formazione scientifica.
Grazie alla riflessione di Comenio, emergerà altresì una considerazione nuova per il metodo dell'insegnare e dell'apprendere; infine, la nascita delle aspirazioni a costruire sistemi politici nuovi e società di uomini liberi ed eguali, favorirà il rinnovamento dell'educazione. E comincia a mostrarsi l'esigenza di un'educazione alla libertà, che si accompagna, particolarmente in Rousseau, a una nuova considerazione per le caratteristiche e le esigenze specifiche del bambino, senza più vedere in lui solo un uomo "in miniatura".
Gli antichi come paradigma educativo
L’età dell'Umanesimo e del Rinascimento segna un nuovo corso anche nel campo dell'educazione. Fioriscono le grandi scuole umanistiche: quelle di Guarino Veronese (1374-1460; la Scuola Convitto di Ferrara) e di Vittorino da Feltre (1373/1378-1446; la Casa Giocosa di Mantova). Sono scuole caratterizzate da un'attenzione nuova per l'indole e la natura degli allievi. Le attività vi si svolgono alternando la lettura diretta dei testi classici (anche in lingua greca) e lo studio delle arti liberali, a esercizi fisici e, soprattutto, ad attività all'aria aperta, a giochi e svaghi. In queste scuole si afferma l'ideale educativo umanistico, volto a realizzare la formazione dell'uomo nella sua completezza, ossia lo sviluppo armonico di tutte le capacità - intellettive, etiche, estetiche e fisiche - dell'individuo. In queste scuole si prepara il giovane proveniente dalle classi nobili al "mestiere di uomo" senza condizionarlo e addestrarlo a un lavoro. Si ritiene che questo uomo possa essere formato facendo ricorso alla cultura classica, di cui si ribadisce il primato in quanto cultura 'disinteressata'. Agli occhi degli umanisti tale cultura, da loro riscoperta e restituita al suo autentico significato, viene a costituire come un paradigma, un quadro ideale di riferimento.
Tuttavia, in questo periodo la proposta educativa appare socialmente sbilanciata, perché continua a orientare verso i lavori manuali quanti provengono dalle classi popolari, destinandoli a un ruolo sociale subordinato e riproducendo le gerarchie sociali esistenti. La pedagogia umanistica, dunque, rivoluziona tecniche e metodi educativi, ma non l'organizzazione sociale delle comunità.
L’educazione attraverso il gran libro della natura
Il concetto di "natura" è una delle parole-chiave della riflessione educativa moderna. La natura rappresenta la norma, la regola da seguire, ma tra il Cinquecento e il Settecento a questo concetto vengono attribuiti significati diversi.
Nella cultura rinascimentale l'appello alla natura costituisce il rimedio contro l'artificiosità e la convenzionalità dei metodi scolastici vigenti, in particolare quelli espressi dalla pedagogia e dalla scuola medievali, i cui contenuti e metodi gravano sulla natura di chi deve essere educato e la distorcono, penalizzando, in particolare, diritti e bisogni del fanciullo.
Piena espressione di questo nuovo orientamento educativo è l'opera di François Rabelais (1494-1553), che nel romanzo Gargantua e Pantagruel ripudia l'educazione medievale, con il suo studio mnemonico e astratto, che fa trascurare le cose che più contano nella vita. La nuova educazione vuole riportare l'allievo a una condizione "naturale", libera. Al centro è la cura del corpo e della mente, l'alternanza degli studi con libere attività e giochi. Gargantua conosce gli autori antichi e ne discute, ma studia e osserva il "gran libro della natura" e visita le botteghe artigiane, apprendendovi le cognizioni essenziali delle varie attività produttive.
Il filosofo Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) critica una cultura che sia pura erudizione, puro esercizio di memoria, e stigmatizza l'abuso dei libri; egli si dichiara a favore di un metodo educativo che segua lo sviluppo del bambino e lo faccia crescere con l'uso della sua facoltà di giudizio, il confronto con gli altri ed anche con lo studio di alcune grandi opere e figure del passato.
Nell'Utopia di Tommaso Moro (1478-1535) il lavoro è un'attività e un valore fondamentale. A nessuno viene consentito l'ozio, ma ciascuno ha molto tempo libero, da impiegare per la propria educazione, seguendo le sue inclinazioni. Si affaccia così l'idea che l'educazione non sia più riservata a pochi individui, ma che ciascuno possa venir istruito nelle lettere, nelle scienze e nella conoscenza delle tecniche fondamentali.
La Città del Sole di Tommaso Campanella (1568-1639) accentua tale critica dell'educazione tradizionale e afferma l'idea che l'apprendimento deve essere portato a termine "senza fastidio, giocando", apprendendo le nozioni fondamentali e la lingua attraverso la loro raffigurazione sulle mura della città, poi studiando tutte le scienze e applicandosi nelle attività lavorative, poiché (a differenza del senso comune dell'epoca) è considerato "nobile" più degli altri chi impara il maggior numero di attività produttive e meglio le realizza.
Riforme religiose e rinnovamento educativo
Ancor più profonde sono le conseguenze prodotte dalla Riforma protestante sul piano educativo, a cominciare dallo sviluppo dei processi di alfabetizzazione, favoriti dal principio luterano di promuovere il libero esame delle Scritture e, quindi, il rapporto diretto fra il fedele e il sacro testo. Questi orientamenti spingono il mondo e la cultura protestanti verso progetti educativi che coinvolgano masse sempre più ampie di fedeli.
Martin Lutero (1483-1546) sottolinea l'importanza e la centralità di tale compito e si lamenta della sottovalutazione dell' educazione da parte dei tedeschi. Egli invita a investire sull'istruzione dei bambini poveri e pensa all'istituzione di scuole pubbliche, a un'istruzione elementare obbligatoria, in cui vi sia posto anche per il lavoro e si garantisca dunque l'apprendimento di un mestiere.
La traduzione in tedesco delle Sacre Scritture, ad opera dello stesso Lutero, va nella direzione di un accesso più ampio dei fedeli all'acquisizione almeno della capacità di leggere e implica anche una convergenza con l'impostazione umanistica, che riconosce l'importanza delle lingue: "non potremo conservarci il Vangelo senza le lingue" - scrive Lutero -, esse "sono il fodero che custodisce la lama dello spirito".
Riprende e amplia questo tema Filippo Melantone (1497-1560), il più "urnanista" dei Protestanti, autore di una riforma degli studi superiori per la quale sarà chiamato praeceptor Germaniae. Egli mira a una sintesi di formazione religiosa e tradizione umanistica.
Ma l'impegno educativo delle varie chiese protestanti riuscirà solo in parte, almeno fino al tardo Settecento, a conseguire i suoi obiettivi, perché l'analfabetismo rimarrà diffuso, soprattutto nelle campagne.
Anche la Riforma cattolica esprime interesse e preoccupazione per le questioni educative e i processi d'istruzione. In seguito al Concilio di Trento (1545-1563) si attivano alcuni fondamentali processi di autoriforma della Chiesa, che si basano innanzitutto sul rinnovamento della formazione del clero nei seminari. Elevando il grado di preparazione culturale del basso clero e avvicinandola, così, a quella dell'alto clero, la Chiesa si muove in una direzione diversa da quella della cultura rinascimentale, che, con tutta la sua straordinaria ricchezza, restava pur sempre una cultura di élite.
Nascono inoltre nuovi ordini religiosi che, come i Gesuiti, si dedicano alla formazione dei ceti dirigenti, ma anche ordini, come quello degli Oratoriani (fondato da S. Filippo Neri), che mira all'educazione delle popolazioni povere. Si tratta però pur sempre di iniziative che, anche in campo cattolico, permettono di raggiungere solo una minoranza della popolazione.
Il modello pedagogico seguito dal mondo cattolico cerca di conciliare la formazione religiosa e dottrinale con una formazione culturale di tipo umanistico. La Ratio atque institutio studiorum (1599) dei Gesuiti prevede una scuola di grado inferiore di tipo letterario, a impianto grammaticale e retorico, e una superiore di tipo filosofico, che, accanto a logica, etica e metafisica, prescrive anche l'insegnamento della matematica, della fisiologia e della psicologia. La Ratio ha costituito per molto tempo un modello di organizzazione degli studi, soprattutto nell'indirizzo liceale classico.
La ragione e l'esperienza nella nuova educazione
Nel Seicento, con l'affermarsi della Rivoluzione scientifica, maturano nuove idee e istanze sul piano educativo, che inducono a mettere progressivamente in discussione la pedagogia umanistica. Francesco Bacone (1561-1626) pone tra i fattori di distorsione della conoscenza anche quelli dovuti a un'educazione - sia formale sia informaIe - che contribuisce a confondere il pensiero e ad allontanarlo dalla realtà. Egli insiste, anche in una prospettiva educativa, sulla "lezione" dell'esperienza e, soprattutto, sull'efficacia pratica della scienza, dunque sulla necessità che la stessa educazione sappia legare strettamente apprendimenti scientifici e apprendimenti tecnici.
Ma è soprattutto la sfida di Cartesio (1596-1650) alla cultura e all'educazione del suo tempo a presentarsi come radicale. Cartesio critica il modello educativo umanistico per la preminenza che accorda alle lettere e alla storia, perché è imbevuto di formalismo retorico e perché poco attento alle esigenze dell'indagine razionale propria della scienza. Cartesio ritiene inoltre che, se le strutture portanti dell' edificio della vecchia cultura non sono più affidabili e solide, è inutile ogni intervento di restauro, ma è necessario abbattere il vecchio edificio e costruirne uno nuovo dalle fondamenta. Solo la ragione, che è uguale per natura in tutti gli uomini, costituisce la nuova autorità per il sapere. Essa va però esercitata utilizzando un metodo adatto a ben condurla, ovvero un'educazione all'altezza dei nuovi tempi: essa, infatti, giacché plasma la mente, rende diverso lo sviluppo delle persone che, pur dotate della stessa intelligenza, siano educate in Germania o in Francia, oppure fra i Cinesi o i cannibali.
La tesi cartesiana dell'importanza dell'intervento educativo sullo sviluppo dell'intelligenza influisce anche sull'educazione religiosa impartita dai seguaci di Cornelio Giansenio (1585-1638) nell'abbazia di Port-Royal. Per difendere l'innocenza dei bambini dalle tentazioni del male e del peccato è necessaria una continua vigilanza da parte degli educatori e, soprattutto, si deve insegnare al bambino a ragionare, a "ben pensare" (anche mediante un accorto uso della logica), a ben condurre la propria ragione in ogni campo, nel comportamento quotidiano come nell'indagine scientifica.
John Locke (1632-1704) allontana ulteriormente l'ideale educativo umanistico, assegnando all'esperienza un ruolo rilevante nella formazione dell'uomo. La sua è un'educazione alla ragionevolezza, alla libertà del pensiero: il bambino è un uomo in fieri, in cui vi è certamente la ragione ma intesa come capacità da formare e sviluppare con l'esperienza e l'esercizio. Nei suoi Pensieri sull'educazione, Locke traccia soprattutto un modello di formazione del gentleman, chiamato a dirigere uffici pubblici o a gestire gli affari. Le attitudini per svolgere questi compiti devono essere acquisite attraverso l'esercizio. Ma il gentleman deve essere educato anche a governare se stesso, a realizzare in sé una personalità libera. Un'educazione che sviluppi buone disposizioni è dunque più importante dell'istruzione, dell'apprendimento di nozioni. Essenziali, a tal fine, sono anche il lavoro (dalla costruzione di giocattoli fino all'apprendimento di un mestiere), l'educazione fisica, per avere un corpo robusto, e un'adeguata formazione morale e civile.
Diversa è l'opinione di Giambattista Vico (1668-1744). Egli, infatti, ripropone nell'educazione il modello umanistico-letterario e guarda alla lezione della storia, che egli considera come la vera scienza, l'unica che l'uomo può realmente conoscere, poiché è egli stesso a crearIa. E poiché la mente di ogni uomo - nel suo sviluppo - tende a ripercorre il passaggio storico dell'umanità dall'età della barbarie a quella della civiltà, Vico ne deduce che la natura del bambino non è identica a quella dell'adulto, come sosteneva Locke, ma diversa: egli, infatti, è tutto senso e immaginazione e l'educazione, invece di proporgli delle verità astratte, deve adeguarsi a questa sua natura ed al ritmo di sviluppo che ne consegue, dal senso alla fantasia e alla ragione.
Insegnare tutto a tutti
È comunque soprattutto all'opera del boemo Comenio (nome italianizzato di Jan Amos Komensky 1592-1670) che si deve, in larga misura, la nascita della moderna pedagogia. Uomo di scuola e di Chiesa, egli vive e opera nel periodo drammatico della Guerra dei Trent'Anni (1618-1648) ed è convinto che - alla fine di questa guerra - si debba porre mano a una riforma generale dell'umanità, nella quale siano coinvolti i tre aspetti fondamentali della vita umana: l'educazione, la politica e la religione. Muovendo da un'ispirazione di carattere metafisico-religioso, Comenio ritiene che l'educazione debba "seguire la natura": non certo la natura corrotta dal peccato originale, ma il "sistema spirituale originale" che apparteneva all'uomo al momento della creazione - come la sua vera essenza - e al quale egli deve essere restituito. L’educazione mira proprio al ritorno a quella natura originaria: solo così l'uomo potrà sviluppare i "semi" che sono in lui, vivere pienamente la sua umanità in Terra e guadagnare la propria salvezza.
A Comenio si deve una concezione che oggi potremmo definire di educazione permanente, ossia una formazione che accompagni tutta la vita dell'uomo, dall'utero materno fino alla morte. "Tutta la vita è scuola", egli afferma. Il processo educativo passa, perciò, attraverso le varie età della vita.
Egli è inoltre convinto che l'educazione riguardi omnes, omnia, omnino: riguardi cioè tutti gli uomini e le donne (perché ciascuno possa sviluppare i "semi" che ha in sé), investa tutto il sapere e sia, infine, completa, dovendo formare l'uomo secondo l'ideale di una pansofia, muovendo dalla conoscenza del mondo visibile e della potenza mentale dell'uomo per giungere fino alla cognizione di Dio.
Nel programma educativo di Comenio, fondato su una pedagogia delle cose, non delle parole (res, non verba), ha notevole rilevanza l'artificium docendi, in altre parole un insieme di criteri e metodi da adottare nell'insegnamento: viene alla luce in tal modo la didattica, nella quale gioca un ruolo di primo piano il metodo, che deve per prima cosa tener conto delle caratteristiche dell'alunno, della sua età, ed essere "a misura dell'allievo".
Per riassumere, i principi essenziali della concezione pedagogica di Comenio sono:
non opprimere con un numero eccessivo di nozioni da imparare;
graduare i contenuti dell'insegnamento e la loro difficoltà secondo l'età degli allievi;
impostare la didattica sull'interesse, sul gioco e sull'insegnare dilettando;
andare dal facile al difficile, dal noto all'ignoto, dal concreto all'astratto;
privilegiare l'insegnamento collettivo rispetto a quello individuale.
Uno spazio fondamentale viene inoltre assegnato all'insegnamento linguistico, basato sulla connessione tra parole e cose, ma anche alla matematica e alle scienze naturali.
L’llluminismo ha influito sull'educazione, promuovendo idee nuove, o comunque caratterizzate da una critica radicale verso la tradizione educativa. L’Illuminismo propone l'ideale di una formazione estesa a tutti gli uomini, riprendendo la posizione di Comenio, anche se il modo con cui tale ideale è definito conosce oscillazioni e contraddizioni. Così, ad esempio, nella voce "educazione" dell'Enciclopedia si continua ad auspicare un'istruzione differenziata a seconda delle diverse condizioni sociali: una per i figli dei potenti e un'altra per i figli dei magistrati, un'altra ancora per i fanciulli delle campagne. Ma la stessa Enciclopedia presenta una innovazione rivoluzionaria, destinata a incidere nel campo della formazione: le arti meccaniche vengono accolte a pieno titolo nell'area del sapere e della cultura. Si prefigura così una stretta connessione tra cultura e lavoro, che è uno dei temi sui quali ancora oggi riflette la pedagogia.
Per molti illuministi la condotta umana è il prodotto di condizionamenti ambientali e può essere cambiata anche mediante l'educazione. Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), in particolare, sostiene che le disuguaglianze di spirito degli uomini sono esclusivamente il frutto della loro diversa educazione e che tali differenze potranno scomparire solo rinnovando e uniformando la loro educazione. Un altro autore, Condorcet (1743-1794), vede un futuro i illimitato perfezionamento per l'umanità e ritiene che anche l'istruzione debba contribuire all'eliminazione delle forme più gravi di ineguaglianza tra gli uomini. Inoltre sostiene la necessità che l'istruzione sia ispirata a posizioni laiche, non insegni altro che la verità ed eviti l'insegnamento di ogni culto religioso.
La "scoperta" del fanciullo
Sarà soprattutto il pensiero di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) a lasciare l'impronta più forte nella storia della pedagogia, influenzando la riflessione sull'educazione dell'Ottocento e del Novecento. Il suo è un progetto di radicale rinnovamento dell'uomo e della società a livello sia etico-politico che pedagogico. Quel rinnovamento deve, infatti, attuarsi nelle coscienze, ma anche realizzarsi attraverso la costituzione di una società di uomini eguali e liberi e un'educazione che formi individui capaci di crescere seguendo la loro natura, senza costrizioni che la di storcano e la deformino.
A differenza di quel che pensava Hobbes, Rousseau sostiene la bontà della natura umana originaria, e pensa che essa debba essere restaurata mediante l'attività educativa. Distanziandosi dal pensiero illumini sta, egli giudica negativamente il progresso scientifico e intellettuale, asserendo che esso serve solo a occultare la verità agli uomini e a perpetuare quello stato di servitù cui l'umanità è costretta. Rousseau pensa che sia mistificatorio far passare sotto il nome di "libertà" politica e civile un "progresso" che alla fine asservisce l'uomo.
Per liberare l'uomo, la via dell'educazione è un passaggio fondamentale. Nella sua opera più celebre, l'Emilio, Rousseau afferma che il percorso educativo deve ripercorrere il cammino che l'essere umano ha compiuto dalla società naturale a quella civile, ma sotto la guida di un educatore. Inoltre, Rousseau pensa che ogni età abbia la sua perfezione e che centrale nel sistema educativo debba essere l'attenzione posta al fanciullo, al quale non vanno imposti modelli educativi dell'adulto.
I metodi educativi più diffusi al tempo di Rousseau consideravano, infatti, il bambino come un adulto imperfetto, un uomo immaturo; per Rousseau, invece, il bambino è un essere in sé perfetto: non bisogna cercare "sempre l'uomo nel fanciullo", ma "pensare a ciò che egli è prima di essere uomo", perché "l'uomo e il bambino sono diversi". Il bambino ha "modi di vedere, di pensare, di sentire che gli sono propri" e che vanno conosciuti e rispettati, se non si vogliono produrre "frutti precoci che non saranno maturi né saporiti e che marciranno subito". Pertanto, occorre "lasciar maturare l'infanzia nei bambini", poiché la fretta di farli crescere e di bruciare le tappe li rovinerebbe. La pedagogia contemporanea non abbandonerà più questa premessa puerocentrica, riconoscendone l'atto di nascita nel filosofo ginevrino.
Rousseau propone un'educazione che, liberando il bambino da impacci e catene, lo faccia diventare felice seguendo la natura, perché la strada della natura è quella della felicità. Rousseau guarda alla natura umana nella sua essenzialità, come a un patrimonio di capacità che la società non valorizza e che, anzi, corrompe. L'armonico sviluppo di tali capacità dovrebbe, invece, costituire il fine essenziale di ogni società. Nell'Emilio, Rousseau descrive l'educazione di un fanciullo sviluppata con metodi tali da permettergli di conservare e accrescere le sue capacità e le sue tendenze spontanee, opponendosi alla pratica pedagogica tradizionale, che tendeva invece a soffocarle e a deviarle, con impacci e vincoli che impedivano il libero di spiegarsi delle potenzialità degli individui.
Emilio, per essere educato in modo naturale, viene allontanato dalla società e dai suoi influssi negativi e portato in campagna, dove è più continuo il rapporto con l'ambiente naturale. L'educazione è "negativa", in quanto vuole favorire lo sviluppo spontaneo del fanciullo, senza anticiparne precocemente i tempi (età del senso, dell'utilità e della ragione), ma rispettandone rigorosamente l'ordine di svolgimento. L'educazione negativa non forza tale sviluppo, ma non è comunque "inattiva", poiché essa prepara il fanciullo alle prove della vita attraverso una forma di "libertà ben guidata", cioè con un attento controllo da parte dell'educatore, evitando non solo le interferenze dell'ambiente sociale, ma anche possibili involuzioni e cadute dello sviluppo.
L'educatore deve innanzitutto conoscere il ragazzo, tenendo conto che i caratteri generali dell'umanità si manifestano in modo differente nelle tendenze e attitudini di ciascuno, perciò richiedono interventi diversi, a seconda dell'età e delle differenze individuali. È necessario inoltre evitare che l'apprendimento sia basato su una quantità eccessiva di nozioni e che lo sviluppo perda di spontaneità, riducendosi ad abitudine, a comportamenti automatici e passivi. Conta invece la qualità di ciò che si fa apprendere e la capacità di attivare motivazioni profonde, sollecitare energie nuove, ampliare gli interessi, esercitare e irrobustire le capacità individuali.
Nel 1796 un caso di cronaca sembra dare un corpo e un volto al personaggio inventato da Rousseau; infatti, nei boschi della regione francese dell'Aveyron viene trovato un ragazzo di circa dieci anni cresciuto da solo a contatto con la natura. Il bambino viene affidato alle cure di un medico che cercherà di educarlo alla civiltà e lascerà una dettagliata relazione del suo operato. Il sostanziale fallimento dell'educazione di Victor distruggeva l'idea di un mitico stato di natura confermando che l'uomo è tale in quanto cultura, storia, socializzazione. Nel 1969 François Truffaut gira un film, intitolato Il ragazzo selvaggio basandosi con grande fedeltà sulle memorie del dottor Itard; la pellicola suscitò discussioni nel mondo intellettuale francese per il suo significato allegorico, problematico. In particolare, lo psicologo sociale Remi Tajfel, nel suo articolo Esperimenti nel vuoto (1972) così scriveva circa il rapporto fra sviluppo individuale e contesto sociale: «in circostanze normali, il "sociale" non è la trasformazione di qualcosa che esiste prima della sua emergenza; esso interagisce fin dall'inizio con i processi che ne definiscono l'ambito».
L’educazione di Victor è dunque a suo parere un caso più unico che raro, e non deve essere assunta come un modello esemplare.
L'antieducazione: l'ambiguità della parola
Rousseau aveva messo ampiamente in guardia contro gli errori della civiltà nell'educazione; in particolare aveva sottolineato il pericolo insito nel parlare di vizio e virtù, di bene e male prima che l'essere umano fosse in grado di comprenderne in maniera critica e autonoma il significato. Era quindi possibile commettere gravi danni, irreparabili, in nome della ragione: la ragione, come un mostro, può distruggere se stessa . Questo mettono in luce, ciascuno da un punto di vista diverso, alcuni autori del ‘700. Tutti hanno una caratteristica comune: sottolineano come la parola sia importantissima per la definizione, l'interpretazione ma anche la falsificazione della realtà nel-la quale gli individui ancora in formazione sono gettati. La parola come strumento di persuasione di una realtà morale e culturale può diventare, come nel caso di Parini strumento per l'affermazione di tesi moralmente pericolose, destabilizzanti; ma insieme, con la sua carica ironica, è strumento di critica e di verità: il precettore è in realtà voce del poeta e della sua critica al ceto nobiliare. Troviamo la stessa doppiezza retorica e morale in L’educazione della marchesa di Merteuil di Laclos; la differenza però, non irrilevante, sta nel fatto che colei che doveva essere vittima di un'educazione mistificante e oppressiva trova nella parola come strumento di indagine, di persuasione e di falsità il mezzo per liberarsi e per dominare gli altri.
La cultura settecentesca non si esaurisce nella dimensione pragmatica della riflessione sulla vita dell'uomo in società, ma è animata anche da una forte tensione utopica e progettuale, dalla volontà cioè di pensare a spazi diversi da quelli esistenti nei quali l'uomo potrebbe essere più felice, soprattutto più in armonia con la natura. La natura organizzata dalla ragione rimane infatti il punto di riferimento principale della cultura illuminista, nonché, come abbiamo già visto, una delle eredità più importanti trasmesse alle generazioni successive. Nel Barone rampante di Calvino la rappresentazione allegorica della società e della cultura settecentesca giustifica le semplificazioni, i paradossi della trama, e Cosimo incarna la figura del rivoluzionario che mai cederà a compromessi. La scelta estrema di Cosimo di vivere sugli alberi è la deformazione dell'aspirazione dell'uomo settecentesco a razionalizzare in maniera armoniosa lo spazio naturale, visto talvolta come allegoria della passione, dell'irrazionale.
Educare all'autonomia
La concezione educativa di Immanuel Kant (1724-1804) si confronta costantemente con quella di Rousseau ed è presente sia in uno scritto (le Lezioni di pedagogia), sia, implicitamente, in alcuni aspetti fondamentali della sua riflessione filosofica, in particolare di quella morale.
Kant condivide la convinzione di Rousseau sulla bontà della natura umana, ma distingue, nell'uomo, la natura animale e la natura umana, intesa come razionalità. Compito dell'educazione è condurre l'uomo dall'animalità alla razionalità, formando individui in grado sia di pensare sia di agire sulla base di una volontà informata a criteri universali. Kant sottolinea, pertanto, la necessità della disciplina per abituare per tempo l'allievo "a sottomettersi ai precetti della ragione", ovvero "a sopportare una limitazione alla sua libertà e, in pari tempo, a far buon uso di questa".
Si tratta di un processo da perseguire indefinitamente, nel quale si affermi la piena autonomia dell'individuo, di compiere delle scelte assumendosene la responsabilità e in cui maturi la sua capacità di "pensare", di apprendere e - per quanto possibile - di imparare da sé. L’educazione deve essere orientata verso chiare finalità di progresso morale e civile dell'umanità: "i fanciulli non devono essere educati conformemente allo stato presente della specie umana, ma per uno stato migliore possibile nell'avvenire".
La pedagogia dell'Ottocento è influenzata, sul piano dell'educazione e delle teorie dell'educazione, dai grandi processi - politici ed economico-sociali - avviatisi negli ultimi decenni del Settecento.
Le due Rivoluzioni politiche, americana e francese, hanno costituito un momento di svolta storica, politica, sociale e pedagogica, poiché si sono sforzate di tradurre in realtà le due grandi aspirazioni dei filosofi e dei riformatori dell’Illuminismo: estendere e, al limite, universalizzare l'istruzione e tradurre anche sul piano educativo le esigenze di riorganizzazione del sapere che si erano espresse con l'Enciclopedia. In particolare la Rivoluzione francese aveva posto all'ordine del giorno la formazione del cittadino e il suo diritto all'istruzione.
Durante l'Ottocento, poi, lo sviluppo e il consolidamento della Rivoluzione industriale ha effetti rilevanti anche sul piano educativo. Si pensi, ad esempio, alla crisi delle produzioni artigiane e alla conseguente messa in discussione dell'apprendistato, come tirocinio pratico e conoscitivo legato allo svolgimento diretto delle attività produttive, che da lunghissima data costituiva l'asse portante della formazione del popolo. Contestualmente, i mutamenti tecnologici legati alla nuova produzione industriale fanno comprendere che l'adattabilità a essi richiede il superamento della condizione di analfabetismo e ignoranza dei lavoratori e - in genere - della società. Per tutto ciò, la formazione elementare - che, secondo gli educatori più avveduti, deve avviarsi sin dai primissimi anni di vita - e la formazione tecnico-professionale diverranno, nell'Ottocento, due obiettivi di fondo della teoria e della pratica pedagogica e delle politiche scolastiche.
L'educazione nazionale
Più che alla formazione dell'uomo come individuo, il pensiero romantico e idealistico privilegia quella dell'uomo come cittadino e si schiera a favore di un'educazione statale, nazionale.
Secondo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) l'educazione non deve solo consentire la formazione di soggetti autonomi e responsabili, ma anche stabilire un legame di continuità con il passato: essere cioè richiamo alla tradizione, recupero delle proprie radici spirituali e possibilità di affermazione dell'identità nazionale di un popolo.
Primaria, pertanto, è la responsabilità dell'intellettuale, del "dotto". Egli non è solo un produttore del sapere, ma è anche un educatore. Il fine ultimo della sua opera, nella società, è, infatti "il perfezionamento morale di tutto l'uomo". Un perfezionamento che può realizzarsi solo se alla parola il dotto unirà l'esempio, se alla visione morale del mondo che egli insegna farà seguire delle scelte di vita pienamente coerenti. Il dotto, infatti, è un modello per il resto dell'umanità.
Un analogo orientamento a favore di un'educazione nazionale ispira Giuseppe Mazzini (1805-1872). Egli asserisce che è attraverso la tradizione storica del proprio popolo che la coscienza dell'individuo riesce a cogliere la voce divina e a comprendere, quindi, quale sia la legge morale, il principio del dovere, cui egli è chiamato, insieme al popolo al quale appartiene. Attraverso il pensiero e l'azione avviene l'educazione di un popolo, un'educazione politica che, nell'azione compiuta per affermare la propria indipendenza, comporta anche il rischio di sacrificare la propria vita.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) non ha scritto libri sull' educazione, ma la presenza di questa tematica può essere rintracciata nell'ambito della riflessione sullo spirito oggettivo, sulla sfera dell'eticità: l'individuo deve riconoscere la sua più autentica natura e il suo destino nella vita del proprio popolo, nelle istituzioni storiche della società di cui è parte. Compito dell'educazione sarà quello di far in modo che gli individui si approprino di quei valori dello spirito oggettivo, storicamente realizzati si in una determinata epoca storica, e che incarnano lo spirito di un popolo. In questo modo Hegel fornisce all'educazione un forte radicamento storico e un essenziale riferimento sociale.
Spontaneità della natura e dimensione etico-religiosa dell'educazione
Agli inizi del secolo, oltre all'influsso delle idee di libertà sostenute dalla rivoluzione francese, sono soprattutto la cultura e la filosofia del Criticismo kantiano, del Romanticismo e dell'Idealismo a influire profondamente sugli orientamenti educativi, in un costante confronto con l'elaborazione di Rousseau. Ne è un esempio la teoria e pratica educativa dello svizzero Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827), il quale manifesta un chiaro orientamento democratico, ereditando alcune idee di Rousseau, Kant e Fichte, e sviluppando proprie idee pedagogiche in stretta connessione con la sua azione di educatore.
Pestalozzi riprende il tema rousseauiano della bontà della natura umana, del "buon fondo infantile", della "naturale bontà dei sentimenti" dei fanciulli e "dell'invariabile rettitudine del loro pensiero". E rivendica il diritto di tutti, a qualunque classe sociale appartengano, allo sviluppo delle proprie facoltà.
Il richiamo alla natura umana si traduce per Pestalozzi in un'attenzione nuova per lo sviluppo psicologico del bambino, poiché egli è convinto che sia necessario intervenire, con l'opera educativa, sin dai primi stadi di vita, ricorrendo all'''aiuto delle madri". Egli conferisce, infatti, un valore preferenziale alla relazione madre-figlio nella prospettiva educativa, e considera le madri alleate preziose per l'educazione: l'anima infantile si sviluppa grazie al "grande mezzo dell'azione della madre". Pestalozzi, così, mette in evidenza la dimensione dell'affettività e riconosce che essa costituisce un aspetto essenziale del piano educativo.
L’educazione deve favorire l'espansione graduale e armonica del cuore e della mente. Essa si fonda sull'idea che occorra sviluppare - nel bambino -la forza originaria e naturale insita in lui e per la quale si richiedono non i tradizionali mezzi repressivi, ma un metodo educativo adeguato, basato sull'idea di suddividere ogni materia di insegnamento in parti semplici, da acquisire per intuizione e poi da assimilare organicamente.
Il metodo deve essere dunque intuitivo e graduale, cioè assecondare e sviluppare i naturali interessi, la naturale curiosità infantile con un insegnamento tale da favorire un ampliamento progressivo dell'orizzonte del sapere, mediante l'educazione del linguaggio, del numero, della musica e del disegno, oltre che del corpo. In tale progetto, la dimensione etica dell'educazione costituisce l'asse centrale: la stessa educazione professionale dei giovani ha valore come strumento di elevazione morale.
Il valore educativo del gioco
Il poeta e drammaturgo Johann Christoph Friedrich Schiller (1759-1805) sottolinea la centralità della fantasia e dell'impulso al gioco nello sviluppo degli individui. La fantasia e l'arte - secondo Schiller - fanno cogliere l'armonia del tutto e consentono di raggiungere un equilibrio fra natura e spirito. Questo ideale di formazione estetica, onnilaterale, capace di valorizzare tutti gli aspetti della personalità degli individui, viene contrapposto da Schiller a una condizione di scissione fra le diverse facoltà umane, di formazione unilaterale degli individui, quindi di formazione di personalità parziali e distorte.
Il pedagogista tedesco Friedrich Wilhelm August Frobel (1782-1852) si ispira soprattutto al Romanticismo e all'Idealismo di Schelling, più che a Kant e a Fichte. Come Pestalozzi, Frobel è un educatore che traduce in forma teorica le linee della sua attività educativa. Come Pestalozzi - e ancor più di lui - Frobel riconosce importanza ai primi anni di vita del fanciullo e all'educazione dell'infanzia.
Il suo nome è legato alla creazione e all'esperienza dei Kindergarten, o Giardini d'Infanzia. Con tale iniziativa, egli vuole promuovere uno spontaneo sviluppo del bambino, sulla base dell'idea che uno stesso principio divino di vita - quello dello Spirito assoluto - circola nella natura e nell'uomo e che, in quest'ultimo, esso culmina nella coscienza di sé e nel pensiero.
Ne consegue che lo scopo dell'educazione è condurre l'individuo a una piena consapevolezza di sé, portando l'essere umano a cogliere entro se stesso "l'essenza e l'intima vita delle cose", la presenza, in sé e nella natura tutta, di una "unità originaria", che è lo Spirito e Dio.
Il momento più importante - perché tale processo avvenga - è costituito dai primi anni di vita, nei quali si imprimono durevolmente le impressioni e le immagini del mondo esterno.
Esse favoriscono - nel bambino - un processo in cui si "rende esteriore l'interno ed interiore l'esterno". Si vengono così gradualmente a operare delle distinzioni nella "nebulosa" della mente, incoraggiando il bambino a esprimersi e a mettere a frutto la sua grande creatività e la sua fantasia. È soprattutto nel gioco che il giovane trasforma l'esperienza immediata in simboli: egli cavalca un bastone, ma pensa di cavalcare un cavallo. La forma più alta del gioco è quella che gli fa rivivere nell'immaginazione le scene importanti della vita sociale dell'adulto.
Da qui le indicazioni di metodo, che fanno leva soprattutto sulla fantasia e sul gioco. Frobel assegna, infatti, il massimo valore educativo al gioco, come attività autonoma del bambino e fattore trainante dei processi di crescita, con l'aiuto di doni, cioè di oggetti geometrici che - nel Giardino d'infanzia - dovrebbero essere utilizzati dal bambino in attività di costruzione-ricostruzione che lo conducano gradualmente a cogliere le leggi della natura. Frobel prevede anche attività come il giardinaggio e l'allevamento di animali, che generino l'amore per gli esseri viventi, o giochi e canti che facciano avvicinare i bambini alla vita profonda dell'umanità, accompagnando tutte le attività che li coinvolgono e li interessano.
Herbart: scienza dell'educazione e ruolo della psicologia
La teoria dell'educazione di Johann Friedrich Herbart (1776-1841) è fortemente ancorata non solo alla sua filosofia - il Realismo - ma anche a una valorizzazione della psicologia, ovvero di una scienza che cominciava solo allora a muovere i primi passi e che proprio per merito suo vedrà riconosciuta la sua importanza nei processi educativi, avviandosi a svolgere un ruolo sempre più rilevante.
Herbart afferma di muovere "dalla grande idea del nobile Pestalozzi", che ritiene si possa applicare a ogni ordine di scuola, e non solo a quella elementare. Il compito dell'educazione, il suo fine ultimo, risiede nel concetto di moralità, nella formazione di uomini virtuosi: "il valore dell'uomo si misura dalla sua volontà e non dal suo intelletto", sottolinea Herbart, intendendo per 'moralità' e 'virtù' soprattutto lo sviluppo armonico e integrale dell'uomo, della sua mente e del suo carattere.
Per questo il compito principale dell'educatore diviene l'istruzione, sebbene Herbart preferisca parlare di istruzione educativa, ossia di un'istruzione che si ponga l'obiettivo della formazione del carattere e che non termini con la scuola, ma prosegua.
Da qui deriva il suo metodo, nel quale un ruolo essenziale ha l'interesse. L’apprendimento, infatti, richiede come condizione fondamentale il coinvolgimento, la motivazione: "la noia è il male radicale dell'istruzione". Quando c'è l'interesse, vuoI dire che esiste qualcosa che esercita una particolare attrattiva sulla mente rispetto ad altre rappresentazioni.
Da ciò deriva il ruolo essenziale - nella pedagogia - non solo dell' etica, cui compete l'indicazione dei fini dell'educazione (e che riguarda gli uomini come devono essere), ma anche della psicologia, cui compete l'orientamento sulla scelta dei mezzi (e che riguarda gli uomini come sono). La psicologia, infatti, concorre all'opera educativa fornendo gli strumenti di intervento necessari ad un equilibrato sviluppo della personalità e del carattere dell'individuo.
L’azione educativa deve promuovere la multilateralità dell'interesse, suscitando e sviluppando gli interessi in tutte le direzioni, evitando, quindi, il formarsi di interessi unilaterali. Tale multilateralità richiede, fra l'altro, un equilibrio tra gli insegnamenti scientifici e storico-letterari e un equilibrio fra interessi di conoscenza (studio dei fatti, interesse estetico, ecc.) e interessi di partecipazione (interessi morali, sociali, religiosi).
Il riformismo educativo nell'età della Rivoluzione industriale
Con il procedere del secolo, anche la pedagogia e le esperienze educative devono misurarsi con le innovazioni profonde che l'industrializzazione produce in tutti i campi e che portano a grandi cambiamenti sociali e politici.
In Gran Bretagna, gruppi di intellettuali riformatori che si richiamano all'Illuminismo si impegnano in un'azione riformatrice anche in campo scolastico e educativo. Fra loro, gli Utilitaristi (di cui è principale esponente Jeremy Bentham, 1748-1832) e alcune figure rappresentative del cosiddetto "Socialismo utopistico".
L’industriale e filantropo Robert Owen (1771-1858) ritiene che un rinnovamento del costume e la lotta all'immoralità passino innanzitutto attraverso un miglioramento delle condizioni generali di vita delle classi lavoratrici. Occorre una "formazione integrale, nel fisico e nel morale, di uomini e donne che penseranno e agiranno sempre razionalmente". Per tale motivo, gli interventi educativi devono muovere dalla prima infanzia e realizzare un'istruzione generale di giovani e adulti, basata su una formazione integrale, sia della mente sia del corpo. Suo è il merito di avere per primo realizzato (nel 1816) scuole infantili per i figli degli operai, che daranno il via al sistema delle Infant's Schools inglesi.
Agli asili infantili si richiamerà l'italiano Ferrante Aporti (1791-1858), che ne aprirà uno in Italia nel 1828. L’educazione etico-religiosa, le attività all'aria aperta e le attività manuali organizzate dai maestri (nonché l'avvio di una prima educazione elementare) costituiscono anche per lui un correttivo dell"'educazione spontanea" della società, che per i bambini delle classi popolari è spesso corruttrice, perché generata dalla miseria.
Il confronto con le problematiche sociali e politiche della società occidentale a metà dell'800, conduce all'elaborazione di due grandi indirizzi di pensiero pedagogico.
Il primo è quello di Karl Marx (1818-1883), che è attento alle questioni educative e propone di associare istruzione e lavoro. Marx prevede l"'educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli", l'"abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale" e l"'unificazione dell'istruzione con la produzione materiale". Marx considera con favore la tendenza dell'industria moderna a introdurre i giovani di entrambi i sessi nella produzione, ma respinge i modi e le finalità con cui tale tendenza si attua sotto il dominio dei capitalisti. Egli ritiene che ogni fanciullo, dall'età di nove anni, debba diventare operaio produttivo (pur lavorando solo due ore al giorno) ed essere messo in condizione di "lavorare non soltanto con il cervello, ma anche con le mani". E l'istruzione sarà imperniata su un'educazione tecnologica che "abbracci i princìpi generali e scientifici di tutti i processi di produzione". Il progetto marxiano vuole "produrre uomini di pieno e armonioso sviluppo", contribuendo alla formazione di un uomo onnilaterale. L’unione di educazione intellettuale e tecnica, connessa con l'attività produttiva, sarà variamente ripresa nell'ambito delle elaborazioni pedagogiche che si richiameranno al Marxismo.
Il secondo indirizzo è quello del Positivismo, che da un lato contribuisce a spostare l"'asse culturale" a favore dell'istruzione scientifica e, dall'altro, a donare concretezza agli interventi di riforma dei sistemi scolastici e universitari, assegnando un ruolo nuovo all'istruzione tecnica e professionale. Inoltre, è proprio con la pedagogia positivista che vengono pienamente utilizzati i primi risultati della psicologia scientifica e della sociologia. Difatti, nel periodo di massima diffusione del Positivismo, nei sistemi scolastici europei, oltre ad accordare un peso prevalente all'insegnamento delle scienze e delle tecniche, si presta maggior attenzione alla conoscenza della psicologia del bambino e alle sue condizioni di vita nella società.
Auguste Comte (1798-1857) pensa a un'educazione universale, generale nei contenuti e popolare come destinazione. Egli è convinto che l'istruzione pubblica debba essere impartita dallo Stato "solo ai proletari", poiché le classi privilegiate "possono acquistare l'istruzione che desiderano". L’educazione si configura come una morale pratica, o arte del perfezionamento umano, e ha come scopo quello di subordinare gli istinti egoistici a quelli altruistici. Il progetto educativo di quell'educazione universale assume un carattere enciclopedico, poiché abbraccia tutte le scienze fondamentali. Comte teme la frammentazione e l'isolamento dei saperi nell'insegnamento, tanto da pensare a un unico insegnante per tutte le scienze. Ma la sola istruzione teorica non basta: si deve aggiungere una educazione affettiva, in cui abbia un ruolo rilevante l'etica. Inoltre lo studio teorico, pur prevalendo, è destinato a tradursi in tecnica, in strumento elaborato dall'uomo per la trasformazione e il dominio della natura. Eppure manca - nel progetto educativo comtiano - una vera e propria formazione professionale, poiché questa è demandata all'esercizio concreto delle attività, a un "apprendistato" professionale che non implica l'insegnamento teorico.
Grande spazio e importanza sono invece attribuiti da Herbert Spencer (1820-1903), oltre che allo studio delle scienze, anche all'acquisizione delle abilità relative a un mestiere o a una professione, funzionali alla conservazione dell'individuo e a quella della società. Compito dell'educazione è formare cittadini adatti a vivere nel loro tempo. Il sapere, sottolinea Spencer, non si trova solo nei libri, poiché altrettanto importante è ciò che si apprende nelle vicende della vita. Egli, inoltre, ritiene che l'educazione debba essere guidata dalla conoscenza della psiche infantile nel suo sviluppo: pertanto la psicologia, giacché fa conoscere lo sviluppo evolutivo dell'intelligenza del bambino, deve essere di guida ai processi educativi.
In Italia, Aristide Gabelli (1830-1891) pone al primo posto l'educazione popolare e un'educazione elementare non dogmatica, bensì guidata, che sia la risultante di uno svecchiamento di programmi e metodi di insegnamento nella scuola e dell'introduzione di un metodo oggettivo che si basi sulla realtà dei fatti. Egli vuole perciò sostituire l'insegnamento verbalistico, allora predominante, con il riferimento ai fatti particolari, alla loro osservazione, che è essa stessa "educatrice", cioè formatrice di un abito e di un costume nuovi. "Cose e non parole", è il motto di Gabelli: dai fatti particolari bisogna arrivare alle idee generali.
I processi che caratterizzeranno la situazione educativa del Novecento cominciano a mettersi in evidenza - in Occidente - sin dagli ultimi anni dell'Ottocento, a causa della crescente possibilità di esercizio di diritti sociali e politici e dell'avvento della società industriale di massa. Ciò favorisce la scolarizzazione obbligatoria e gratuita di un numero crescente di persone, alle quali viene permesso di raggiungere almeno il livello dell'istruzione elementare. La scuola diventa sempre più l'agenzia cui la società delega, pressoché per intero, l'istruzione e, in gran parte, l'educazione delle giovani generazioni e per questo il discorso pedagogico mette al centro la riflessione sulla scuola.
Qualificano questo secolo - dal punto di vista dell'educazione - l'impegno a costruire una pedagogia scientifica e il movimento delle "scuole nuove", che intendono promuovere un'educazione fondata sulla centralità del bambino e la concezione e la pratica della "scuola attiva".
A modificare in profondità la considerazione delle questioni educative concorre anche l'affermazione, nel Novecento, delle scienze umane e sociali: da queste derivano e si sviluppano le scienze dell'educazione (teorie dell'apprendimento, metodologie formative, ecc.). Come in altri settori, anche in questo l'affermarsi del sapere scientifico avviene a scapito della filosofia (in questo caso, a scapito della pedagogia di matrice filosofica) e dei "territori" del sapere che a lungo essa aveva occupato e controllato, tanto da far apparire inevitabile - a molti - il passaggio dalla "filosofia" alle "scienze" dell' educazione.
L’educazione come autoformazione dello Spirito
Fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si afferma in Italia la pedagogia idealistica di Giovanni Gentile (1875-1944), il quale, nominato Ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini, nel 1923 vara la riforma scolastica che porta il suo nome.
Per Gentile, la pedagogia ha il compito di formare l'uomo poiché essa studia il processo di autoformazione dello Spirito. La pedagogia, pertanto, coincide con la filosofia, in quanto "fare lo Spirito" si identifica con il "farsi dello Spirito". L'educazione è prima di tutto autoeducazione. Il rapporto educativo si presenta come rapporto maestro-scolaro, nel quale, in atto, la mente del maestro e quella dello scolaro divengono una mente sola, si innalzano a una superiore unità, entrambe partecipi della vita dello Spirito assoluto.
Nella comunità intima che viene a stabilirsi fra educatore e educando non vi è contrasto tra la libertà del maestro e quella dello scolaro: vi avviene, anzi, l'incontro nell'universalità dello Spirito. Eppure il maestro è depositario di un valore spirituale al quale tutti i valori inferiori e diversi devono adeguarsi. Egli "plasma anime", quindi deve guidare l'anima dell'allievo a quei valori spirituali superiori che sono quelli etico-politici dello Stato. L'allievo deve essere portato a volere ciò che vuole la legge dello Stato, che è Spirito, atto.
Queste sono anche le premesse pedagogiche della riforma scolastica del 1923, la quale prevede che la cultura scientifica e quella tecnico-pratica siano sovrastate dalla sfera del pensiero, rappresentata dalla filosofia e dalla cultura storico-letteraria.
Sarà, invece, Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938) - pur dichiaratosi seguace di Gentile - a riproporre l'idea della creatività e spontaneità dello sviluppo infantile, con un'attenta considerazione delle attività (gioco, lavoro manuale, diario, ecc.) che possano realmente favorire tale sviluppo. Egli guarda infatti più alla soggettività concreta (all'''io empirico") che allo Spirito assoluto e, nel sottolineare il valore dell'esperienza nell'educazione, si rifà a Kant più che ad Hegel: "se si toglie l'attività formatrice dello spirito la realtà è cieca; ma se si toglie la realtà concreta dell'esperienza lo spirito è vuoto".
Un altro esponente dell'Idealismo, Ernesto Codignola (1885-1965), con l'esperienza della Scuola-città, cioè di un'effettiva comunità di vita e di lavoro dei ragazzi, svilupperà l'Idealismo nella direzione delle esigenze di un' educazione democratica e lo porterà a incontrarsi con i princìpi e le esperienze dell'attivismo pedagogico. La Scuola-città avrà al centro di tutte le sue attività il lavoro, concepito come attività di "spiriti liberi".
Fra la scuola e il lavoro
Nella riflessione pedagogica del marxismo del '900, hanno grande peso le esperienze compiute nell'URSS dopo la rivoluzione del 1917, in particolare il tentativo di realizzare una scuola unica del lavoro. Va segnalata allora l'elaborazione di Anton Semionovic Makarenko (1888-1939), volta a costruire una mentalità collettiva, a educare i sentimenti - soprattutto il senso di responsabilità e le capacità di auto-disciplina, all'interno di un "collettivo organizzato" - e a collegare strettamente istruzione e lavoro.
In Italia, Antonio Gramsci (1891-1937) elabora una teoria educativa che, pur basata su presupposti marxiani, riflette sugli sviluppi della società industriale e sulla funzione sociale della cultura e degli intellettuali. Secondo Gramsci, nella società contemporanea le scienze si intrecciano alla vita e le attività produttive tendono ciascuna a "creare una scuola", la scuola professionale. La tendenza della società, pertanto, è di ridurre la formazione "umanistica" a ristrette élites, inserendo invece tutti gli altri giovani in scuole tecnico-professionale, "in cui il destino dell'allievo e la sua futura attività sono predeterminati".
Occorre dunque invertire tale tendenza se si vuole evitare, da un lato, che la scuola determini un ulteriore irrigidimento delle barriere sociali e, dall'altro, che lo sviluppo produttivo (che conterrà sempre più "scienza", esigenze di conoscenza nello svolgimento delle attività lavorative) provochi una crisi profonda negli assetti scolastici esistenti. Secondo Gramsci, è necessario pensare a una nuova scuola obbligatoria. Essa dovrebbe essere unica e incentrata su un asse culturale, su un principio educativo tale da costituire un 'nuovo Umanesimo', capace di legare assieme da un lato la tecnica-lavoro e la tecnica-scienza e, dall'altro, una concezione umanistico-storica. Solo dopo tale scuola si dovrebbero avere indirizzi specializzati ed esperienze di lavoro produttivo.
Personalismo e pedagogia cattolica
Un contributo rilevante alla riflessione sui problemi dell'educazione da parte del mondo cattolico viene fornito dall'opera Educazione al bivio del filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973). L’umanesimo integrale di Maritain è sorretto da una visione educativa che guarda all'integrità della persona umana e intende promuovere - nell'allievo - l'amore per la verità, la giustizia, la cooperazione.
Pur criticando taluni aspetti della pedagogia "laica" contemporanea (ad esempio lo strumentalismo, l'ignoranza dei fini ultimi dell'educazione, il sociologismo), egli ne condivide non pochi aspetti. Anche per Maritain, infatti, il processo formativo è come un passaggio da natura a società, da individuo a persona ed è, soprattutto, conquista della libertà mediante l'esercizio della libertà.
Per Maritain, l'educazione è formazione della persona alla vita democratica. In tal senso, chi apprende è "l'agente principale", la "forza propulsiva primaria" dei processi formativi. Pur senza essere "permissiva", l'educazione deve quindi respingere i tradizionali modelli autoritari di "educazione con il bastone".
Inoltre anche per Maritain, come per buona parte della pedagogia del Novecento, la formazione deve essere in grado di conciliare "educazione" e "lavoro", perché deve favorire la piena formazione umana, capace di armonizzare le esigenze dell'individuo e quelle della società. Egli afferma che "non c'è posto più vicino all'uomo che un laboratorio" e che "l'intelligenza dell'uomo non è solo nella sua testa, ma anche nelle sue dita". Con l'educazione vanno allora riaffermati la dignità del lavoro e il superamento della separazione sociale tra homo faber e homo sapiens.
Dewey: l'educazione democratica
Negli Stati Uniti John Dewey (1859-1952), muovendo da una concezione filosofica, lo Strumentalismo, nella quale il pensiero si lega strettamente all'azione, elabora una delle concezioni educative destinate a esercitare maggiore influenza sulla cultura pedagogica del Novecento.
Tema di fondo di questa pedagogia è il rapporto tra scuola e società, in cui si esprime e si realizza il rapporto tra individuo e società, vero asse del rapporto formativo. Dewey si colloca nella linea educativa per la quale si deve formare non l"'uomo", ma il cittadino. Il modello di società politica cui egli guarda è quello democratico. La corrispondenza tra democrazia ed educazione va ritrovata nell'esigenza, propria di una società mobile e ricca di cambiamenti, di "provvedere a che i suoi membri siano educati ali 'iniziativa personale e all'adattabilità". La prospettiva è quella di una educazione che prepari i cittadini alla vita futura, ai cambiamenti a venire e consenta loro di agire nella società in maniera razionale ed efficace.
Dewey sostiene un modello di educazione democratica e anti-autoritaria sia nei fini sia nei metodi. L'educazione, come processo di formazione di personalità consapevoli e responsabili, è fattore fondamentale dello sviluppo della democrazia. È "vita sociale semplificata", educazione alla democrazia mediante esperienza di vita comunitaria e concreto esercizio della democrazia
Alla scuola, in quanto istituzione sociale, viene pertanto attribuita la funzione di strumento per la crescita e la riforma democratica della società, senza che essa subisca i mutamenti sociali ma, anzi li favorisca e li accompagni. Dewey critica il modello scolastico tradizionale, quello in cui il fanciullo è passivo mentre il centro del processo formativo è l'insegnante. È infatti necessario rinnovare la scuola, promuovendo innanzitutto la socializzazione nella vita scolastica, ossia l'organizzazione della scuola come comunità di vita in cui gioca un ruolo importante il lavoro a gruppi, occasione di interazione umana. Con Dewey, il lavoro assume una funzione educativa, come opportunità formativa propria di una società industriale, anche se - come è stato notato - nella scuola deweyana è presente il lavoro artigianale più che quello industriale. Il lavoro entra non come "disciplina", ma come valore, con la dignità che ha assunto nella società industriale. Esso dovrebbe impedire che le materie di studio siano separate dalla vita sociale.
Oltre al valore della socialità, a contraddistinguere la scuola deve essere la centralità e dignità dell'allievo, l'attività come segno della sua libertà e della liberazione dalle imposizioni di cui è spesso vittima nella scuola. Learning by doing, "apprendere facendo", è il fortunato slogan dell'attivismo deweyano: da questo primato dell'attività discende, sul piano didattico, l'idea che tutta l'attività scolastica sia ancorata all'interesse, che orienta l'attività stessa, nel gioco prima ancora che nel lavoro.
In tale ambito, un ruolo essenziale lo gioca l'acquisizione, da parte dell'individuo in sviluppo, di una mentalità scientifica, che lo aiuti a liberarsi da ogni condizionamento dogmatico, lo conduca a riconoscere la varietà dei punti di vista possibili, quindi la necessità della tolleranza e l'esigenza di sottoporre le proprie convinzioni al banco di prova dell'esperienza.
A ispirare questa tesi della centralità dell'alunno e della sua attività è la convinzione che sia in corso e vada portata a compimento una "rivoluzione copernicana" in ambito pedagogico, poiché "il fanciullo diventa il Sole attorno al quale girano gli strumenti dell'educazione". Il puerocentrismo è stato uno dei contrassegni più importanti della pedagogia sia di Dewey, sia di gran parte del Novecento.
L’Attivismo
La pedagogia deweyana è alla base dell' Attivismo, indirizzo destinato a predominare in campo educativo dagli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale fino al secondo dopoguerra e, talvolta,fino agli anni '60.
Si tratta di un movimento pedagogico in cui confluiscono impostazioni ed esperienze diverse e che è stato qualificato in vario modo, da "progressista" a "democratico", oppure indicato come "educazione al lavoro" e identificato sovente con l'esperienza delle "scuole nuove", anche se non tutte le "scuole nuove" si possono far rientrare nell'impostazione attivistica. Certo è che i pionieri dell' Attivismo sono molto spesso degli educatori militanti, che applicano le loro concezioni in istituzioni scolastiche talvolta appositamente create a questo scopo.
La provenienza e la formazione dei sostenitori dell'Attivismo è varia: si va dal grande romanziere Lev Tolstoj (1828-1910) a Maria Montessori (1870-1952), che è medico, mentre Ovide Decroly (1871-1932), Édouard Claparède (1873-1940) e Alfred Binet (1857-1911) sono psicologi.
Come si vede, non vi sono pedagogisti di formazione filosofica. Precursori dell' Attivismo sono considerati Rousseau, che ha fatto di Emilio il costruttore del proprio sapere limitando la funzione del maestro, e Pestalozzi, per il rilievo che ha dato all'attività lavorativa, oltre che per l'importanza attribuita a una attività collaborativa ~ e non emulativa - nel gruppo di chi apprende.
Comune a tutte le esperienze attivistiche è l'intento di rendere la scuola un luogo e uno strumento di progresso e di liberazione dell'uomo. Il rinnovamento della scuola è visto come fattore che concorre al rinnovamento della società e alla lotta contro l'ignoranza e l'ingiustizia.
Altrettanto caratterizzante è il puerocentrismo, che implica un riorientamento complessivo del discorso e della pratica pedagogica al fine di garantire il riconoscimento reale della centralità del bambino e la rimozione di ciò che ostacola la sua libera attività.
In questa prospettiva, il metodo e la didattica hanno un ruolo rilevante. Si va dal metodo di lavoro per gruppi di Adolphe Ferrière (1879-1960), alle tecniche di Célestin Freinet (18961966), ai materiali strutturati di Maria Montessori.
Nella pluralità degli apporti che sono confluiti nell'Attivismo, si sono individuate due componenti: quella del razionalismo progressista, di cui Dewey è il maggiore esponente, ma che si rifà anche al Marxismo e alla filosofia della prassi, e una componente variamente definita come irrazionalistica, vitalistica o mistica, che trova i suoi re ferenti talvolta in Bergson, a volte nell'Idealismo e, comunque, in chi rivendica l'irriducibilità, la spontaneità e il carattere intuitivo dello spirito. L'ancoraggio alle scienze dell'educazione, in particolare alla psicologia, è forte, ma non tutti gli attivisti si riconoscono nella psicologia scientifica.
La Montessori, per esempio, ne critica la tendenza alla quantificazione e la considera non adeguata come base dell'educazione. I suoi critici, però, hanno visto in questa posizione un elemento che vizia e invalida la sua pedagogia, a causa di una conoscenza poco rigorosa dello sviluppo del bambino. D'altro lato va sottolineato come la pedagogia di Montessori nasca dal suo lavoro di medico e psichiatra con bambini disabili. Essa vuole legare insieme la libertà del bambino dalle intrusioni dell'adulto e l'organizzazione delle occasioni di apprendimento, che viene realizzata attraverso la costruzione di un ambiente "a misura del bambino" e una serie di materiali strutturati per lo sviluppo delle sue capacità percettive e anche intellettuali.
L'opera di Decroly muove da una valutazione negativa della scuola, ancorata a impostazioni e metodi sorpassati, chiaramente inadeguata al progresso civile e alle esigenze e delle capacità del fanciullo. Decroly si appoggia ai dati forniti dalla psicologia scientifica (dati quantitativi, sperimentalmente fondati) sull'età evolutiva, relativi alla percezione, all'attenzione e all'intelletto. Su questa base egli costruisce una pedagogia dell'interesse e della globalità nello sviluppo infantile. A lui si deve far risalire la didattica dei "centri d'interesse", attorno ai quali far ruotare attività ed esperienze d'apprendimento. Globalità significa "considerare in modo globale": sarebbe questo il modo con cui il bambino, in una fase della sua vita, che sta tra quella degli impulsi istintivi e quella dell'attività intelligente, percepisce le cose.
Alla fase di globalità faranno seguito esperienze più differenziate e in cui meno forte sarà l'aspetto emozionale a vantaggio di quello intellettivo, con più spazio dedicato all'analisi e meno attenzione per la sintesi. Il "metodo globale" è pertanto funzionale a quell'età dello sviluppo durante la quale, sulla base della partecipazione emotiva a cose e situazioni, si soddisfano l'interesse e la curiosità del bambino rifacendosi alle sue capacità intuitive. Invece, in maniera riduttiva, globalismo e metodo globale sono spesso identificati con un metodo per l'apprendimento della lettura in cui al bambino sono proposte parole intere, collegate con immagini.
Bruner e la pedagogia della società postindustriale
Lo psico-pedagogista Jerome S. Bruner (n. 1915) muove dalla consapevolezza che la pedagogia attivista di Dewey non è più adeguata alla nuova fase di sviluppo dell'economia e delle società più avanzate dell'Occidente. Egli ritiene che la nuova epoca non sia più quella della "progressiva partecipazione dell'individuo alla coscienza sociale della sua comunità", ma richieda invece un'istruzione che potenzi e sviluppi i processi intellettivi dell'individuo, in modo tale da fame un innovatore. Lo sviluppo della società e delle conoscenze esige per l'istruzione non l'adeguamento a ciò che la società ha elaborato e prodotto, ma la competenza, cioè "l'impiego delle facoltà umane per sviluppare un'eccellenza definibile solamente nei termini individuali e importante dal punto di vista sociale". Ciò significa che non si può circoscrivere l'istruzione nei limiti dell'interesse del bambino, perché bisogna tener conto delle esigenze della società, del mondo degli adulti. Se è sbagliato - come dice Dewey - sacrificare il bambino all'adulto, "è altrettanto sbagliato sacrificare l'adulto al fanciullo".
Non vi è più un patrimonio definito e sostanzialmente stabile di conoscenze da apprendere, ma vi sono abilità da acquisire, in una prospettiva di crescita e di ulteriore sviluppo dei saperi.
Nella scuola, che rappresenta "l'ingresso nella vita dell'intelletto", oggetto dell'istruzione deve essere la conoscenza del mondo come rete di relazioni interdipendenti, conoscenza di strutture, più che di nozioni particolareggiate. Per Bruner - come per Dewey -la scuola continua a essere "il metodo fondamentale del progresso e della riforma sociale"; ma per svolgere questo compito deve continuamente adeguare i suoi programmi in base alle nuove teorie e alle conquiste della società.
Bruner è interessato soprattutto alla ricerca sui processi cognitivi e sullo sviluppo intellettivo; per questo aspetto egli si inserisce nel filone pedagogico che pone al centro della propria analisi la questione dell'apprendimento.
Bruner definisce la sua posizione come "strumentalismo evoluzionistico", poiché ritiene che l'uomo sia in grado di utilizzare la propria intelligenza per "creare e utilizzare attrezzi e strumenti o espedienti tecnici, che lo pongono in grado di esprimere e ampliare le proprie facoltà". Non si tratta solo di "strumenti" materiali e tecnici, ma anche di "arnesi" mentali, come le funzioni intellettive, e soprattutto le funzioni del linguaggio, uno strumento potente per combinare esperienze.
Bruner individua alcuni caratteri fondamentali di una teoria dell'istruzione nella società postindustriale. Essi ruotano tutti intorno alla formazione e alla crescita della mente nella sua struttura logica e nel suo funzionamento.
1. Innanzitutto, bisogna analizzare il modo con cui il soggetto che apprende si colloca dinanzi al processo della conoscenza. In particolare, è necessario insegnare ai ragazzi un approccio problematico e un atteggiamento indagatore nei confronti della realtà, abituandoli a considerare diverse alternative di risoluzione dei problemi. Per questo Bruner ripropone l'esigenza, già propria dell' Attivismo e di Dewey, di incoraggiare l'atteggiamento critico.
2. In secondo luogo, occorre preoccuparsi dell'organizzazione delle conoscenze. Il principio che emerge da queste considerazioni è che la scuola non possa tener dietro all'aumento prodigioso delle conoscenze e debba puntare, pertanto, a far conoscere le strutture dei saperi e a far acquisire abilità, più che nozioni.
3. L’insegnamento deve essere quindi impartito mediante un metodo strutturale, che miri all'apprendimento delle strutture delle discipline e torni sulle strutture apprese per approfondimenti sempre più ampi, in una sorta di movimento a spirale che accompagni lo sviluppo.
Una nuova cultura per un uomo nuovo
Adorno, Horkheimer e don Milani, pur partendo da premesse culturali ed esperienze fra loro molto diverse, criticano in maniera netta alcune fra le forme culturali dominanti nella nostra epoca. I due filosofi tedeschi sottopongono a un'analisi severa l'industria culturale; questa, per il semplice fatto di essere asservita agli interessi economici della classe dominante, non favorisce più l'esercizio del pensiero critico, ma uniforma tutti gli individui in un conformismo piatto e omologato all'ideologia della classe dominante. Don Milani parte invece da un'esperienza più limitata, quella della scuola tradizionale pronta a premiare coloro che sono già in possesso, in partenza, degli strumenti da acquisire durante il percorso educativo e formativo. La scuola selettiva tradizionale premia i ripetitori di nozioni, coloro che già sanno ciò che gli insegnanti danno per scontato, e in questo modo li rende una casta privilegiata come i loro genitori, li isola da coloro, la massa, che invece vorrebbero impadronirsi delle parole necessarie per comunicare con i loro simili. Assistiamo quindi nelle du prospettive a un rifiuto netto dell'ideologia dominante; possiamo dire che in entrambi i casi gli autori, pur partendo da premesse di matrice illuministica, vanno oltre il cosmopolitismo, l'umanesimo astorico degli uomini del Settecento per analizzare invece in maniera concreta le contraddizioni economiche e sociali della realtà alla quale appartengono. Martha Nussbaum sottolinea la necessità che lo Stato conceda a tutti i cittadini, e soprattutto a coloro che sono più svantaggiati per ragioni di salute, economiche o sociali, non solo uguali diritti ma uguali possibilità di sviluppare a pieno le loro capacità. Le riflessioni della studiosa americana arricchiscono la visione kantiana e quindi illuministica dell'uomo ribadendo l'importanza di facoltà diverse dalla astratta ragione: l'immaginazione sociale in primo luogo, il bisogno di prendersi cura dell'altro.