Hume era pervenuto a una conclusione scettica perché, conoscendo noi solo i fenomeni dell'esperienza (cioè le impressioni che ci derivano dai sensi), non potremo mai sapere se tali fenomeni corrispondono o meno alle cose così come sono in se stesse (e addirittura se ci siano tali cose in sé). Così impostato il problema è effettivamente insolubile e la conoscenza umana si avvolge in paradossi e contraddizioni insormontabili.
Ma ciò, secondo Kant, accade perché sin dall'inizio la filosofia ha preteso di modellare la conoscenza sugli oggetti. Non si è invece riflettuto sull'altra possibilità, e cioè che siano invece gli oggetti dell'esperienza a doversi modellare sul soggetto, vale a dire sul suo modo di conoscere.
È questa conversione dall'oggetto al modus cognoscendi del soggetto che viene chiamata la "rivoluzione copernicana di Kant". Infatti, come Copernico si provò a spiegare i moti celesti, non partendo dalla supposizione che tutti gli astri girino intorno alla Terra (come sembra al senso comune), ma che sia la Terra a girare intorno, lasciando, dice Kant, «le stelle in riposo», così noi possiamo supporre che non sia il nostro modo di conoscere a modellarsi sugli oggetti, ma che siano gli oggetti a modellarsi sul nostro modo di conoscerli.
Tale capovolgimento è la base della generale "critica" (cioè "analisi") della ragione che Kant si propone di condurre. Tale critica, indagando i limiti e insieme le capacità peculiari della ragione umana, deve dare risposta a una serie di interrogativi decisivi.
Innanzi tutto deve chiarire come sia possibile la scienza della natura (superando, se è possibile, le conclusioni scettiche di Hume). Poi deve chiedersi se ed eventualmente come sia possibile la metafisica come scienza, o quanto meno spiegare il motivo del secolare fallimento di questa scienza la quale, dice Kant, dal tempo di Aristotele non ha compiuto alcun reale progresso.
L'analisi kantiana della ragione mette capo alla fondamentale scoperta di alcune forme che appartengono al soggetto conoscente indipendentemente dall'oggetto conosciuto. Tali forme sono perciò presenti nel soggetto a priori, vale a dire: esse non derivano dall' esperienza degli oggetti. Per di più esse sono anche trascendentali: non solo non derivano dall' esperienza, ma sono anche costitutive della forma dell' esperienza stessa.
Queste forme appartengono sia al conoscere sensibile, cioè, come dice Kant, alle "intuizioni", sia alle forme del conoscere intellettivo, cioè ai "concetti" e ai "giudizi".Consideriamo anzitutto le forme del conoscere sensibile (cioè, come dice Kant, l"'Estetica trascendentale", che contiene la teoria della conoscenza sensibile). Esse sono lo spazio e il tempo. Spazio e tempo (questa la prima grande scoperta kantiana, già annunciata nella Dissertazione del 1770, anno, come disse Kant, della "gran luce") non appartengono agli oggetti, ma sono modi in cui il soggetto ordina e unifica le impressioni materiali, i dati sensibili che ci derivano appunto dai sensi
In altri termini, noi sperimentiamo le cose nello spazio e nel tempo e non lo spazio e il tempo; spazio e tempo sono forme strutturali delle esperienze che sempre facciamo, non cose che derivino dall'esperienza.
In particolare: lo spazio è la forma di tutti i "fenomeni" esterni; il tempo è la forma di tutti i "fenomeni" interni. I fenomeni sono dunque gli oggetti unificati nell'intuizione dello spazio (senso esterno) e nell'intuizione del tempo (senso interno).
Come si vede i fenomeni, cioè i contenuti sensibili di ogni nostra esperienza, non sono cose in sé, ovvero cose la cui esistenza è indipendente dal soggetto che intuisce sensibilmente. Di tali cose in sé noi non facciamo esperienza; ciò di cui facciamo esperienza sono appunto e sempre i fenomeni. Il loro contenuto materiale non dipende da noi, ma la loro forma sì. Quale che sia il contenuto di qualsivoglia intuizione possibile, io posso predire in modo universale e necessario che si tratterà comunque di qualcosa di spaziale e di temporale, perché fuori di queste condizioni non è a me possibile fare esperienza alcuna.
Per esempio: non posso sapere quali contenuti sensibili incontrerei se andassi su Marte; ma che questi contenuti avrebbero comunque la forma di fenomeni spaziali e temporali posso prevederlo sin d'ora, poiché questa condizione soggettiva mi accompagna anche su Marte; essa è la condizione di ogni esperienza per me possibile, presente e futura.
La conoscenza sensibile, o intuizione, ci fornisce i fenomeni dell' esperienza, ma non ancora gli "oggetti" propriamente detti. L'intuizione, presa astrattamente da sola, è "cieca", dice Kant. L'esperienza sensibile modifica il soggetto senziente, ma ancora non lo pone di fronte a "cose" determinate. È come se vedessi colori, ma non cose colorate ecc.
Questo non toglie che l'intuizione sensibile è indispensabile al conoscere, poiché il pensiero, ovvero l’"intelletto", come dice Kant, senza l'apporto dell'intuizione è "vuoto".
Intuire e pensare, secondo Kant, sono dunque due modi distinti di conoscere. La sensibilità non può pensare e l'intelletto non può intuire (cioè non può darsi da sé dei contenuti sensibili: non posso scoprire o decidere con il pensiero quali esperienze sensibili farò su Marte e neppure quelle che farò tra un istante).
Questo significa che intuire e pensare devono agire insieme; ed è appunto quello che di continuo fanno.
Così come la sensazione ordina i suoi dati materiali nello spazio e nel tempo, l'intelletto ordina i fenomeni dell'intuizione sensibile unificandoli in giudizi. È questa la funzione che Kant studia nella sezione della Critica della ragione pura chiamata" Analitica trascendentale".
Per esempio noi diciamo: «Ecco una casa». Il che significa che l'insieme di sensazioni che riceviamo qui e ora viene immediatamente unificato nel giudizio (espresso o inespresso): «questo insieme di fenomeni è quell'oggetto che chiamiamo "casa"». Questa è dunque la funzione dell'intelletto o del pensiero.
Quanti tipi di giudizi sono però possibili? Kant assunse questo filo conduttore del giudizio, in quanto attività emblematica del pensiero conoscitivo, per scoprire le forme a priori e trascendentali dell'intelletto: lavoro immenso che Kant impiegò dieci anni a condurre in porto. Alla fine si convinse che ogni possibile giudizio è l'effetto di dodici funzioni dell'intelletto che, secondo l'uso della tradizione, chiamò" categorie". Dodici funzioni divise in quattro gruppi come segue:
Categorie della quantità: unità, pluralità, totalità.
Categorie della qualità: realtà, negazione, limitazione.
Categorie della relazione: sostanza, causa, azione reciproca.
Categorie della modalità: possibilità e impossibilità, esistenza e non esistenza, necessità e contingenza.
Ecco dunque la famosa "tavola delle categorie dell'intelletto", cioè delle forme trascendentali del pensiero. Cerchiamo di comprendere chiaramente la loro funzione.
In quanto attività del soggetto, anche il pensiero, come la sensazione, opera unificando i dati materiali dell' esperienza secondo alcune funzioni formali a priori e trascendentali, costituendo in tal modo il senso "oggettivo" delle nostre conoscenze.
Anche in questo caso potremmo dire che, inviati su Marte, non solo incontreremmo necessariamente dei fenomeni spazio-temporali, ma anche delle "cose" e delle "relazioni" che sono formalmente pre-decise dalle nostre capacità di pensiero e cioè di giudizio. Non potremmo quindi sapere, senza fame diretta esperienza, cosa ci troveremmo a incontrare, ma, da un punto di vista formale e generale, già sappiamo che non potremmo che incontrare una pluralità di oggetti, cioè di cose ("sostanze") che stanno tra loro in relazioni necessarie o contingenti, come cause ed effetti, oppure come scambi reciproci d'azione e così via.
Questi modi di unificare i dati dell' esperienza secondo categorie non sono proprietà delle cose in sé, ma dei fenomeni che cadono sotto il nostro giudizio conoscitivo: fenomeni che sono "oggettivi" nel senso che essi competono a ogni essere umano razionale e senziente e ne determinano trascendentalmente, cioè in modo costitutivo a priori, l'esperienza.
Abbiamo parlato sinora delle forme del conoscere, cioè di forme della sintesi dell'esperienza (intuizioni e giudizi). Ma chi sente, chi giudica? Chi mette concretamente in opera queste pure forme trascendentali?
A questo punto dobbiamo analizzare la concreta attività sintetica del pensiero: ciò che Kant chiama "appercezione trascendentale", la quale corrisponde all'attività dell'autocoscienza (in questo senso Kant usa il termine "appercezione" , cioè percezione riflessa su di sé, termine già usato in un senso affine da Leibniz).
È dunque l'autocoscienza, ovvero, come dice Kant, l"'Io penso", che unifica in sé tutti i fenomeni dell'esperienza, riferendoli appunto a se stessa. È l'Io penso che intuisce i fenomeni nello spazio e nel tempo e che li unifica in giudizi in base a categorie.
Ma l'Io penso non è a sua volta da intendere come una "cosa"; esso è una funzione e anzi una duplice funzione. Anzitutto una funzione "analitica": quella per la quale l'Io penso accompagna ogni contenuto dell'esperienza, così che esso possa essere "mio", cioè effettivamente esperito. È poi anche una funzione "sintetica", poiché l'Io penso deve restare identico a se stesso, pur nel mutare continuo dei fenomeni dell'esperienza. In caso contrario non potrebbe darsi una "mia" esperienza e quindi, in generale, l'esperienza.
L'attività dell'Io penso, cioè del pensiero, manifesta pertanto, come si è detto, un duplice aspetto unificante: è unità analitica dell'autocoscienza (essa accompagna uno per uno tutti i contenuti dell'esperienza) ed è unità sintetica dell'autocoscienza (essa si unifica di continuo con se stessa come polo unitario del divenire delle esperienze).
Ora possiamo comprendere che è questa unità trascendentale del pensiero, questa soggettività trascendentale (da non confondere con la soggettività psicologica, poiché stiamo parlando della funzione universale del pensiero che è propria in generale di tutti gli esseri umani), il vero perno della rivoluzione copernicana di Kant: ciò per cui i contenuti o i dati dell'esperienza mi si manifestano come fenomeni, soggetti alle forme dello spazio, del tempo e delle categorie.
Approfondimento
Questa attività sintetica è esattamente il processo della conoscenza umana. La deduzione trascendentale consiste nel provare che non c’è conoscenza senza l’attività di sintesi che è il principio dell’attività dell’intelletto. L’intelletto è il principio unificatore attraverso l’attività delle categorie: unificare è dunque sinonimo di attività intellettuale. Da qui il concetto di appercezione trascendentale con cui Kant individua il concetto di Io penso. Appercezione trascendentale significa che stiamo parlando della condizione a priori dell’attività di pensiero e di giudizio. Noi pensiamo nel momento in cui applichiamo le categorie all'esperienza che ci arriva attraverso le intuizioni sensibili.
Dunque l’io penso così come Kant lo individua ci dice tre ordini di cose:
1. Io penso significa semplicemente che se noi unifichiamo l’esperienza attraverso i giudizi abbiamo la possibilità di pensare, cioè di unificare l’esperienza. Sarebbe a dire che abbiamo la possibilità di dare una spiegazione unitaria a una molteplicità di intuizioni sensibili spazio temporali. Per proseguire con l’esempio di poc'anzi, la teoria astronomica è una teoria che unifica tutti i fenomeni legati ai comportamenti della terra nel sistema solare. Sviluppa tramite l’intelletto e le sue categorie l’unità del sapere che chiamiamo astronomia. L’appercezione trascendentale è la consapevolezza che la condizione di possibilità di un pensiero razionale sulle intuizioni sensibili si origina dunque nell'io e nel suo pensiero. Su questo si basa l’analitica trascendentale e lo sviluppo della tavola delle categorie.
2. In secondo luogo l’io penso dell’appercezione trascendentale dice anche che dietro ogni pensiero razionale c’è un io e che questo io non è un fatto accidentale ma è un fulcro dell’attività conoscitiva. Ogni io penso, cioè ogni uomo pensante, è consapevole della sua attività di pensiero nel senso che riconosce in se stesso e nella proprio attività intellettuale il principio della razionalità e del suo sviluppo nella scienza. Questo è il principio dell’unità sintetica: l’io penso è il principio dell’unità sintetica perché rende unitaria l’attività pensante. Da non confondere dunque col fatto che il pensiero è unificazione mediante le categorie perché questo è il principio dell’analitica. Qui unità è in senso forte l’identità di un io che pensa: unità significa che è sempre lo stesso io che pensa quando svolge la sua attività. Sono io il soggetto della mia attività razionale.
3. Ma quest’ultima affermazione deve essere immediatamente precisata. Quando affermiamo l’appercezione trascendentale, cioè la consapevolezza a cui ognuno può giungere della propria facoltà di pensiero, non ci riferiamo alla coscienza di noi stessi e dei nostri pensieri immediatamente colti. Questa coscienza immediata che noi possediamo del fluire dei pensieri ma anche dell’immaginazione, degli stati d’animo e del nostro corpo non è la coscienza trascendentale dell’io penso. In questo caso concreto dobbiamo ricordare la legge generale che Kant ha imposto alla conoscenza: c’è conoscenza vera, cioè scienza sperimentale, solo nell'unione delle categorie con l’esperienza. Dunque solo attraverso lo spazio e il tempo. Nel caso dell’esperienza interiore non cambia nulla. Il principio dell’intuizione sensibile è necessario anche per l’esperienza di noi stessi che Kant attribuisce al tempo. La nostra coscienza immediata è un fluire, nel tempo, di stati d’animo, pensieri ecc. Dunque passa attraverso l’intuizione sensibile del nostro io. Mentre l’io penso come disegnato da Kant esprime, esattamente come le categorie, la condizione di possibilità del pensiero che sintetizza e che procede unitariamente nella sua attività all'interno di ogni singolo io. Questo non significa dunque che noi siamo immediatamente consapevoli di questo fatto nell'esperienza che abbiamo di noi stessi perché questa esperienza è legata all'intuizione sensibile (tempo) e non è la coscienza di un puro pensiero. Il pensiero come possibilità noi lo scopriamo trascendentalmente, verificando cioè la realtà razionale che applichiamo all'esperienza e risalendo a ritroso sino a capire da dove scaturisce la nostra capacità razionale.
Resta però un ulteriore problema, che è quello dell'applicazione concreta delle categorie (che sono forme universali del pensiero) al molteplice fenomenico della sensibilità (che è costituito invece da contenuti contingenti e individuali). Per esempio: come accade che l’Io penso passi dalla pura e generalissima categoria della sostanza a questo individuo concreto, a questo uomo o a questa casa che, pur essendo entrambi "sostanze" ovvero "cose" dal punto di vista delle categorie, sono nondimeno realtà fenomeniche così differenti tra loro?
Kant introduce in proposito, fra le categorie e le intuizioni, gli "schemi". Si tratta di determinazioni a priori intermedie e particolari (tra l'universale della categoria e l'individualità dell'intuizione); determinazioni prodotte da una facoltà che Kant chiama "immaginazione produttiva"; facoltà trascendentale che è una via di mezzo tra l'intuire e il giudicare.
Per esempio: tra la categoria della quantità e una molteplicità concreta di oggetti empirici si inserisce lo schema del numero, cioè (analogamente a tutti gli schemi, uno per categoria) una determinazione della forma del tempo (in questo caso: 1+1+1...), essendo la forma del tempo la condizione più universale del darsi dei fenomeni alla coscienza, ovvero all'Io penso. Non c'è fenomeno infatti che non sia anzitutto fenomeno temporale, cioè oggetto di una sintesi intuitiva e intellettuale operante in successione nella coscienza.
Tuttavia Kant dovette riconoscere l'impossibilità di chiarire in modo adeguato come operi la supposta immaginazione trascendentale produttrice di schemi: un'arte, egli dice, nascosta nel più profondo della natura umana. È questo il problema dello "schematismo" che verrà ripreso dalla successiva filosofia idealistica.
Come già si è accennato, le forme a priori del conoscere (spazio, tempo e categorie, con i loro schemi applicativi) garantiscono l'universalità della conoscenza. In quanto condizioni trascendentali del darsi di ogni oggetto possibile, esse ci assicurano a priori che, quale che sia la materia del conoscere che incontriamo nell'esperienza, l'oggetto esperito dovrà assumere una collocazione spazio-temporale e fungere da punto di riferimento per un giudizio di quantità, di qualità, di relazione o di modalità (i quattro titoli delle dodici categorie).
L'oggetto, cioè, dovrà rivestire la forma del conoscere che è propria del soggetto conoscente umano, essendo questa la condizione universale e necessaria del suo poter essere esperito. È solo così, infatti, che sorgono per noi gli oggetti dell'esperienza comune e quotidiana.
Approfondimento
Per esemplificare: lo schema delle categorie di quantità (unità, pluralità, totalità) è il numero (infatti un oggetto è pensabile come "quantità" solo attraverso la misurazione, che implica l'addizione di unità nel tempo). Lo schema delle categorie di qualità (realtà, negazione, limitazione) è il grado di intensità (cioè il variare dell'intensità della sensazione nel tempo).
Fra le categorie di relazione, lo schema della sostanza (inerenza) è «la permanenza del reale nel tempo», mentre lo schema della causalità è la «successione del molteplice, in quanto soggetto a una regola»: il che vuol dire che è possibile applicare la categoria di causalità (concetto puro) ai fenomeni (intuizioni) solo attraverso lo schema di una successione regolare di eventi nel tempo. Kant può così dire che «gli schemi dei concetti puri dell'intelletto sono le vere e sole condizioni che conferiscono loro una relazione con gli oggetti, e con ciò un significato».
Con lo schematismo si è chiarito che la costruzione, da parte del soggetto, del mondo dell'esperienza implica la stretta integrazione fra sensibilità e intelletto e un ineliminabile riferimento alla dimensione temporale. Vediamo ora come tale risultato emerga nella trattazione dei princìpi.
Dato che i princìpi, come abbiamo visto, non sono altro che regole dell'uso oggettivo delle categorie attraverso gli schemi, Kant ne desume il sistema a partire dalle categorie stesse.
a) Il principio degli assiomi dell'intuizione (categorie della quantità) è: «tutte le intuizioni sono quantità estensive». Gli oggetti vengono intuiti nello spazio e nel tempo come aggregazioni di parti, ovvero come "quantità". La quantità, quindi, non è una proprietà dei fenomeni, ma il modo in cui i fenomeni stessi divengono oggetti di esperienza; detto altrimenti, noi conosciamo gli oggetti quantitativamente. Questo principio è di importanza notevole, perché è quello che permette di applicare la matematica alle scienze della natura, come avviene nella fisica matematica.
b) Il principio delle anticipazioni della percezione (categorie della qualità) è: «In tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha una qualità intensiva, cioè un grado». Questo principio stabilisce la regola per cui è possibile la misurazione delle variazioni qualitative (nell'intensità) di un fenomeno (per esempio la temperatura) dal momento che esiste una continuità del mutamento fisico, cioè nel passaggio da un grado all'altro di intensità. Perciò Kant parla qui di "anticipazioni" della percezione, nel senso che, in forza di questo principio, è possibile prevedere le caratteristiche di percezioni future.
c) Il principio delle analogie dell'esperienza (categorie della relazione) è il seguente: «L'esperienza è possibile soltanto mediante la rappresentazione di una connessione necessaria delle percezioni». Con i due princìpi precedenti si chiariva la possibilità di applicare la matematica ai fenomeni considerati separatamente; qui si tratta invece di fissare i princìpi che rendono possibile la determinazione dei rapporti fra i diversi fenomeni, in una parola le leggi. Il termine "analogia" è desunto dalla matematica, dove esso significa "proporzione", ovvero la possibilità, dati tre termini noti in relazione fra loro, di trovarne un quarto non noto. Le "analogie dell'esperienza" non ci danno il termine ignoto, non ci dicono, per esempio, quale sia la causa di un determinato fenomeno; ci dicono però che, dato un evento, ne esiste un altro che ne è la causa e che si trova con esso in una determinata relazione temporale. I rapporti fra i fenomeni avvengono sempre nel tempo: le "analogie" sono le regole che permettono di fissare rapporti oggettivi temporali fra i fenomeni e, in quanto tali, rendono possibile la conoscenza scientifica. Tre ordini di rapporti sono istituibili tra i fenomeni: di permanenza, di successione e di simultaneità; di qui le tre analogie dell'esperienza.
Prima analogia (principio della permanenza della sostanza): «In ogni cambiamento di fenomeni la sostanza, permane e la quantità di essa nella natura non aumenta né diminuisce». È un presupposto dell'intera scienza della natura, che risulterebbe impossibile se non riconoscessimo nelle nostre percezioni nel tempo elementi di mutamento e altri di continuità.
Seconda analogia (principio della legge temporale secondo la legge delle causalità): «Tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto». Qui Kant tenta la risposta al "problema di Hume", mostrando che la legge di causa-effetto non è ricavata dall'esperienza di eventi in successione, ma è, al contrario, il presupposto della costruzione di qualsiasi serie temporale di eventi. Solo il principio di causalità dà oggettività alla percezione soggettiva di eventi in successione: esso è dunque un requisito necessario non solo per l'esperienza scientifica, ma anche per quella ordinaria.
Terza analogia (principio della simultaneità secondo la legge dell'azione vicendevole o comunanza): «Tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, si trovano fra loro in un'azione reciproca universale». Questo principio rende possibile la formulazione di leggi empiriche riguardo a fenomeni coesistenti; dalla successione causale unidirezionale (Seconda analogia) si passa qui alle relazioni causali reciproche fra fenomeni, per cui ciascun fenomeno condiziona gli altri e ne è al tempo stesso condizionato. Con questo principio si fonda dunque la possibilità della conoscenza di un insieme di fenomeni naturali (come per esempio accade nella legge di gravitazione universale di Newton).
Con le tre analogie, quindi, Kant giustifica la possibilità di una natura come oggetto d'esperienza, ovvero come connessione necessaria di fenomeni secondo leggi: le tre analogie - commenta Kant - ci dicono che «tutti i fenomeni hanno luogo in una sola natura e vi debbono avere luogo, poiché, in mancanza di questa unità a priori, non sarebbe possibile alcuna unità dell'esperienza e quindi neppure una determinazione degli oggetti all'interno di essa».
d) L'ultimo gruppo dei princìpi dell'intelletto, i postulati del pensiero empirico (categorie della modalità), non aggiunge nulla quanto al contenuto della conoscenza, ma indica i rapporti esistenti fra conoscenza e mondo dell'esperienza: «allorché il concetto di una cosa è già del tutto completo, mi è pur sempre lecito chiedermi se tale oggetto sia semplicemente possibile o anche reale e, nel secondo caso, se sia anche necessario». Ora, possibile è «ciò che è in accordo con le condizioni formali dell'esperienza». Reale è «ciò che si connette con le condizioni materiali dell'esperienza (della sensazione)», cioè l'insieme dei contenuti della percezione connessi secondo le analogie dell'esperienza. Necessario, infine, è ciò «la cui connessione con il reale è determinata secondo le condizioni universali dell'esperienza», ovvero quel fenomeno la cui esistenza è ricavabile da una legge empirica universale (come può essere la formula newtoniana della gravitazione).
Questa strutturazione dell'attività schematizzante resta un punto molto complesso del pensiero kantiano.
Nonostante gli sforzi è Kant stesso a riconoscere che non si possa chiarire sino in fondo quale sia il modo con cui si organizzano gli schemi attraverso l'immaginazione produttiva, così come invece era riuscito a fare nell'analisi dell'Io penso. Si tratta di uno sforzo destinato a raggiungere risultati trascendentalmente meno lineari di altri capitoli della Critica della ragion Pura e per il quale occorre accontentarsi di quanto ottenuto:
«Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro semplice forma, è un'arte celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi. Possiamo dire soltanto questo: l'immagine è un prodotto della facoltà empirica della immaginazione produttiva, lo schema dei concetti sensibili (come delle figure nello spazio) è un prodotto e, per così dire, un monogramma della immaginazione pura a priori, per il quale e secondo il quale le immagini cominciano ad essere possibili: le quali immagini, peraltro, non si riconducono al concetto se non sempre mediante lo schema, che esse designano; e in sé non coincidono mai perfettamente con esso (concetto). Lo schema, per contro, di un concetto puro intellettuale è qualche cosa che non si può punto ridurre a immagine, ma non è se non la sintesi pura, conforme a una regola dell'unità (secondo concetti in generale), la quale esprime la categoria, ed è un prodotto trascendentale dell'immaginazione, riguardante la determinazione del senso interno in generale, secondo le condizioni della sua forma (il tempo) in rapporto con tutte le rappresentazioni, in quanto queste debbono raccogliersi a priori in un concetto conformemente all'unità dell'appercezione».
Il problema dello "schematismo" kantiano rimane così, sino ad oggi, uno dei più dibattuti e controversi.
In base a queste condizioni, vi è dunque qualcosa di "oggettivo" nella conoscenza umana: il fatto appunto che essa è "umana", cioè universalmente valida per tutti i soggetti razionali. Dal che non è affatto lecito trarre conclusioni scettiche relative alla verità in sé del conoscere, come riteneva Hume.
Quando Hume osservava che noi conosciamo solo fenomeni soggettivi, basandoci sulla abitudine che ci deriva dall'esperienza, impostava erroneamente la questione. Per prima cosa egli pretendeva che la conoscenza, per potersi definire oggettiva e necessaria, cogliesse le cose in sé. Ma le cose in sé per principio non cadono nella nostra esperienza; esse, dice Kant, sono puri enti di ragione, ovvero noumeni. Nulla più che il prodotto di una nostra supposizione mentale. (La parola noumenon viene dal greco nous, che significa appunto "mente").
Non solo non possiamo sapere se a questa supposizione corrisponda qualcosa di oggettivo, cioè di reale, ma per di più la questione non riguarda il conoscere. Conoscere significa infatti ordinare la materia dell'intuizione nelle forme a priori dello spazio e del tempo e poi ancora nei giudizi dell'intelletto. Pertanto il conoscere ha a che fare necessariamente con i fenomeni e solo con essi.
Ma poi Hume (ed era il suo secondo errore) riduceva questa conformazione dell'oggetto a "fenomeno del soggetto" a un fatto meramente "psicologico" e perciò privo di validità universale. Ma le forme del conoscere non sono meri fatti psichici, mere abitudini psicologiche, bensì condizioni a priori e trascendentali dell' esperienza.
Prendiamo per esempio la famosa relazione di causa: essa non è affatto (come sostiene Hume) un nostro modo arbitrario di connettere le esperienze, ma è una condizione formale senza la quale l'esperienza stessa non ci sarebbe. La relazione di causa non è un prodotto dell'abitudine, ma è una categoria dell'intelletto, cioè una forma costitutiva a priori dell' esperire.
Non è che prima ci siano dei dati di fatto disgregati e irrelati e che poi noi li "travestiamo" psicologicamente connettendoli in relazioni causali; quello che direttamente esperiamo sono invece dei dati correlati secondo la forma della relazione causale. Noi possiamo ignorare quale sia la causa di un fenomeno, ma che, dato un effetto, sia universalmente lecito risalire a una causa, questo è un modo a priori necessario di fare esperienza. Se la porta sbatte, io posso ignorare il perché; ma che debba esserci un perché, cioè una causa, questo è universale e necessario per il darsi stesso del fenomeno in generale. Cioè: in generale i fenomeni sono connessi secondo relazioni causali (e poi secondo altre relazioni, come mostrano le categorie).
Che poi tali relazioni non riguardino le cose in sé è ovvio, ma ciò non infirma la nostra possibilità di formulare giudizi universali e necessari sull'esperienza che costantemente facciamo. Né infirma la nostra legittima ricerca della causa: perché la porta sbatte? È forse il vento, o altro ancora? Certo, qualcosa deve esserci e possiamo scoprirlo.
Per questa via si comprende allora anche la legittimità della scienza newtoniana della natura. Kant può mostrare infatti che le leggi matematiche della natura sono fondate sulle forme a priori del conoscere. il tempo, per esempio, è la condizione della matematica (cioè della successione dei fenomeni); lo spazio è la condizione della geometria (cioè della coesistenza dei fenomeni).
Comprendiamo allora che la fisica cerca nella natura ciò che il soggetto trascendentale (l'Io penso) già vi ha messo inconsciamente nell'atto di conoscere i fenomeni.
Come si è sopra mostrato, la scienza ha ragione di ricercare nella natura la causa di determinati effetti. Essa cerca materialmente tale causa, fondandosi sull'esperienza e sull'esperimento, ma che ogni effetto debba avere una causa è un principio universale di cui siamo certi a priori, in base all'analisi delle forme trascendentali del conoscere umano. Queste forme costituiscono la struttura generale della natura in quanto mondo fenomenico dell' esperire umano.
L'analisi della ragione intrapresa da Kant consente tuttavia un ulteriore risultato, questa volta negativo. Esso riguarda l'impossibilità della metafisica a diventare una scienza. La metafisica pretende infatti di stabilire non le leggi dei fenomeni, ma che cosa e come siano i noumeni. Entriamo qui nella parte della Critica della ragione pura che Kant designa come "Dialettica trascendentale".
In particolare la metafisica vuole sapere se vi sia un'anima e se essa sia immortale (psicologia razionale); se il mondo nella sua totalità sia finito o infinito, libero o necessario ecc. (cosmologia razionale); infine se Dio esista e come dobbiamo pensarlo e magari dimostrarlo (teologia razionale).
Ora, anima, mondo, Dio costituiscono, secondo Kant, le idee della "ragione". Il termine ragione (Vernunft) designa in Kant una modalità del pensiero che è da distinguere da quella dell'intelletto (Verstand). Mentre l'intelletto rivolge i suoi giudizi al mondo condizionato dei fenomeni, la ragione si rivolge all'incondizionato, pensato appunto secondo le tre idee sopra citate.
In particolare, l'anima designa la totalità incondizionata (e in questo senso noumenica) dei fenomeni interni; il mondo la totalità incondizionata dei fenomeni esterni; e Dio la loro relazione secondo un fine ultimo e incondizionato.
Ora, il punto è che a tali idee non corrisponde alcuna materia dell' esperienza e quindi nessuna intuizione. Ragionare in base alle idee non conduce pertanto ad alcuna conoscenza. In questo senso la metafisica non è e non potrà mai diventare una scienza.
Questo non significa che le idee siano solo concetti illusori e la ragione una facoltà arbitraria. Le idee della ragione esprimono l'«insopprimibile esigenza dell'animo umano» (dice Kant) di unificare e regolare finalisticamente tutti i fenomeni della nostra esperienza; e in questo senso sono a loro volta "trascendentali". Le idee sono dunque più propriamente "ideali" della ragione e come tali vanno considerate nella loro propria funzione trascendentale (esigenze costitutive di unità incondizionate cui l'animo umano non si può sottrarre). Non ne va però fraintesa la funzione, cadendo nell'illusione di trasformare un ideale in un sapere.
Si consideri anzitutto l'idea dell'anima. Dell'anima non abbiamo alcuna esperienza. Possiamo solo osservare riflessivamente il nostro "io penso" impegnato nell'attività di unificare in sé i fenomeni dell' esperienza esteriore e interiore (spaziale e temporale) e cioè impegnato nell'attività di pensarli riferendoli alla propria autocoscienza. Ma che cosa possa essere l'io penso indipendentemente da questa attività e dai fenomeni pensati non lo sappiamo e soprattutto non ha neppure senso chiedercelo: perché l'io penso è una funzione trascendentale e non una "cosa" noumenica.
Così pure, conosciamo alcune parti del mondo, ma il mondo nella sua totalità, l'universo, non è e non sarà mai un oggetto di esperienza, poiché gli oggetti di esperienza sono spazio-temporalmente determinati, stanno nel mondo e non sono il mondo. Il mondo sarebbe l'incondizionata totalità dei fenomeni; ma l'incondizionata totalità non è appunto un fenomeno, bensì un ideale della ragione come tale inesauribile. Perciò non ha senso chiedersi se il mondo sia infinito o finito, contingente o libero ecc. Tutte le dimostrazioni in proposito che la metafisica ha preteso fornire sono solo argomentazioni "dialettiche", cioè sofistiche. Esse sono contemporaneamente vere e false, cioè né vere né false, poiché quel che pensiamo e diciamo del "mondo" non possiamo né verificarlo né falsificarlo.
Infine Kant mostra che tutte le dimostrazioni dell' esistenza di Dio sono illusorie. L'esistenza, infatti, non è un predicato logico che si possa aggiungere a un soggetto mediante ragionamento o deduzione: l'esistenza si mostra (nello spazio e nel tempo), non si dimostra. Ma ciò che si mostra nell'esperienza è appunto un fenomeno, un ente contingente, che potrebbe esserci o non esserci, esser così oppure altrimenti, e non un ente necessario, quale pensiamo con il concetto di Dio.
Il paralogismo dialettico
Kant mostra perciò come la psicologia razionale inevitabilmente incappi in un paralogismo (o "ragionamento sbagliato") consistente nell'assumere l'io come qualcosa di indipendente dal mondo dei fenomeni e dalle rappresentazioni del senso interno, facendone una "sostanza" metafisica (ossia un'anima) immortale e indipendente dal corpo fenomenico.
Ora, l'Io penso è certamente indipendente dalle rappresentazioni fenomeniche, nel senso che esso è una funzione trascendentale; ma tale funzione è comunque e sempre rivolta a unificare il molteplice delle rappresentazioni date nell'esperienza, in ciò appunto espletandosi come funzione. Il paralogismo della psicologia razionale opera quindi un indebito scambio tra quella che è una funzione trascendentale e quella che sarebbe un' esistenza trascendente, sulla quale, del resto, non è possibile sapere niente, poiché ogni volta che riflettiamo sul nostro io lo troviamo impegnato nelle sue funzioni trascendentali, a contatto con il mondo fenomenico e anzitutto con le rappresentazioni interne del nostro corpo. Né ha senso applicare alla funzione trascendentale dell'io il concetto di sostanza (o, che è lo stesso, di anima), dato che la sostanza è appunto una categoria, un modo di unificazione dei fenomeni, attuato dall'Io penso mediante la sintesi a priori. È dunque chiaro che dell'io non si dà conoscenza metafisica (o incondizionata o noumenica), ma solo conoscenza fenomenica, ristretta e connessa ai limiti dell'esperienza.
Le antinomie dialettiche
La cosmologia razionale sfocia invece nelle antinomie dialettiche, ossia in dimostrazioni illusorie che prevedono sempre un'opposta dimostrazione, altrettanto legittima della prima in apparenza, altrettanto illusoria in sostanza. Tali antinomie sono la conseguenza inevitabile della pretesa della ragione di non attenersi ai limiti della fisica sperimentale e di estendere le proprie conoscenze all'universo nella sua totalità.
Così, alla tesi secondo cui «il mondo nel tempo ha un cominciamento e, per lo spazio, è chiuso dentro limiti» si contrappone l'antitesi che dimostra come «il mondo non ha né cominciamento né limiti spaziali, ma è, così rispetto al tempo come allo spazio, infinito»: è questa la prima antinomia della ragione. La seconda riguarda la contrapposizione tra la tesi secondo cui «ogni sostanza composta nel mondo consta di parti semplici, e non esiste in nessun luogo se non il semplice o ciò che ne è composto», e l'antitesi che invece nega l'esistenza di parti semplici.
Nella terza antinomia la tesi afferma l'insufficienza, per spiegare i fenomeni del mondo, del principio di causalità secondo le leggi di natura, e pone invece la necessità di ammettere una «causalità per libertà»; l'antitesi nega l'esistenza di qualsiasi tipo di libertà. La tesi della quarta antinomia afferma che «nel mondo c'è qualcosa che, o come sua parte o come sua causa, è un essere assolutamente necessario»; l'antitesi che «in nessun luogo esiste un essere assolutamente necessario, né nel mondo, né fuori del mondo, come sua causa».
La radice dell'antinomia sta proprio nell'illegittimità dell'idea di mondo come totalità esistente in sé, cioè nell'applicazione delle categorie al di là dell'esperienza. Il fatto che la ragione, così operando, entri in contraddizione con se stessa non è che un'ulteriore conferma del punto di vista critico, che esclude la possibilità di conoscere le cose in sé. Al tempo stesso, tuttavia, queste affermazioni antitetiche sono altrettanti tentativi di risolvere «quattro naturali e inevitabili problemi della ragione»: ha il mondo un inizio e un limite nel tempo e nello spazio? esiste qualche cosa di assolutamente semplice, non ulteriormente divisibile, e perciò indistruttibile? è possibile la libertà, o tutto ciò che avviene è causalmente determinato? esiste una causa ultima, necessaria dei fenomeni? Il punto di vista del criticismo nega che si possa dare risposta a queste domande, che non hanno un riscontro possibile nell'esperienza, ma non può sottrarsi al compito di tentare una soluzione delle questioni razionali che la metafisica ha aperto al riguardo.
Risolvere criticamente le antinomie vorrà dire mostrare che la contraddizione fra tesi e antitesi è soltanto apparente. Nel caso delle prime due antinomie (che Kant chiama "matematiche", perché considerano il mondo dal punto di vista quantitativo e non qualitativo), questo risultato si ottiene osservando -che sia la tesi sia l'antitesi sono false, in quanto derivate da un principio intimamente contraddittorio, e cioè l'esistenza del mondo come totalità in sé. In realtà, ciò che possiamo dire del mondo è che esso non è né finito né infinito - quanto allo spazio, al tempo e alla divisibilità - ma è un insieme di fenomeni attualmente finito e potenzialmente indefinito.
Nel caso della terza e quarta antinomia (chiamate "dinamiche", perché riguardano la regressione all'incondizionato) Kant osserva che la soluzione sta nel pensare che la tesi e l'antitesi possano essere (non siano necessariamente) entrambe vere, e tuttavia non in contraddizione fra loro, perché riferite ad ambiti diversi: le antitesi al mondo dell'esperienza, le tesi al mondo intellegibile, quel mondo che è sempre possibile pensare, pur senza poterlo mai conoscere. Per esempio, rispetto ai fenomeni possiamo ritenere vero che tutto ciò che avviene sia determinato assolutamente entro leggi causali: proprio questo rende possibile l'indagine scientifica. Ma rispetto al noumeno, è possibile invece pensare la libertà, ovvero la possibilità di agire secondo volontà: è questo anzi, come vedremo, un presupposto ineliminabile della vita morale. Di fronte alle questioni poste dalla terza e quarta antinomia, quindi, si può operare una distinzione tra ciò che è oggetto della scienza e ciò che è oggetto della moralità: ciò che non può essere affermato nel primo campo, può esserlo nel secondo. La condizione è che non si pretenda di attribuire legittimità, contenuto, valore conoscitivo a concetti privi di un oggetto corrispondente nell'esperienza: in questo caso, si cade nell'arbitrio della metafisica dogmatica, inevitabilmente dialettica.
L'esistenza si mostra, non si dimostra
Il supremo sforzo della ragione si esprime infine nella teologia razionale, che pretende di dimostrare l'esistenza dell' essere supremo. Kant esamina la prova fisico-teologica dell' esistenza di Dio, la quale muove dall'ordine e dall'armonia del mondo per inferire l'esistenza necessaria di un artefice intelligente; ma è di fatto impossibile ricavare dal così detto ordine della natura un'adeguata concezione di Dio come onnisciente, onnipotente ecc., perché la natura non ci suggerisce niente di simile.
D'altro canto, la prova cosmologica, che muove dall'esistenza contingente delle cose per risalire all'esistenza dell'essere necessario, abbisogna per sostenersi della preventiva dimostrazione che all'essere necessario competa a priori l'esistenza; a tal fine però, l'unica prova concludente e autosufficiente che può essere addotta è la cosiddetta prova ontologica di Anselmo d'Aosta (e poi, moderatamente, di Cartesio), da Kant così riassunta: «Il concetto dell' essere realissimo contiene in sé ogni realtà; ora, nella realtà è compresa anche l'esistenza; quindi l'esistenza è compresa nel concetto d'un tale essere realissimo, e se la si nega si cade in contraddizione». Con questa argomentazione la dimostrazione ontologica tratta il predicato dell'esistenza come qualcosa di analitico, cioè di ricavabile a priori dall'analisi del concetto: il concetto di Dio in quanto essere perfettissimo non può infatti mancare di alcuna "perfezione", dal che deriva che ad esso pertiene anche il predicato dell'esistenza.
Ma, come Kant aveva già sottolineato in uno scritto precritico (l’unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, del 1763), l'esistenza non è una qualità che arricchisce il significato di un concetto, non è il predicabile di un concetto "logico", ma qualcosa che indica la "posizione reale" di quel concetto, non riguardando la sua essenza bensì il suo modo di sussistere come esistente o non esistente. Ogni giudizio di esistenza è un giudizio sintetico e comporta perciò un ricorso all'esperienza. Negare il predicato dell'esistenza ad un concetto (per esempio al concetto di "essere realissimo" o "necessario") non può mai implicare contraddizione, poiché questa riguarda soltanto i giudizi analitici e i predicati logici, e l'esistenza non è tra questi, dato che «sia quale e quanto si voglia il nostro concetto di un oggetto, noi dobbiamo sempre uscire da esso per conferire a questo oggetto l'esistenza», dobbiamo cioè ricorrere alle sintesi dell' esperienza. In altri termini, si potrebbe dunque dire che l'esistenza si mostra e non si dimostra, sicché io posso giudicare dell' esistenza non mediante un ragionamento a priori, ma solo in virtù di un'intuizione spazio-temporale. «Tutta la fatica e lo studio - conclude Kant - posto nel tanto famoso argomento antologico dell' esistenza di un essere supremo sono stati dunque perduti, e un uomo, mediante semplici idee, potrebbe arricchirsi di conoscenze né più né meno di guanto un mercante potrebbe arricchirsi di quattrini se egli, per migliorare la propria condizione, volesse aggiungere alcuni zeri alla sua situazione di cassa». La medesima valutazione vale per tutta la metafisica: con la sua pretesa di conoscere qualcosa a priori e in riferimento alle pure idee della ragione, essa aggiunge all'effettiva scienza umana soltanto degli zeri.
In conclusione, la metafisica tratta le idee della ragione come se fossero categorie dell'intelletto. A differenza delle categorie, le idee non danno luogo a conoscenze, poiché non sono forme che ordinano la materia dell'intuizione; non vi è infatti materia ad esse corrispondente.
Più in generale, bisogna dire che il puro pensiero non può giungere a conoscenze concrete. L'uomo non possiede un pensiero intuitivo, capace di darsi da sé i propri oggetti (come potremmo immaginare che sia il pensiero divino creatore). Il pensiero può solo ordinare i dati dell' esperienza in accordo con le categorie dell'intelletto; ma dove non vi sono dati, non vi è nulla da pensare.
Per principio dunque la metafisica è una scienza impossibile. Questo spiega il suo scacco secolare, la sua mancanza di progressi durevoli. Essa tuttavia risorge sempre come "tentazione" del pensiero, poiché il bisogno di conoscere il noumeno e di dare un senso all' esperienza che trascenda l'esperienza è radicato nel cuore dell'uomo, nella natura del suo sentimento. In questo senso l'illusione della metafisica è a suo modo un'illusione "trascendentale", cioè costitutiva della natura umana.
Questa conclusione è a sua volta un risultato importante del progetto critico kantiano, della sua analisi della ragione, ovvero di quel "tribunale della ragione", come ha detto Kant, che il criticismo ha inteso instaurare, per chiarire il senso e il limite delle nostre conoscenze.
L'aver smascherato l'infondatezza delle pretese della metafisica, l'aver dimostrato che i suoi ragionamenti sono puramente sofistici ("dialettici"), consente tuttavia, secondo Kant, di dare un fondamento alla morale e alla fede.
Nella Critica della ragione pratica Kant mostra che l'uomo agisce in base a imperativi, cioè a determinazioni della "volontà". Essi sono generalmente ipotetici, cioè obbediscono alla formula "se vuoi a fai b". Tali imperativi, meramente pratici o utilitaristici, non danno luogo a un giudizio morale.
Quest'ultimo fa invece valere un imperativo del tutto incondizionato e categorico: esso non propone dei "se", ma esige semplicemente che si compia ciò che si "deve" compiere, cioè il proprio dovere. E ciò senza altro fine se non il dovere per il dovere.
La presenza in noi di tale imperativo è, dice Kant, un "fatto di ragione": è un fatto che noi ce ne troviamo forniti. Se così non fosse, non avremmo neppure la possibilità di esprimere, come invece facciamo, dei giudizi morali. Noi diciamo: questo è migliore di quello, a ha agito meglio di b ecc. Di fatto allora la nostra "ragione pratica" pretende che si agisca in base a doveri morali, cioè incondizionati e categorici.
Ciò significa che l'imperativo categorico pretende che noi agiamo come se fossimo liberi, cioè non condizionati dal mondo fenomenico al quale apparteniamo; non condizionati, per esempio, dai nostri timori, dai nostri interessi e dalle nostre passioni: questo è ciò che consideriamo un agire "morale".
Ciò che ci è inibito sul piano del conoscere, si manifesta invece come un "fatto" sotto la forma dell'imperativo categorico. Esso pretende da noi una condotta quale è possibile solo a esseri liberi (ad "anime" incondizionate); ovvero a esseri destinati a raggiungere all'infinito tale libertà (e in questo senso immortali), secondo una finalità ideale del bene universale di cui solo Dio potrebbe essere garante.
Ecco allora che le tre idee della ragione, prive di consistenza dal punto di vista del conoscere, mostrano la loro validità "pratica" in sede morale.
Sappiamo che dell'anima, della sua immortalità, dell'esistenza di Dio non possiamo affermare nulla sul piano della scienza. Questi concetti non sono forme del conoscere; essi sono, dice Kant, postulati del giudizio morale, cioè della ragione nel suo uso, non conoscitivo, ma pratico.
Infatti, ogni volta che diciamo: "questo è bene, questo è male" di fatto stiamo postulando la libertà dell'agente, come se chi agisce non fosse o non dovesse essere condizionato dal mondo fenomenico. Nessuno di noi però è tale; quindi, perché il giudizio morale che formuliamo abbia senso, noi stiamo implicitamente postulando un'infinità di vita futura che consenta all'agente di "diventare" libero. Il che significa nel contempo postulare un mondo immortale dei fini del quale Dio sarebbe garante, facendo corrispondere il premio del bene all'azione moralmente meritoria.
In ogni giudizio morale, insomma, noi postuliamo (anche se non ce ne rendiamo conto) l'esistenza di Dio: quella esistenza che non possiamo conoscere, ma che è il fondamento di senso, esplicito o implicito, di ogni nostra azione morale. Se così non fosse, i nostri giudizi morali sarebbero assurdi: pretenderebbero un'azione libera mirante a un bene assoluto e incondizionato in un cieco mondo privo di finalità superiori e di senso ultimo.
In parole più semplici: nel giudizio morale mostriamo di considerare l'uomo non come un puro fenomeno, per esempio come un animale, ma come un essere capace di opporsi con la volontà alle contingenze naturali che sono fuori e dentro di lui.
Bisogna però aggiungere che un'azione morale, o che aspiri ad avvicinarsi il più possibile alla pura legge del dovere, è possibile solo se la conoscenza delle cose in sé, dei noumeni, resta per noi inaccessibile. Se l'uomo potesse conoscere direttamente Dio, il fine supremo dell'universo e il proprio destino ultraterreno, se su tali esistenze non rimanessero dubbi e incertezze, nessuno potrebbe più scegliere se uniformarsi o non uniformarsi all'imperativo categorico (il dovere per il dovere); vale a dire: nessuno più sarebbe "libero". La morale kantiana è invece essenzialmente una morale della libertà e dell' autonomia. La ragione pratica è, secondo Kant, autonomamente legislatrice.
D'altra parte, dice anche Kant, «ho dovuto distruggere la scienza per salvare la fede». li progetto del criticismo ha dovuto cioè mostrare l'illusorietà della scienza metafisica perché risaltasse il fine pratico dell'umana libertà e della sua fede nel senso supremo e incondizionato dell' esistenza.
Unica legge morale è la legge del dovere che parla al cuore e alla ragione di ogni uomo. Qualsiasi conformazione a norme esterne non sarebbe per Kant davvero "morale", anche se la norma fosse desunta dal dettato evangelico o da altri codici religiosi di alto valore. Per agire moralmente l'uomo deve unicamente uniformarsi alla voce della sua libera ragione, alla voce della sua coscienza interiore: è caso mai essa a legittimare le autorità esterne, riconoscendole consone all'imperativo categorico, e non viceversa.
Di qui anche la posizione di Kant nei confronti della religione: ogni pratica esterna, ogni dogma o imposizione ecclesiastica è insignificante, dal punto di vista schiettamente religioso, e negativa dal punto di vista morale.
La religione è un fatto di fede interiore, una speranza del sentimento che, invero, non aggiunge nulla alla certezza del tutto autonoma dell'imperativo categorico, cioè a quel "fatto di ragione" sul quale si fonda il giudizio morale.
Nella definizione della fede come fatto interiore e nel caratteristico rigorismo della morale kantiana è stata per lo più indicata dagli studiosi l'influenza su Kant del pietismo.
Intelletto e volontà rivelano dunque, secondo Kant, due opposti mondi e due opposte esigenze. Il primo si rivolge al fenomeno e alla meccanica contingenza dei fatti naturali. La seconda, quasi contraddicendo il primo, manifesta invece, attraverso i postulati morali, l'esigenza del mondo della libertà noumenica e dell'esistenza di Dio.