Bobbio è stato al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo della politica del nostro paese nella seconda metà del Novecento: sicuramente quello che ha lasciato il segno più profondo nella cultura filosofico-giuridica e filosofico-politica.
La sua biografia intellettuale viene di solito divi a in due parti: teorico e filosofo del diritto fin ai primi anni settanta, filosofo della politica poi.
Ma questa è una divisione convenzionale.
Anche negli anni del suo insegnamento di filosofia del diritto Bobbio ha scritto saggi memorabili di filosofia politica: su Hobbes su Locke, su Kant, su Marx.
Ed anche negli anni successivi ha continuato ad occuparsi di teoria del diritto.
Del resto Bobbio ha sempre coltivato parallelamente, fin dall'inizio studi di teoria del diritto e studi di filosofia politica.
Dunque, teoria generale del diritto e filosofia politica rappresentano i due terreni principali. distinti e tuttavia connessi, della riflessione e della sterminata produzione di Norberto Bobbio.
Già questo duplice impegno intellettuale e culturale, questa doppia competenza, questa duplice rilevanza ed influenza del pensiero di Bobbio - come teorico e filosofo del diritto e come filosofo della politica - fanno di Bobbio un pensatore originale anche nel panorama internazionale.
Giacché gli studi giuridici e gli studi filosofico-politici non solo in Italia sono sempre stati - per tradizione per formazione di base e per organizzazione accademica - tra loro distanti e separati.
Separati e incomunicanti a causa di una doppia impermeabilità.
Da un lato per l’autosufficienza, l'autoreferenzialità e l’isolamento culturale della scienza giuridica che ha sempre difeso, in nome della sua tradizione millenaria, la propria autonomia dalle altre scienze sociali, sociologiche o politologiche.
Dall'altro per l'inaccessibilità del sapere giuridico ai non giuristi a causa del suo carattere tecnico e specialistico che ha sempre inibito la conoscenza e l'uso delle categorie elementari del diritto ai filosofi della politica dotati di solito di una cultura essenzialmente teorica, filosofica umanistica,
Qui ci sarebbe un lungo discorso da fare sull’organizzazione accademica dei nostri studi. I giuristi leggono solo libri di diritto e i loro libri sono letti soltanto da giuristi.
Per altro verso. l'insegnamento del diritto è assente non solo nella scuola secondaria ma anche nelle Facoltà di filosofia dove non esiste neppure un insegnamento di Diritto pubblico.
Accade così che giuristi e filosofi della politica si occupano esattamente dello stesso oggetto: il potere, le libertà, le istituzioni, i rapporti tra autorità e libertà tra Stato e mercato, l’organizzazione della sfera pubblica. l’amministrazione della giustizia. la redistribuzione della ricchezza, le forme, infine, della democrazia.
Ma se ne occupano con linguaggi diversi, con punti di vista ed approcci diversi - diversi e insieme divisi da un implicito diaframma - e perciò ignorandosi totalmente e talora ostentatamente tra loro.
Il ruolo di Bobbio è consistito nell'aver rotto questo diaframma e nell’aver avviato una duplice opera di alfabetizzazione: nell’aver mostrato ai filosofi della politica la necessità della conoscenza del diritto quale condizione di qualunque teoria della politica e della democrazia.
Giacché le forme e le regole della democrazia - le famose regole del gioco - sono per l’appunto regole giuridiche che danno vita a delicati meccanismi e ad equilibri complessi che è impossibile dominare senza conoscerli dall'interno; e, ancora, nell’aver mostrato ai giuristi il carattere non puramente tecnico-giuridico, ma politico, del loro oggetto come del loro lavoro che non riguarda una neutra tecnologia del potere e dell’organizzazione sociale bensì le forme le condizioni e le garanzie, elaborate e progettate principalmente dal pensiero filosofico-politico, delle libertà e della democrazia.
Nel clima culturale italiano dell’immediato dopoguerra - caratterizzato per un verso da una cultura giuridica arroccata nell’«autonomia del giuridico» e nella difesa del metodo tecnico giuridico quale metodo scientifico e, per altro verso, da una cultura filosofica dominata dalla filosofia idealistica di Croce e Gentile - il rapporto tra scienza del diritto e filosofia politica era semplicemente inesistente.
La scienza giuridica permaneva chiusa nel suo isolamento metodologico, legata al vecchio paradigma giuspositivistico importato dalla pandettistica tedesca ed estesosi dal diritto civile a tutti i rami del diritto: teoria formalistica e letteralistica dell’interpretazione, metodo tecnico-giuridico nella costruzione dogmatica, ferma difesa dell’autonomia epistemologica delle discipline giuridiche e rifiuto di ogni loro contaminazione con le scienze sociali e con la filosofia politica.
Il divorzio dalla filosofia e dalla sociologia era stato formalmente dichiarato e apertamente perseguito, tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento, dalle prolusioni dei grandi maestri, veri manifesti programmatici e metodologici, in tutti i campi del sapere giuridico.
Non solo nel diritto romano e nel diritto civile, ove l’importazione dalla Germania della grande dogmatica pandettistico-romanistica era più ovvia e immediata, ma anche nel diritto pubblico, rapidamente colonizzato dalle dottrine civilistiche.
Fu innanzitutto il diritto costituzionale a subire la colonizzazione civilistica, sulla base di un programma di rifondazione disciplinare che all’adozione del metodo tecnico-giuridico di provenienza civilistica accompagnò, come corollario, l'esplicito ripudio della grande filosofia illuministica e contrattualistica - da Locke a Montesquieu, da Hobbes a Rousseau e a Kant - che pure aveva disegnato i lineamenti del moderno stato di diritto.
Basti ricordare il progetto enunciato da Vittorio Emanuele Orlando, nella sua prolusione del 1889, di bonifica della scienza del diritto pubblico dal «vecchio materiale filosofico» rappresentato dalle «teorie del diritto naturale colle loro dispute eterne, e infecondamente riproducentisi, sull'idea di Stato e di sovranità, sui limiti dell’obbedienza politica, sull'ottima forma dì governo, sulla divisione dei poteri ecc.»
Più tarda, ma ancor più radicale. fu la sterilizzazione filosofica delle discipline penalistiche ad opera del metodo tecnico-giuridico: si ricordi la prolusione di Arturo Rocco Il problema e il metodo della scienza del diritto penale: del 1910 e la dichiarazione anti-filosofica con cui si apre il grande Trattato di diritto penale di Vincenzo Manzini del 1908, ristampato fino ai giorni nostri in decine di edizioni.
Veniva così non solo abbandonata, ma messa al bando, in nome della «scientificità», la nostra più illustre e prestigiosa tradizione filosofico-giuridica, quella illuministica e liberale inaugurata da Cesare Beccaria, sviluppatasi con Gaetano Filangeri, Mario Pagano e Giandomenico Romagnosi e consolidatasi con la Scuola classica di Giovanni Carmignani e di Francesco Carrara.
Ne seguì il trapasso delle discipline penalistiche da una «penalistica civile», di impianto liberale e garantista, a una «civilistica penale» di segno illiberale ed autoritario.
Va aggiunto che quell’autonomia del giuridico dalla politica ebbe anche, negli anni del fascismo, una valenza positiva, essendo servita, soprattutto nell'elaborazione dei codici, a preservare, diversamente che in Germania, il principio di legalità.
Ma è chiaro che questa valenza fu un fattore ulteriore del divorzio tra scienza giuridica formalistica e filosofia politica.
Quanto alla filosofia politica, il suo disinteresse e la sua ignoranza per il diritto sembrano i tratti comuni ad entrambe le culture filosofiche dominanti nel nostro paese nel secolo scorso: la filosofia idealistica, egemonizzata da Croce e Gentile, nella prima metà del secolo, e la cultura marxista nei primi trent'anni del secondo dopoguerra.
In entrambi i casi il diritto è sostanzialmente ignorato e svalutato: epifenomeno per Benedetto Croce, che non riesce neppure a collocarlo in una delle sue due categorie della pratica - l'etica e l'economia - e lo declassò a sottospecie dell'economia; mera sovrastruttura per i marxisti che nei confronti del diritto hanno quasi sempre espresso indifferenza o disprezzo.
C'era poi la filosofia del diritto, che era però una filosofia minore, subalterna alla filosofia del tempo, divisa tra neokantiani e idealisti, dedita alla riflessione speculativa su questioni come l'«universale giuridico» o il «concetto di diritto» o il «principio del diritto», senza mai riuscire e neppure tentare di fungere da tramite tra scienza giuridica e filosofia politica.
Semmai, all’indomani della guerra, taluni filosofi del diritto e giuristi, soprattutto cattolici, approfondirono il fossato adducendo un'ulteriore causa di separazione e di divorzio.
Quello che lo stesso Bobbio ha chiamato «il ritorno del diritto naturale», all'insegna di una dura presa di distanza dal positivismo giuridico, accusato di essere stato responsabile delle degenerazioni totalitarie del precedente ventennio e della stessa catastrofe della guerra.
In questo contesto prende avvio l'opera di Norberto Bobbio dalla teoria generale del diritto alla teoria della democrazia, secondo due direzioni tra loro connesse.
La prima è quella dell distinzioni tra i diversi approcci, sollecitata anche dalla polemica giusnaturalistica, segnata dalla difesa del positivismo giuridico nella sua teorizzazione kelseniana.
La seconda è quella della rifondazione epistemologica della scienza giuridica, segnata dall'incontro con il neopositivismo logico e con l'analisi del linguaggio.
Bobbio opera questa fondamentale distinzione proprio per difendere il positivismo giuridico, come approccio metodologico e come teoria del diritto, contro le accuse di non aver opposto un freno ai totalitarismi e contro la pretesa del giusnaturalismo.
L’importanza e la rilevanza delle istanze di giustizia espresse dal giusnaturalismo, semplicemente le ascrive alla filosofia della giustizia o meglio, alla filosofia politica normativa, riservando alla scienza giuridica lo studio del diritto politico.
E questo sulla base della distinzione elementare tra diritto e giustizia, contro le due possibili ed opposte confusioni della riduzione del diritto alla giustizia operata dal giusnaturalismo e della riduzione della giustizia al diritto operata dal legalismo etico.
La difesa del positivismo giuridico, cioè della positività e dell'artificialità del diritto esistente viene così a coincidere nell’operazione di chiarificazione concettuale di Bobbio con la difesa neo-illuministica e liberale della laicità del diritto e della sua separazione dalla morale, nel solco della grande tradizione filosofica risalente a Hobbes, a Bentham e a Austin e poi, nel sec. XX, a Kelsen e a Hart.
E la separazione tra diritto e morale, a sua volta, viene tradotta e riformulata da Bobbio nei termini della grande tradizione che è sempre stata un postulato della filosofia analitica del linguaggio: la distinzione, separazione tra essere e dover essere, tra fatti e valori - e perciò tra diritto quale è e diritto quale deve essere, tra diritto come fatto e diritto come valore - nonché, correlativamente, tra tesi e discorsi giuridici assertivi e tesi e discorsi sul diritto di tipo prescrittivo valutativo.
Come chiarificazione concettuale, la distinzione tra diritto e morale. tra diritto e giustizia, implicava la distinzione - nel senso di separazione e di reciproca autonomia epistemologica - tra teoria del diritto quale teoria analitica e descrittiva e filosofia politica quale filosofia normativa della giustizia.
Ma la separazione implicava altresì l'affermazione dei valori politici democratici e liberali cui Bobbio resterà sempre fedele.
Ed operava quindi, sotto questo aspetto, come un fattore di connessione: come tesi meta-teorica dotata però di immediata rilevanza teorica, sia per la teoria del diritto che per la filosofia politica.
Essa implica il rifiuto di due opposte e simmetriche confusioni, entrambi di rilevanza politica e precisamente di segno autoritario: della confusione del diritto con la morale e della confusione inversa della morale con il diritto.
Da un lato, dunque, il rifiuto del moralismo giuridico e del cognitivismo etico, cioè dell'idea giusnaturalistica che esista una qualche giustizia oggettiva o sistema di valori ontologicamente fondato, - l'idea che i valori «sono», «esistono» sul piano ontologico - e che il «vero diritto» sia il riflesso di un ordine naturale o razionale quanto meno debba esserlo, traendo dalla corrispondenza ad esso la sua vera e sola legittimazione.
Dall'altro il rifiuto del legalismo etico e dello statalismo etico cioè dell'idea; inversa a quella precedente, che il diritto, lo stato e le istituzioni siano valori in sé, fini a sé medesimi; che le leggi siano giuste perché tali e che dunque il potere abbia un'intrinseca, aprioristica legittimazione; che insomma non esista, rispetto al diritto e allo Stato, un autonomo punto di vista esterno, quello appunto espresso dall'autonomia della coscienza e della morale.
Si capisce l'importanza di questa separazione in un paese come l'Italia e il suo valore emancipatorio rispetto alle culture allora prevalenti: quella cattolica, tendenzialmente giusnaturalistica e giuridico-moralistica, e quella fascista, di stampo etico-statalistico.
Si possono distinguere due significati di questa separazione: in un primo significato, descrittivo, che meglio possiamo chiamare distinzione, essa esprime la tesi che il diritto è altra cosa dalla morale; in un secondo significato, prescrittivo, cui ben possiamo riservare l’espressione separazione, essa esprime la tesi che il diritto non deve essere uno strumento di rafforzamento della morale ma unicamente perseguire finalità di tutela delle persone in carne ed ossa.
La difesa del positivismo giuridico diventa tutt’uno, nel pensiero di Bobbio, con l’affermazione e la difesa di quattro postulati liberal-democratici, i primi due conseguenti alla distinzione, cioè alla separazione in senso assertivo, gli altri due conseguenti alla separazione in senso prescrittivo tra diritto e morale.
Il primo corollario è il riconoscimento dell’artificialità del diritto, cioè del fatto che il diritto è il prodotto di decisioni umane.
Ne consegue da un lato un indicazione metodologica in senso lato realistica: il diritto di cui dobbiamo occuparci è il diritto positivo, del quale dobbiamo riconoscere l’esistenza e/o la validità sulla base delle norme sulla sua produzione, indipendentemente dalla sua giustizia o ingiustizia.
Dall'altro, inversamente, ne risulta che la validità del diritto non ne implica la giustizia e che il diritto positivo non può quindi pretendere una legittimazione etica aprioristica dei suoi contenuti ma solo quella, giuridica e formale, che ad esso proviene dalle forme democratiche della sua produzione.
Il secondo corollario, connesso al primo, è l’affermazione del principio di legalità, del quale l'artificialità è il presupposto necessario pur se non sufficiente.
Solo la produzione artificiale del diritto nelle forme della legge può infatti assicurarne la pre-determinazione convenzionale e, soprattutto, tassativa alla sua applicazione.
In questo senso il principio dì legalità non è solo la norma di riconoscimento del diritto esistente, ma anche il presupposto di tutte le garanzie dello stato di diritto: della certezza, dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, della loro immunità contro l'arbitrio giudiziario e della soggezione al diritto del giudice e, più in generale, di tutti i pubblici poteri.
Il terzo corollario conseguente questo alla separazione tra diritto e morale in senso prescrittivo, è la laicità dello Stato e delle istituzioni politiche: cioè il principio che Stato, diritto e istituzioni non possono a garanzia del pluralismo politico e religioso e insieme dell'autonomia della coscienza morale essere utilizzati come strumenti di affermazione o di rafforzamento di una determinata morale o ideologia ufficiale.
Essi non promuovono se vogliono tutelare l’uguaglianza delle persone e la loro libertà di coscienza e di pensiero, nessuna specifica religione, nessuna particolare etica, nessuna ideologia politica, ma tutte le rispettano indistintamente, senza privilegi né discriminazioni, quali fattori dell'identità delle persone rimessi alla loro autonomia ed immuni da qualunque invadenza eteronoma.
Infine, il quarto corollario, connesso anch'esso alla tesi della separazione in senso prescrittivo, è l’utilitarismo giuridico cioè l’idea illuministica e contrattualistica, hobbesiana ed anti-hegeliana che diritto e stato non sono valori intrinseci: bensì strumenti per finalità ad essi esterne, e cioè per la garanzia della vita e degli altri diritti fondamentali delle persone che sono poi, in democrazia, le stesse dalle quali diritto e Stato sono prodotti.
È così che una tesi di teoria del diritto come è quella della distinzione/separazione tra diritto e morale vale a fondare - con i suoi corollari della positività ed artificialità del diritto della laicità dello Stato e della concezione utilitaristica di entrambi quali strumenti di tutela dei diritti fondamentali - altrettante tesi della filosofia politica bobbiana.
La seconda direzione nella quale si muove l'opera di Bobbio teorico del diritto è quella della rifondazione epistemologica della scienza giuridica.
La specificità e l'originalità del contributo bobbiano, rispetto alla cultura giuridica e filosofica internazionale, è nell'aver introdotto la teoria del diritto e il normativismo kelseniano, simultaneamente alla filosofia analitica, rivendicandone uno spazio distinto ed autonomo dalla filosofia normativa della giustizia: quale studio del «diritto che è», distinto da quello del «diritto che deve essere».
Col saggio Scienza del diritto e analisi del linguaggio (1950), segna la nascita, non solo in Italia, della filosofia giuridico-analitica, che è tuttora la corrente di pensiero più rilevante dell filosofia del diritto.
Sotto questo aspetto è un manifesto teorico e programmatico.
Utilizza l’analisi del linguaggio, e precisamente di quello specifico linguaggio che è il linguaggio del legislatore come metodo sia dell'interpretazione operata del diritto sia dell'elaborazione dogmatica della scienza giuridica.
È il primo filosofo che ha introdotto nella cultura italiana, ancora egemonizzata dall'idealismo crociano la filosofia analitica, il neopositivismo logico, la filosofia della scienza e l'analisi del linguaggio.
L'importanza di questo saggio e degli altri due lavori epistemologici dello stesso anno - il corso Teoria della scienza giuridica e il saggio Filosofia del diritto e teoria generale del diritto - risiede non solo nell’utilizzare gli strumenti metodologici del neopositivismo logico e dell’analisi del linguaggio, ma prima ancora, nell'aver fondato, in questo modo, un autonomo e specifico spazio della teoria del diritto entro la scienza giuridica di orientamento giuspositivista sia sul piano epistemologico sia su quello metodologico.
L’approccio metodologico analitico consente infatti la distinzione non soltanto tra scienza del diritto quale scienza empirica e descrittiva e filosofia normativa della giustizia, ma anche, all'interno della scienza giuridica, tra teoria generale del diritto e discipline giuridiche particolari: la prima concepita come teoria formale, non ancorata ai contenuti normativi dei singoli ordinamenti ma diretta a identificare le forme o strutture di qualunque ordinamento giuridico positivo, le seconde identificabili con la dogmatico giuridica dei singoli ordinamenti diretta all'esplicazione e alla sistemazione dei loro specifici contenuti nomativi.
Questa differenziazione deriva, probabilmente, dalla caratterizzazione della teoria generale del diritto come teoria «formale», che si occupa dei «problemi concernenti la struttura normativa del diritto», e della dogmatica giuridica come insieme delle discipline particolari che studiano il vario contenuto delle norme di un dato ordinamento, sulla base dell'interpretazione degli enunciati linguistici nel quale sono formulate.
Alla teoria del diritto si conviene perciò il metodo convenzionalistico della costruzione di concetti come «norma», «ordinamento», «obbligo », «divieto», «diritto oggettivo», «validità», «efficacia» e simili, il cui significato non è dettato da norme di diritto positivo ma stabilito da teorie mediante definizioni stipulative entro un sistema teorico dotato al tempo stesso di una sintassi, cioè di una coerenza assicurata dall'impiego della logica formale, e di una semantica, cioè di portata empirica e capacità esplicativa non già di questo o quell’ordinamento ma della struttura dei diversi ordinamenti indipendentemente dai loro contenuti.
Alla dogmatica giuridica delle discipline giuridiche particolari e all’interpretazione giudiziale si convengono invece - nella ridefinizione e nell'utilizzazione di concetti come « mutuo » «compravendita», «furto», «truffa» e simili, il cui significato è dettato direttamente da norme di diritto positivo - i metodi dell’analisi del linguaggio.
È su questa base che Bobbio promuove la rifondazione della scienza giuridica: teoria formale del diritto di impianto convenzionalistico sul modello kelseniano da un lato, analisi del linguaggio nella dogmatica giuridica e nell'applicazione della legge dall'altro.
E crea lo spazio metodologico della teoria come spazio distinto dalla dogmatica giuridica: concetti come norma, ordinamento, validità, diritto soggettivo e simili, ripeto, appartengono alla teoria perché frutto di definizioni convenzionali, e non già alla dogmatica giuridica, i cui concetti sono ancorati al dettato legislativo e perciò elaborati tramite ridefinizioni lessicali, frutto dell’analisi del linguaggio legale oggetto d'interpretazione e di esplicazione.
Purtroppo l’incontro con la scienza giuridica non è avvenuto se non in minima parte.
Lo ha impedito la millenaria tradizione della scienza giuridica attestata nella difesa della sua «autonomia», vittima essa stessa di una sorta di sicumera dei giuristi non disposti a ricevere lezioni di epistemologia e di metodologia dai filosofi del diritto.
L'incontro della teoria del diritto che non è avvenuto, nella cultura giuridica, con le discipline giuridiche dogmatiche, è invece avvenuto con la filosofia politica.
La separazione tra diritto e morale, ovvero tra diritto e giustizia, forma la base della laicità delle istituzioni politiche, dei limiti ad esse imposti dalle libertà individuali del loro carattere di strumenti, grazie appunto alla loro forma giuridica, per fini ad esse esterni e precisamente per la tutela dei diritti fondamentali.
Anche nella filosofia politica, introduce il metodo dell'analisi del linguaggio e delle chiarificazioni e distinzioni concettuali attraverso l'analisi dei concetti comuni alla teoria del diritto e alla teoria politica.
Questa mediazione è sviluppata attraverso l’uso teorico delle categorie dei classici della filosofia politica, da Hobbes a Locke, da Montesquieu a Rousseau sino a Kant.
Bobbio fa uso dei testi dei classici che certo non conoscevano le partizioni accademiche, di teorie al tempo stesso giuridiche e politiche, come i concetti. comuni alla teoria del diritto e alla filosofia politica, di libertà, di potere, di uguaglianza, di autorità, di diritti, di persona, di popolo, di pace, di guerra, di violenza, di Stato, di separazione dei poteri e di stato di diritto.
Ma il vero terreno di incontro - o forse, dovremmo dire, di scontro - tra teoria del diritto e filosofia politica avviene proprio attraverso la critica mossa da Bobbio alla carenza di cultura giuridica e al vuoto di teoria del diritto che erano propri della filosofia politica dominante negli anni settanta: il marxismo.
Mi riferisco alla polemica sulla democrazia del 1976 - introdotta dal saggio Esiste una dottrina marxista dello Stato? e poi Quali alternative alla democrazia rappresentativa?- che si collega idealmente a un’altra polemica quella di vent'anni prima sulla libertà con Galvano Della Volpe.
In entrambi i casi il confronto non è solo tra approccio liberale e approccio rnarxista.
È un confronto, prima ancora, tra approccio analitico e approccio sintetico; tra approcci logico-empiristico e approccio metafisico.
Esiste una teoria marxista dello Stato? è la domanda provocatoria di Bobbio con cui si apre la polemica: una domanda provocatoriamente retorica perché colpisce al cuore una lunga secolare tradizione filosofico-politica che ha riempito le biblioteche di migliaia di libri e riviste senza tuttavia produrre nient'altro che una letteratura sterminata sui pochi scritti politici di Marx e su Stato e rivoluzione di Lenin.
Non esiste, infatti, una teoria marxista dello stato, così come non esiste una teoria marxista del diritto.
Esiste, scrive Bobbio, oltre a un’infinità di saggi, di dibattiti e scontri, a base prevalentemente di citazioni di Marx e di Lenin e perciò di richiami al principio di autorità, una teoria dell’estinzione così del diritto come dello Stato, cioè una sorta di profezia, una previsione un'aspettativa palingenetica di un ipotetico futuro.
E, ciò che è più grave, questa prospettiva non soltanto è un fattore di vuota legittimazione e di rimozione dei problemi in vista di un utopistico futuro, ma comporta anche la consacrazione - anche per il futuro - di quello che è stato il più grande errore teorico e strategico del comunismo reale: la svalutazione del diritto quale insieme di regole, limiti e controlli al potere politico, e perciò la fiducia in un potere buono che sarebbe destinato ad affermarsi con la vittoria del soggetto rivoluzionario.
Bobbio mette allo scoperto l’assenza del diritto nell’intera cultura filosofico-politica della sinistra: una carenza cui il marxismo non solo non è estraneo ma di cui è stato addirittura un artefice, avendo teorizzato l'irrilevanza appunto, quando non il disprezzo, per il diritto.
Questo dibattito apre ufficialmente, in Italia, la crisi del marxismo politico.
Bobbio ci fa improvvisamente scoprire il vuoto di teoria del diritto cheè sempre stato proprio del marxismo politico: non esiste, egli mostra, una teoria marxista dello Stato perché non esiste una teoria marxista del diritto, cioè delle regole che dovrebbero disciplinare e garantire una democrazia socialista.
Questo vuoto inficia l'intera teoria marxista del socialismo ed è responsabile del fallimento storico di tutti i comunismi realizzati; che la dottrina politica marxista-leninista della dittatura del proletariato altro non è che l'ennesima versione del governo degli uomini (supposti buoni e immancabilmente pessimi) in alternativa al governo delle leggi; l'utopia comunista si è per questo rovesciata, come Bobbio ha scritto, nell'«utopia capovolta».
È una crisi radicale che non ha precedenti nella storia del marxismo.
È dunque questo nesso razionale - metateorico, teorico e pratico - tra diritto e democrazia, tra teoria del diritto e teoria politica della democrazia l'altro grande insegnamento metodologico di Bobbio
Lo stato di diritto e la democrazia sono costruzioni giuridiche.
Dipendono dalle regole del gioco che vengono adottate. Bobbio è un convinto assertore della separazione tra diritto e morale e tra diritto e giustizia.
Il diritto non implica la giustizia né tanto meno la democrazia. E tuttavia non vale secondo Bobbio, la non implicazione inversa.
La giustizia, o quanto meno quel sistema di principi e di valori che chiamiamo democrazia, implica il diritto: può ben esserci ovviamente diritto senza democrazia, ma non può esserci democrazia senza diritto, cioè senza forma giuridica.
Giacché la democrazia è un insieme di regole - le regole del gioco, appunto - e queste regole sono regole giuridiche: non qualunque regola, ma le regole costituzionali che assicurano il potere della maggioranza e insieme i limiti al potere di maggioranza.
Tuttavia Bobbio non muove per pregiudiziali ideologiche contro i valori più significativi espressi dalla teoria marxista.
In Politica e cultura che risale alla prima polemica con i comunisti scrive:
«Se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità privata, o ci saremmo messi al servizi dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di buttarsi in mare avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose»
Una partecipazione collettiva e non coercitiva alle decisioni comunitarie, una contrattazione delle parti, l'allargamento del modello democratico a tutto il mondo, la fratellanza fra gli uomini, il rispetto degli avversari, l'alternanza senza l'ausilio della violenza, una serie di condizioni liberali, vengono indicati da Bobbio come capisaldi di una democrazia, che seppur cattiva, è preferibile a una dittatura.
Questo non significa che la cautela critica sulla democrazia non debba tenere ben salda la vigilanza sul corretto esercizio della sovranità democratica, cioè sulla centralità del parlamento a partire dal Bill of rights del 1689.
In una conferenza tenuta a Roma alla presenza di Piero Calamandrei, il 7 aprile del 1946, la relazione di Norberto Bobbio denunciò la perdita di centralità delle istituzioni parlamentari già nel modello Westminster.
Il tema sarebbe stato ripreso, per un paragone con la democrazia bloccata del regime parlamentare italiano, dallo stesso Bobbio vent'anni dopo, in una relazione a un convegno del Movimento Salvemini (14-15 maggio 1966).
Bobbio sosteneva che se la forma di governo parlamentare è «quel regime in cui organo sovrano è il parlamento» e il governo deve essere «responsabile esclusivamente di fronte a esso», il regime inglese «non è più un regime parlamentare», per effetto del progressivo allargamento del suffragio.
Il «centro politico» del sistema si sarebbe spostato dal Parlamento ai partiti e al governo, che è «l’emanazione del partito di maggioranza», per cui il Parlamento si presenta oramai soltanto come un «ponte di passaggio», un «tratto d’unione tra due centri politici», «un canale di collegamento tra popolo e governo».
Il governo è «espressione del partito di maggioranza» ed essendo «composto dai capi del partito (...) non è più la Camera dei Comuni che controlla il governo, ma il governo che controlla la Camera dei Comuni».
Ne deriva che «il parlamento non è più un’assemblea sovrana»; pur avendo perduto la sua originaria centralità istituzionale, mantiene però una funzione fondamentale: è «un’assemblea di dibattiti (...) parla ma non decide. Le questioni le discute ma non le risolve esso stesso; i progetti li critica ma al fine li approva».
La morale è che, per un efficiente funzionamento del sistema istituzionale dello Stato, c'è per il filosofo torinese «la necessità di grandi partiti democraticamente organizzati al servizio della democrazia»: è questa la migliore garanzia «di un governo forte», che, come avviene nei sistemi di democrazia occidentale evoluta, non «corra il pericolo di trasformarsi in governo dittatoriale».
Alla radice della questione riemerge que contratto sociale che regge l'intera architettura liberal-democratica che può poggiare solo sulla responsabilità del legislatore e sulla vigilanza critica dei cittadini:
«Il progresso umano - scrive Bobbio richiamandosi a Kant - non è necessario. È soltanto possibile».
Ma esso dipende anche dalla nostra «fiducia nella virtù e nella forza del movente morale» e dal nostro rifiuto di dare per scontate «l’immobilità e la monotona ripetitività della storia»:
«Rispetto alle grandi aspirazioni dell'uomo» formulate nelle tante carte e dichiarazioni dei diritti, egli avverte, «siamo già troppo in ritardo. Cerchiamo di non accrescerlo con la nostra sfiducia con la nostra indolenza col nostro scetticismo. Non abbiamo tempo da perdere. La storia, come sempre, mantiene la sua ambiguità procedendo verso due direzioni opposte: verso la pace o verso la guerra, verso la libertà o verso l’oppressione. La via della pace e della libertà passa certamente attraverso il riconoscimento e la protezione dei diritti dell'uomo ... Non mi nascondo che la via è difficile. Ma non ci sono alternative».
Nel 1994 esce l'opera Destra e sinistra, nella quale Bobbio focalizza le differenze fra le due ideologie e i due indirizzi politico-sociali; la destra, secondo l'autore, è caratterizzata dalle tendenze alla disuguaglianza, al conservatorismo ed è ispirata da interessi, mentre la sinistra persegue l'uguaglianza, la trasformazione, ed è sospinta da ideali. In quest'opera, Bobbio si esprime anche in favore dei diritti animali.
Contrario alla figura dell'intellettuale «Profeta», preferendo il ruolo del «Mediatore» impegnato «nella difficile arte del dialogo», il suo atteggiamento teoretico fu segnato da una positiva «ambivalenza» fra una posizione realista e una idealista che non rifuggiva le complessità del discorso, ricorrendo sovente al paradosso:
«Mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me.»
(Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, p. 8.)
Nell'opera L'età dei diritti (1990), Bobbio individua i diritti fondamentali che consentono lo sviluppo di una democrazia reale e di una pace giusta e duratura.