Nel 1590, ultimo anno del suo mandato sulla cattedra di Pietro, così si esprimeva il pontefice Sisto V: "Seggio incrollabile e trono venerabile del beatissimo Pietro, principe degli Apostoli, dimora della religione cristiana, patria comune di tutti i fedeli, porto sicuro per tutte le nazioni che, dal mondo intero, confluiscono verso di lei, Roma non ha solamente bisogno della protezione divina e della forza sacra e spirituale, ma anche di quella bellezza che ornamenti materiali e ricchezza possono donare.
Pertanto, fin dall'inizio del nostro pontificato, non abbiamo smesso di essere solleciti ai bisogni pubblici e privati dei cittadini e degli abitanti di questa città, e di accrescere, nei suoi quartieri, il numero delle chiese e dei palazzi privati, rinnovando il vecchio, creando il nuovo - tutto per la gloria di Dio Onnipotente e per l'onore della Santa Sede - abbiamo voluto con tutte le nostre forze conservare la città intera nella sua grandezza e bellezza".
La politica papale del XVII secolo non si discostò dalle sue volontà, arricchendo le chiese di Roma di pregevoli testimonianze artistiche del tempo.
Sulla stessa scia procedettero i pontefici del Settecento, i quali promossero importanti imprese decorative volte a celebrare il prestigio della Città Eterna.
Città alla moda, frequentata dal bel mondo di tutta Europa, Roma offriva ai suoi ospiti l'immagine di un centro artistico colto e vivace, memore delle grandezze del passato e per niente disposto a cedere ad altre città il primato nel campo delle arti.
La pittura
La città di Roma fu nel Settecento il centro artistico più vitale in Italia. Accanto alla corte pontificia e agli ordini religiosi, le grandi casate dell'aristocrazia continuarono, come nel Seicento, ad alimentare con le loro richieste la produzione artistica.
A queste si unirono numerosi collezionisti privati: esponenti della piccola nobiltà, ecclesiastici, letterati che amavano circondarsi di oggetti d'arte.
Richiamati dalle molteplici opportunità di lavoro, artisti provenienti da ogni parte d'Italia si riversarono a Roma alla ricerca di commissioni di prestigio. Si andò così costituendo un linguaggio che travalicava i limiti regionali, travolgendo quella che per secoli era stata la struttura portante della geografia artistica italiana, articolata in scuole locali.
Il capodistriano Francesco Trevisani, stabilitosi a Roma sin dal 1678, e Sebastiano Conca, giunto in città nel 1707, si uniranno ad altri artisti nell'intento di riformare l'ormai esausta tradizione del barocco romano. Giovanni Paolo Pannini giunse da Piacenza nel 1711, Corrado Giaquinto da Molfetta e Pompeo Batoni da Lucca nel 1727.
Il variegato universo artistico coincise con i molteplici generi della produzione e conferma la vitalità dell'ambiente romano.
A partire dalla metà del secolo, il dibattito culturale apertosi tra le numerose colonie di artisti stranieri e gli scambi tra le accademie di pittura di Francia e di Spagna con quella romana di San Luca fecero della città un centro più di qualsiasi altro aperto alla circolazione internazionale di idee.
A ciò si unì un nuovo sentimento per il mondo antico, che pure aveva connotato con continuità la cultura pittorica romana, col quale si confrontò un'intera generazione di artisti. Roma, dove fervevano campagne di scavo, fu considerata la culla della civiltà classica, la custode delle grandi vestigia del passato.
Anche la pittura e la scultura risentirono di questo clima culturale, volgendosi verso i modelli di compostezza e di armonia dell'arte antica, fatta di equilibrio, eleganza e purificata di ogni eccesso.
La promozione delle arti
Negli anni del suo operoso pontificato, durato dal 1740 al 1758, Benedetto XIV si mostrò estremamente attento e propenso verso le arti. Fin dall’inizio, egli fu animato dalla volontà di creare un museo che fosse un luogo pubblico, di proprietà non più di un privato collezionista, bensì dell’intera comunità di fedeli.
Il proposito, dapprima personale, poi condiviso dal cardinale camerlengo Valenti, si realizzò nel 1749 con l’accrescimento e l’apertura al pubblico della Pinacoteca Capitolina, il primo museo pubblico italiano.
Nel contempo, egli emanava una legge di tutela e di salvaguardia delle arti, che costituì il primo passo verso la presa di coscienza della conservazione dell’immenso patrimonio artistico italiano.
Al momento dell’ascesa al soglio papale, egli aveva dovuto abbandonare Bologna, la città natale da lui tanto amata, per trasferirsi a Roma.
Da qui non dimenticò di inviare splendidi doni, come la raccolta di stampe del conte Giovanni Bolognetti, lasciata all’Istituto di Scienze e poi confluita al Gabinetto delle Stampe della Pinacoteca Nazionale.
Constanti furono anche le spedizioni di oggetti d’arte alle chiese della diocesi bolognese, comprendenti preziosi arredi, suppellettili ecclesiastiche e paramenti liturgici.
Una particolare cura fu riservata all’Università felsinea, dove egli dette impulso agli studi di anatomia, fondò una cattedra di chirurgia e costituì il Museo Anatomico.
A Roma Benedetto XIV accrebbe il patrimonio librario della Biblioteca Vaticana, acquistando la biblioteca del cardinale Ottoboni, la più importante raccolta privata della città e, nel 1755, fece aprire al pubblico il Museo di antichità cristiane, comprendente le antiche collezioni del Vaticano, accresciute dai recenti ritrovamenti archeologici nelle catacombe romane.
Per sua iniziativa numerosi edifici antichi, quali il Colosseo ed il Pantheon, furono restaurati, così come le basiliche di Santa Maria Maggiore e di Santa Maria degli Angeli.
La protezione accordata a personaggi della cultura come Lodovico Antonio Muratori e la corrispondenza con Voltaire raccolsero attorno al pontefice un coro unanime di stima e di ammirazione in tutta Europa, persino nei paesi di religione non cattolica.
La Coffee House del Quirinale
Durante il pontificato di Benedetto XIV, i giardini del Palazzo del Quirinale, allora residenza papale, subirono numerosi interventi di restauro e di abbellimento.
Furono costruite fontane, collocate sculture e ripristinati aiuole e vialetti. Per rendere più gradevoli le passeggiate nell’ampio giardino del palazzo di Montecavallo, fu costruita la Coffee-House, un casino di delizie progettato dall’architetto Ferdinando Fuga (1699-1782), dove sostare durante il passeggio, ritirarsi in solitudine, appartarsi per incontri discreti o semplicemente per sorseggiare un caffè.
La degustazione del caffè divenne infatti nel Settecento una moda che si diffuse rapidamente in Europa, una cerimonia che riuniva i più vari personaggi, senza distinzioni di rango, di credo politico o religioso.
L’usanza di edificare nei giardini dei palazzi nobiliari dei casini di ritiro era un’usanza molto antica, che nel corso del XVIII sec. subì notevoli sviluppi.
Dall’Inghilterra dilagò la voga della Coffee-House, un piccolo padiglione destinato a tale rito.
Il primo Coffee-House, o caffeaus come era definito italianizzando la grafia della parola inglese, sorse in Inghilterra, ad Oxford, nel 1650 e già alla fine del secolo nella sola Londra se ne contavano oltre duemila.
Alla moda d’oltremanica, dove essi erano divenuti luoghi di ritrovo per libere conversazioni e scambi di idee, nonché ambienti di diffusione delle nuove idee illuministiche, non si sottrasse Benedetto XIV, il cui acuto spirito, la profonda erudizione e l’indipendenza di giudizio erano note.
Il Fuga, l’architetto pontificio di Clemente XII Corsini, che era stato riconfermato nel suo mandato dal successore Benedetto XIV, concepì un edificio dalla pianta molto semplice: una loggia aperta a tre campate raccorda tra loro due avancorpi laterali, dove si trovano due salette.
Scandito sulla superficie da pilastri dorici bugnati e sormontato da un attico, esso si innalza su un terrazzamento lastricato, rialzato su tre gradini rispetto al giardino.
A coronamento dell’attico, sul quale si elevano dodici busti marmorei di personaggi togati, vi è un semiarco pieno, che ospitava in origine un grande stemma di papa Lambertini, oggi perduto.
Il padiglione fu eretto tra il 1741 ed il 1743 e rappresenta uno dei più ragguardevoli esempi dell’arte del Settecento a Roma.
La sua architettura non ha subito nel corso degli anni rimaneggiamenti ed il carattere privato dell’ambiente, davvero insolito per un pontefice, si rispecchia nelle decorazioni interne, dove elementi sacri si mescolano con quelli profani.
La Fontana di Trevi
La progettazione della Fontana di Trevi, la più grandiosa di Roma e celebre in tutto il mondo, durò un secolo. Giacomo della Porta (1533-1602), poco prima della morte, aveva elaborato un progetto e lo stesso Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) si era occupato dei lavori di ampliamento della piazza, ideando al centro di essa una fonte di enormi dimensioni.
Il Settecento raccolse l’eredità del secolo precedente, fatta di studi e di elaborazioni che si ingegnavano di convogliare in maniera scenografica l’Acqua Vergine, incanalata dalla campagna romana, nel 19 a.C., da Agrippa per alimentare le sue terme in Campo Marzio.
Con l’ascesa al soglio pontificio di Clemente XII Corsini, nel 1732 venne bandito un concorso per l’affidamento dell’incarico.
Luigi Vanvitelli partecipò al bando, ma, sebbene il suo progetto raccogliesse i maggiori consensi, la commissione fu data all’architetto Nicola Salvi (1697-1751). Addossata alla facciata di palazzo Poli, sulla quale posa l’arco di trionfo centrale, la fontana costituisce l’ultima delle grandi imprese monumentali del barocco romano.
Inaugurata una prima volta nel 1735 da Clemente XII, come ricorda l’iscrizione nell’attico, fu completata dai gruppi scultorei solo nel 1762, con alcune variazioni rispetto al progetto iniziale del Salvi.
L’architetto Giuseppe Pannini aveva infatti apportato varie modifiche alla fonte, dando incarico a Pietro Bracci di scolpire il gruppo centrale in marmo, disegnato da Giovanni Battista Maini (1690-1752), e a Filippo della Valle di eseguire le statue allegoriche nelle nicchie.
Al centro dell’arco trionfale, con i suoi sei metri di altezza campeggia il dio Nettuno, in piedi su una grande valva di conchiglia trainata da due cavalli marini. A simboleggiare l’imprevedibilità dell’oceano, uno di essi, imbizzarrito, è trattenuto da un tritone, mentre l’altro, tranquillo, è afferrato per la criniera da un'altra fantastica creatura marina, dalle appendici del corpo pisciformi, che soffia nella buccina.
L’episodio leggendario dal quale prese il nome l’Acqua Vergine è narrato dal bassorilievo posto nell’intercolumno alla destra di Nettuno, sopra la statua raffigurante la Salubrità dell’aria.
A questo, scolpito da Andrea Bergondi, corrisponde sul lato opposto quello eseguito da Giovanni Battista Grossi con Agrippa che segue la costruzione dell’acquedotto sopra la personificazione allegorica dell’Abbondanza.
Un’elaborata scogliera raccorda la parte alta con la grande piscina della fontana, dove l’acqua giunge dopo avere attraversato tre vasche semicircolari.
Piazza di Spagna
Dominata dall’alto dalla chiesa della Trinità dei Monti, Piazza di Spagna, nel centro di Roma, ha il suo cuore nella scalinata che collega la piazza alta a quella bassa.
Di perimetro difficilmente circoscrivibile per la sua irregolarità e articolazione, questa celeberrima piazza nacque come un luogo di passeggio ed uno snodo del traffico cittadino.
Denominata così nel XVII sec. per la presenza dell’ambasciata spagnola, mentre prima si chiamava piazza della Trinità, essa venne conformandosi, quale oggi la ammiriamo, nel corso della prima metà del Settecento. In tempi remoti, sorgeva qui un nucleo di costruzioni di età imperiale, appartenenti alla facoltosa famiglia degli Acili Glabriones, i cui membri occuparono alte cariche nell’antica Roma.
La zona, ridotta ormai nel Cinquecento ad orto e vigneto, fu nobilitata dalla costruzione, a spese del re di Francia, della chiesa dedicata alla Santissima Trinità. Iniziava così la ristrutturazione dell’intera area. Mentre nel 1525 il papa Clemente VII inaugurava la nuova via del Babuino, al sommo veniva realizzata una delle più splendide ville di Roma, Villa Medici.
Abbellita in basso dalla fontana detta la "Barcaccia", progettata da Pietro Bernini (1562-1629) e dal figlio Gian Lorenzo nel 1627, la piazza divenne il teatro della rivalità tra due grandi potenze europee: la Spagna, con la sua ambasciata e la Francia, con la chiesa della Trinità.
L’idea di realizzare una scalinata che raccordasse i due livelli nacque nel 1660 nientemeno che nella mente del cardinale Giulio Mazarino, primo ministro del sovrano francese Luigi XIV, il quale aveva richiesto ai suoi emissari romani di affidare la progettazione dell’opera ai migliori architetti del tempo, fra i quali il Bernini.
La morte di Mazarino nel 1661 e, soprattutto, l’ostilità della Chiesa di Roma, che non tollerava la presenza in città di un .‘Campidoglio’ francese, fecero fallire l’impresa.
Fu finalmente nel 1717 che Clemente XI sollecitò l’inizio dei lavori, incaricando il cardinale Tremouille di scegliere un progetto. Perduto quello presentato da Filippo Juvarra, scartati quelli di Alessandro Gaulli, figlio del celebre pittore Giovan Battista, più noto col soprannome di Baciccio (1639-1709), di Alessandro Specchi (1688-1729) e di Sebastiano Cipriani, fu approvato quello di Francesco de Sanctis, l’architetto prediletto dai religiosi di Trinità dei Monti.
Il 25 novembre 1723, veniva posta la prima pietra, mentre tre artisti dell’Accademia di Francia a Roma, Estache, Bouchardon e Adam, iniziavano a lavorare ai modelli delle statue da collocare sulla gradinata. Terminata nel 1726, con il ritmo ondulato delle balaustre e l’andamento curvilineo delle scale, essa divenne subito il teatro della vita pubblica romana, permettendo un’agevole ascesa al Pincio per godere il panorama di tutta la città.
Roma si arricchì, nel corso del secolo, di grandi realizzazioni urbanistiche e di scenografici completamenti di edifici di culto.
Venne costruita una nuova facciata alla chiesa di San Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma, e progettata una piazza davanti alla chiesa di Sant’Ignazio.
Si provvide inoltre alla realizzazione della facciata di San Giovanni dei Fiorentini (1733-1734), di Santa Maria dell'Orazione e della Morte (1732) e della basilica di Santa Maria Maggiore (1741-1743).
La facciata di San Giovanni in Laterano
La basilica di San Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma, ha una storia lunga e complessa, che dall’imperatore Costantino (280-337) giunge fino ai nostri giorni.
Sorta, secondo la leggenda, a seguito di un voto dell’imperatore durante il pontificato di Silvestro I (314-335) in una zona abitata dall’antica famiglia romana dei Laterani, la chiesa ha conservato ben poco della primitiva costruzione.
Sede del magistero pontificio, durante il trasferimento del papato ad Avignone nel 1304 fu lasciata in uno stato di totale abbandono, che si protrasse anche dopo il cosiddetto "esilio avignonese" terminato nel 1378, poiché al rientro a Roma le venne preferito il Vaticano.
Soltanto con Sisto V (1585-1590) furono decisi radicali interventi di restauro, che si protrassero per tutto il Seicento. Papa Innocenzo X fu il principale artefice della costruzione della nuova chiesa.
In occasione del Giubileo del 1650 venne dato incarico all’architetto Francesco Borromini (1599-1667), uno dei maggiori protagonisti del barocco romano, di procedere al rinnovamento dell’edificio, che proseguì per tutto il secolo successivo.
A soli due anni dall’ascesa al soglio pontificio, Clemente XII Corsini (1730-1740) fece bandire un concorso per realizzare la nuova facciata della basilica, al quale parteciparono numerosi architetti dell’epoca.
Vinse il fiorentino Alessandro Galilei (1691-1736) con un progetto caratterizzato da un rigoroso classicismo ed ispirato, con il portico a cinque arcate corrispondenti alle navate interne, all’architettura romana tardocinquecentesca.
Preceduta da una breve scalinata, la facciata si arricchisce sopra al portico di una loggia, conclusa in alto da una trabeazione con timpano centrale e balaustra che accompagna l’intera lunghezza della basilica.
Qui si innalzano quattordici statue di Santi e Dottori della Chiesa, che fanno da cornice a Cristo benedicente. I lavori furono conclusi nell’arco di tre anni, quasi in contemporanea con la progettazione della cappella Corsini all’interno della stessa chiesa, fatta eseguire anch’essa dal papa a celebrazione del suo casato.
La facciata di Santa Maria Maggiore
Nel 1741 l'architetto fiorentino Ferdinando Fuga avviava i lavori di costruzione della nuova facciata della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, ordinata dal pontefice Benedetto XIV L'idea iniziale prevedeva soltanto il rinnovamento del portico che, come nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, permetteva di vedere i mosaici duecenteschi dell'originario prospetto.
In seguito, sull'esempio della basilica di San Giovanni in Laterano, fu invece deciso di edificare una nuova, grandiosa facciata a doppio loggiato, pur preservando gli antichi mosaici.
Al piano terreno cinque ampie arcate, chiuse da eleganti cancellate, danno accesso al portico dove è collocata una grande statua bronzea di Filippo IV, re di Spagna, benefattore della basilica.
Il loggiato al piano superiore si apre con tre arcatelle sulla piazza: da qui il papa impartiva la benedizione urbi et orbi. La facciata è coronata da statue di santi e pontefici, realizzate dai maggiori scultori del Settecento romano, da Pietro Bracci a Filippo Della Valle, da Giovan Battista Maini a Carlo Marchionni.
Al centro, più in alto di tutte, svetta la Madonna con il Bambino, opera del ticinese Giuseppe Urani. Nel 1743 la costruzione era ultimata: l'effetto finale fu quello di un'architettura ariosa, di un aggraziato barocchetto.
Nacque nel 1771 per iniziativa di Clemente XIV e del suo successore Pio VI, dai quali prese il nome. Esso ospita la collezione papale di scultura greca e romana, raccolta a partire da Giulio II ed esposta nel cortile ottagono dei Palazzi Vaticani.
In essa confluirono molte opere acquistate dallo stesso pontefice Clemente, nel tentativo di arginare l'esodo delle opere d'arte da parte di collezionisti stranieri.
Rifornirono la collezione papale scultori come Bartolomeo Cavaceppi e Vincenzo Pacetti, l'architetto Giovanni Battista Piranesi, il pittore inglese Gavin Hamilton e, ancora, antiquari e collezionisti operanti a Roma.
Il commissario delle Antichità vaticane, Giambattista Visconti, assieme ai figli Ennio Quirino e Filippo Aurelio, promosse importanti campagne di scavo, stimolò la donazione al museo da parte di privati, contrattò i prezzi di acquisto.
Per accogliere la nuova collezione fu scelto il palazzetto del Belvedere di Innocenzo VIII, che già accoglieva nel cortile il vecchio Antiquario delle Statue.
Nella risistemazione dell'edificio non ci si preoccupò di conservare le decorazioni ad affresco della loggia, opera del Pinturicchio, e della cappellina dedicata a San Giovanni Battista, realizzata dal Mantegna.
I lavori di trasformazione iniziarono nel gennaio 1771 e, un anno più tardi, erano quasi ultimati.
Nuove sculture continuavano intanto a entrare a far parte del museo.
Nell'aprile 1772 la principessa di Palestrina, Cornelia Barberini, donava i pezzi più belli della sua collezione, seguita nella sua generosità dal principe Andrea Doria Pamphili.
Tali opere andavano ad aggiungersi al nucleo originario della raccolta, che fin dall'inizio comprendeva straordinari capolavori della scultura antica quali il Laocoonte e l'Apollo del Belvedere.
Alla morte di Clemente XIV, sopraggiunta nel settembre 1774, l'incarico di completare la vasta impresa museale fu ripreso da Pio VI, asceso al soglio pontificio dopo un conclave durato cinque mesi.
Alla ristrutturazione architettonica seguì la decorazione degli ambienti, alla quale furono chiamati Cristoforo Unterberger e Tommaso Conca, assieme a un'équipe di stuccatori e ornatisti.
Il primo volume del catalogo del museo fu pubblicato nel 1783 dal conservatore della raccolta Giambattista Visconti; solo nel 1807 usciva il settimo e ultimo tomo curato da Ennio Quirino Visconti.
Il restauro
Nell'ambito della riscoperta del mondo antico e della vera e propria febbre che spinse i collezionisti a raccogliere reperti d'arte delle civiltà del passato, durante la seconda metà del Settecento si affermò una nuova professione: quella del restauratore di sculture dell'antichità.
Giunta per lo più in stato frammentario, la statuaria necessitava infatti di restauri che ne consentissero la leggibilità e permettessero di apprezzare appieno la bellezza e la grazia di quelle testimonianze artistiche ritenute allora l'apice della perfezione mai più raggiunta dalla creatività umana.
A Roma, epicentro delle memorie dell'affascinante passato, si costituì una vera e propria scuola volta a formare i professionisti del restauro, artisti impegnati nella salvaguardia di un patrimonio sul quale si concentrava l'interesse internazionale.
Sulla scia dell'esempio fornito da Bernini un secolo prima, numerosi scultori si cimentarono nel ripristino della statuaria antica, affiancati adesso da colleghi che, abbandonata l'attività creativa, si dedicavano unicamente al recupero dell'integrità delle opere del passato.