I fratelli Karamazov, affresco ampio e profondo della società russa e delle "profondità" della psiche umana, venne scritto da Fedor Michajlovich Dostoevskij (1821-1881) negli ultimi anni della sua vita: tra il 1879 e il 1880. Il grande scrittore non arrivò a questa opera imponente e complessa senza una lunga e tormentosa preparazione interiore. L'opera, anzi, avrebbe dovuto far parte di un più ampio affresco, intitolato Vita di un grande peccatore, abbozzi e frammenti del quale erano entrati in romanzi precedenti quali I Demoni (in particolare l'episodio allucinante della "confessione di Stavrogin", il "demonio" che rappresentava, nella trasfigurazione poetica e drammatica, il "distruttore" Bakunin) e ne L'adolescente, il poema dell'ossessione del denaro: ossessione che ritorna anche, fra i filoni tematici dominanti, nel Karamazov e, in particolare, nelle figure di due esseri "maledetti", il vecchio e bestiale padre, Fjodor Karamazov e il malvagio Smerdjakov.
Il romanzo è, senza dubbio, il più profondo dei romanzi di Dostoevskij; questa stessa complessità può essere tra le cause di certi difetti che sono stati riscontrati: per esempio la non perfetta fusione di "sottoromanzi" o "linee tematiche organizzate" di cui I fratelli Karamazov è "composto: il romanzo poliziesco (l'uccisione del vecchio Karamazov, l'istruttoria, il processo, la condanna di Dmitrij Karamazov per parricidio), il romanzo ideologico (l'ateismo di Ivan Karamazov, l'influenza spirituale di Ivan su Smerdjakov, la redenzione di Grusen'ka e di Dmitrij), il romanzo utopistico-religioso, e cioè il tema di padre Zosima e Aljosa, come risposta alla sfida atea di Ivan alla problematica dell'orrore sociale: a questo "romanzo nel romanzo" è collegato il "motivo dei bambini", che è un altro romanzo, che non può essere considerato solo una "novella" laterale (il tema di Iljusa e dei suoi compagni di scuola). Il tema dei bambini è presente nell'opera dostoevskiana in molte opere precedenti, come in Umiliati e offesi. Il tema dei bambini ne I fratelli Karamazov - benché laterale rispetto al tema fabulistico centrale, la vicenda dei Karamazov - è però di fondamentale importanza perché porta la prospettiva profetica del romanzo, è strettamente collegato ad Aljosa: non per nulla l'opera si conclude proprio con il discorso armonico di Aljosa sulla pietra di Iljusa e sulla risposta corale dei ragazzi.
Il romanzo, nella forma pervenutaci, non è concluso, se lo si considera in base alle intenzioni dello scrittore e anche secondo le regole del cosiddetto "romanzo ben fatto", tipica manifestazione del romanzo ottocentesco. Difatti l'opera avrebbe dovuto continuare, perché il tema di Aljosa è solo iniziato: nulla sappiamo dell'evoluzione successiva del giovane, dopo la sua uscita dal convento. E così del destino futuro di Dmitrij e di Grusen'ka abbiamo solo delle indicazioni (la notizia che si prepara la loro fuga e il loro trasferimento in America); né sappiamo dell'evoluzione di Ivan e della consorte Sara (alla fine del romanzo, Aljosa ci dice che è morente), e di Katerina. Dobbiamo però osservare che, dal punto di vista della tensione poetica, il romanzo è concluso: solo esteriormente si potrebbe chiedere lo sviluppo dei fatti, le vicende storiche, o cronachistiche, dei personaggi. In realtà I fratelli Karamazov è, prima di tutto, un romanzo ideologico e profetico, una specie di "cattedrale".
Senza dubbio Dostoevskij è, fra gli scrittori russi dell'Ottocento, il più moderno, dal punto di vista della tecnica narrativa, delle vertiginose "discese" nel profondo della psicologia, della struttura poetica stessa che tiene insieme il romanzo.
L'opera ci appare come una multiforme successione di episodi più o meno drammatici, di convulsi colpi di scena, di tutto l'armamentario della suspense, dell'oratoria ideologica, dell'appassionato monologo, del dialogo pacato o convulso. Se però penetriamo nelle strutture che la sostengono, ci rendiamo subito conto della semplicità compositiva, dell'unità per cui tutti quegli episodi e momenti sono strettamente uniti: unità architettonica che corrisponde alla sostanziale unità ideologico-patetica dell'opera. Come un poema epico, l'opera è divisa in dodici libri, distribuiti in quattro parti; precede una "prefazione" e segue un "epilogo".
Nel primo libro Dostoevskij traccia la storia dell'infanzia dei tre Karamazov figli e presenta il padre: il primo libro ha il compito di condurre il lettore al momento in cui ha inizio la storia vera e propria narrata nel romanzo.
Nel secondo libro, mediante l'episodio dell'incontro nella cella del monaco Zosima, l'autore presenta tutti gli eroi principali insieme; e ciascuno, secondo il suo carattere e il suo destino, si esprime; le contraddizioni e gli odi si rivelano, l'inimicizia del vecchio Fjodor Karamazov e dei suoi figli appare qui nella sua nuda asprezza. La presenza del monaco Zosima prepara gli eventi successivi: la morte di Zosima e l'uscita di Aljosa dal monastero.
Nel terzo libro si allude, proprio nell'approfondire il contenuto dei rapporti tra i figli e il padre, all'inevitabile conclusione tragica. I partecipanti alla tragedia (Fjodor Karamazov, Dmitrij Karamazov, Smerdjakov, Grusen'ka, Katerina Ivanovna ecc.) agiscono nel libro presentandosi nelle loro varie sfaccettature.
L'analisi a volte spasmodica dei personaggi e delle situazioni continua nel quarto libro, il "libro degli strazi", in cui si definiscono altre contrapposizioni (Zosima e Ferapont) ed entrano personaggi come Iljusa e suo padre.
Nel quinto e sesto libro emergono due personaggi chiave dal punto di vista ideologico, Ivan Karamazov (nel quinto libro) e padre Zosima (nel sesto).
Ivan è individuato come l’"ispiratore" dell'omicidio che verrà compiuto da Smerdjakov, Zosima è l'ispiratore di Aljosa, il "portatore di luce", e attraverso Aljosa è colui cui si devono il riscatto di Grusen'ka - e quindi anche di Dmitrij Karamazov- e il sorgere della speranza "dei bambini". Inoltre Ivan e Zosima esprimono sentimenti, pensieri, intuizioni, aspirazioni, condivisi in un modo o nell'altro dagli altri personaggi. Ivan e Zosima sono uniti da un rapporto di opposizione: la drammatica problematicità di questa contrapposizione o, meglio, della visione del mondo di Ivan è espressa nei due capitoli centrali del quinto libro, intitolati La rivolta e Il grande Inquisitore.
Ne La rivolta Ivan si dimostra sottile e abile interlocutore di Aljosa:
«- Perché mi tormenti? - esclamò Aljòsa con crucciosa amarezza, - me lo dirai, finalmente?
- Certo che te lo dirò, sono arrivato fino a questo punto per dirtelo. Tu mi sei caro, io non voglio abbandonarti e non ti abbandonerò al tuo Zòsima
Ivàn tacque un momento, il suo volto si fece tutt'a un tratto molto triste
- Ascoltami:· io ho preso come esempio i soli bambini perché la cosa riuscisse più evidente. Delle altre lacrime umane, di cui è imbevuta tutta la terra, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, avendo di proposito ristretto il mio tema. lo sono un verme e confesso in tutta umiltà che non posso comprendere a qual fine tutto sia stato cosi congegnato. Gli uomini stessi, dunque, sono colpevoli: era stato dato loro il paradiso, essi hanno voluto la libertà e hanno rapito il fuoco al cielo, sapendo che sarebbero diventati infelici; non c'è quindi motivo di compiangerli. Oh, nel mio povero spirito terrestre euclideo, io so soltanto che il dolore esiste, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa scaturisce direttamente e semplicemente da un'altra, che tutto scorre e si equilibra; ma, già, queste non sono che bubbole euclidee, io lo so bene, e non posso adattarmi a vivere in conformità di esse! Che m'importa che non ci siano colpevoli, che ogni cosa scaturisca direttamente e semplicemente da un'altra e che io lo sappia! A me occorre un compenso non nell'infinito, chissà dove e chissà quando, ma già qui sulla terra, e tale che io stesso lo possa vedere. lo ho creduto e voglio vedere anch'io, e, se allora fossi già morto, mi si risusciti, perché se tutto dovesse avvenire senza di me, sarebbe una cosa troppo ingiusta. lo non ho mica sofferto per concimare col mio essere, con le mie colpe e le mie sofferenze, la futura armonia in pro di qualcuno. lo voglio vedere coi miei occhi il daino ruzzare accanto al leone e l'ucciso alzarsi ad abbracciare il suo uccisore. lo voglio esser presente quando tutti apprenderanno di colpo perché tutto sia stato così. Su questo desiderio poggiano tutte le religioni della terra, e io credo. Ma però ecco i bambini: che ne farò? È questo il problema che io non posso risolvere. Per la centesima volta ripeto: le questioni sono molte, ma ho preso soltanto i bambini, perché qui è ineluttabilmente chiaro ciò che ho bisogno di dire. Ascolta: se tutti devono soffrite per acquistare con la sofferenza l'eterna armonia, che c'entrano qui i bambini? dimmelo, ti prego! Non si capisce assolutamente a che scopo debbano anch'essi patire e o acquistarsi con le sofferenze quell'armonia. Perché hanno servito anch'essi da materiale e da concime per preparare a vantaggio altrui l'armonia futura? La solidarietà fra gli uomini nel peccato io la comprendo, comprendo la solidarietà anche nella espiazione: ma la solidarietà nel peccato non riguarda i bambini e, se la verità sta realmente nel fatto che anche loro sono solidali coi padri in tutti i delitti da questi commessi una tale verità non è certo di questo mondo e mi riesce incomprensibile. Qualche bello spirito dirà magari che tanto il bambino crescerà e avrà il tempo di peccare, ma non è mica cresciuto quel fanciullo di otto anni contro il quale furono sguinzagliati i cani! Oh! Aljòsa, io non bestemmio! Comprendo bene come dovrà scuotersi l'universo quando tutti in cielo e sottoterra si fonderanno in un inno solo e tutto ciò che vive o ha vissuto griderà: «Tu hai ragione, Signore, giacché le Tue vie ci sono rivelate! ». Quando la madre abbraccerà il carnefice che fece straziare il figlio suo dai cani, e tutt'e tre proclameranno fra le lacrime: Tu hai ragione, Signore! », allora certo sarà l'apoteosi della conoscenza e tutto si spiegherà. Ma ecco, proprio qui è il busillis, è proprio questo che io non posso accettare. E mentre sono sulla terra mi affretto a prendere le mie disposizioni. Vedi, Aljòsa, se vivrò anch'io fino a quel momento o se risusciterò per vederlo, potrà realmente accadere che anch'io esclami con gli altri, vedendo la madre abbracciare il carnefice del suo bimbo: «Hai ragione, Signore!» ma io questo non lo voglio esclamare. Finché c'è ancor tempo, corro ai ripari e perciò rifiuto assolutamente la suprema armonia. Essa non vale una lacrima anche sola di quella bambina martoriata che si batteva il petto col piccolo pugno e pregava il «buon Dio» nel suo fetido stambugio, versando le sue lacrime invendicate. Non la vale, perché quelle lacrime sono rimaste da riscattare. E dovranno essere riscattate, altrimenti non ci potrà essere neppure l'armonia. Ma come, come le riscatterai? È forse possibile? Col vendicarle più tardi? Ma a che mi serve vendicarle, a che mi serve l'inferno per i carnefici, a che può rimediare l'inferno, quando i bambini sono già stati martirizzati? E che armonia è questa, se c'è l'inferno? io voglio perdonare, voglio abbracciare, e non che si continui a soffrire. E se le sofferenze dei bambini hanno servito a completare quella somma di sofferenze che era necessaria per l'acquisto della verità, io affermo fin d'ora che tutta la verità non vale un simile prezzo. Non voglio, insomma, che la madre abbracci il carnefice che fece straziare il figlio suo dai cani! Si guardi bene dal perdonargli! Perdoni, se vuole, per proprio conto, perdoni al carnefice la sua smisurata sofferenza materna, ma non ha il diritto di perdonare la sofferenza del suo bimbo straziato; si guardi dal perdonare al carnefice, anche se gli perdonasse il fanciullo stesso! Ma se è cosi, se non si ha il diritto di perdonare, dov'è l'armonia? C'è nel mondo intero un essere che possa perdonare e che ne abbia il diritto? lo non voglio l'armonia, non la voglio per amore verso l'umanità. Preferisco che le sofferenze rimangano invendicate. Rimarrei piuttosto col mio dolore invendicato e col mio sdegno insaziato, anche se avessi torto! Troppo poi si è esagerato il valore di quell'armonia, l'ingresso costa troppo caro per la nostra tasca. E, perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d'ingresso. E, se sono un galantuomo, ho l'obbligo di restituirlo al più presto possibile. E cosi faccio. Non è che non accetti Dio, AIjòsa, ma Gli restituisco nel modo piu rispettoso il mio biglietto.
- Questa è una rivolta, - disse Aljòsa piano, con gli occhi a terra.
- Una rivolta? Non avrei voluto sentire da te questa parola, - disse lvàn con tono penetrante. - Si può vivere di rivolta? Ora, io voglio vivere. Dimmi tu stesso francamente, mi appello a te, rispondi: immaginati di esser tu a costruire questo edificio dei destini umani con lo scopo di rendere finalmente felici gli uomini, di dar loro infine il riposo e la pace; ma che per questo sia necessario e inevitabile tormentare una sola minuscola creaturina, quella stessa bimbetta, per esempio, che si batteva il petto col piccolo pugno, e sulle sue lacrime invendicate fondare questo edificio: accetteresti tu, a queste condizioni, di esserne l'architetto? rispondi senza mentire!
- No, non accetterei, - profeti piano AIjòsa.
- E puoi tu ammettere l'idea che gli. uomini per i quali tu costruisci acconsentano dal canto loro ad accettare una felicità basata sul sangue ingiustificato di un piccolo martire, e accettatala, a rimanere in eterno felici?
No, non lo posso ammettere: Fratello, - disse a un tratto AljòSa con gli occhi scintillanti, - tu hai detto poco fa: c'è nel mondo intero un Essere che possa perdonare e che ne abbia il diritto? Ma quest'Essere c'è, ed Egli può perdonare a tutto ed a tutti e per conto di tutti, perché Egli stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto. Tu L'hai dimenticato, ma è su di Lui che si eleverà l'edificio, e starà a Lui gridare: «Tu hai ragione, Signore, giacché le Tue vie ci sono rivelate...».
- Ah, l’« Unico senza peccato» e il Suo sangue! No, non L'avevo-dimenticato, al contrario mi ha stupito finora che tu non L'avessi ancora tirato fuori, perché di solito nelle discussioni tutti i vostri lo mettono avanti a tutto.»
Alla dichiarazione religiosa e appassionata del giovane novizio, Ivan risponde raccontando il suo "poema", la leggenda del Grande Inquisitore che è, appunto, uno dei centri se non il vero centro ideologico del romanzo. Lo spirito "euclideo" di Ivan si manifesta nella sua profonda protesta contro la chiesa, la religione, lo Stato; si manifesta in una forma lucida di negazione anarchica, accompagnata dal più profondo disprezzo per gli umili, per la massa della gente semplice, incapace di governarsi e che ha bisogno, appunto, del miracolo e dell'autorità, come voleva il Grande Inquisitore: di qui il fallimento del Cristo, che è il Cristo di Aljosa. Ma il discorso di Ivan suscita in Dostoevskij la naturale necessità di contrapporre al discorso ateo, geometrico, "euclideo" di Ivan, la predica cristiana dell'amore e della salvezza. E il capitolo successivo è appunto dedicato a Zosima, personaggio per nulla convenzionale e appassionato nella sua viva fede. È Zosima che dovrebbe "rispondere" alle domande angosciose di Ivan; rispondere con una concezione vissuta, non ecclesiastica, della religione; per rendere più convincente il suo personaggio Dostoevskij attinse con fine senso dell'arte al ricco patrimonio della letteratura popolare religiosa russa.
Tuttavia anche Zosima non riesce a rispondere del tutto o, per lo meno, il tono della sua "risposta" non è così forte e convincente (disperatamente convincente) come il tono delle parole di Ivan. In realtà la contrapposizione non è portata sul piano della schermaglia dialettica euclidea di Ivan. Piuttosto Aljosa e Zosima pongono il gesto del bacio e dell’amore di Crsito sopra tutti gli argomenti di Ivan. Non a caso Ivan, davanti al bacio di Aljosa che sembra confermare quello di Cristo all’Inquisitore che Lo pone sotto accusa per aver predicato l’amor e la libertà umana, esclama:
- C'è una forza che resiste a tutto! - disse Ivàn con un freddo sogghigno.
- Che forza?
- Quella dei Karamàzov ... la forza dell'abiezione dei Karamàzov.
- Cioè, affondare nel vizio, soffocare l'anima nel putridume,
- Forse anche questo ... ma fino ai trent'anni può darsi che io vi sfugga, e dopo ...
- E come vi sfuggirai? In che modo vi sfuggirai? Con le tue idee è impossibile.
- Ancora una volta, da Karamàzov.
- Vale a dire che «tutto è lecito»? Tutto è lecito, è così? è così?
Ivàn si accigliò e a un tratto impallidi stranamente.
- Ah, tu hai afferrato a volo quella parola di ieri, che tanto aveva offeso Mjùsov ... e che il fratello Dmìtrij, scattando, ripeté casi ingenuamente? - disse con un sorriso bieco. - Ma sia pure: « tutto è lecito », poiché ho pronunziato questa parola. Non mi ritratto. E anche la formulazione di Mìtja non era cattiva.
Aljòsa lo guardava in silenzio.
- lo, fratello, credevo, partendo, di avere sulla terra almeno te, - disse a un tratto Ivàn con inattesa emozione, - ma adesso vedo che anche nel tuo cuore non c'è posto per me, mio caro eremita. La formula: «tutto è lecito» io non la rinnegherò; ebbene, sarai tu a rinnegarmi per questo, si, si?
Aljòsa si alzò, gli si accostò e, muto, lo baciò dolcemente sulle labbra.
- È un furto letterario! - gridò Ivàn, assalito improvvisamente da una specie di entusiasmo, - l'hai rubato al mio poema! Grazie, però. Alzati, Aljòsa, andiamo, è tempo per me e per te.
Essi uscirono, ma si fermarono sulla scaletta della trattoria.
Il gesto per Ivan ha solo un significato nella finzione letteraria e non riesce a vederne la profonda dimensione profetica. Per questo cerca di ostracizzare i comportamento del giovane fratello e tenta di prenderne le distanze con una separazione durevole che lo metta al riparo dall'imprevedibile novità del perdono e dell'amore.
- Senti, Aljòsa, - disse Ivàn con voce ferma, - se realmente le fogliuzze viscose mi basteranno, non le amerò che ripensando a te. Per me è sufficiente che tu sia qui, in qualche luogo, per non perdere ancora la voglia di vivere. Ti basta questo? Prendila, se "vuoi, come una dichiarazione d'amore. Ma adesso tu vai a destra, io a sinistra, e basta, m'intendi? basta. Cioè, anche se io non partissi domani (ma credo che partirò di sicuro) e se tornassimo ancora in qualche modo a incontrarci, non dirmi pili. una parola su tutti questi argomenti. Te ne prego caldamente. E anche quanto al fratello Dmltrij, ti prego assai di non parlarmene mai più., - aggiunse con improvvisa irritazione, - il tema è esaurito, tutto è stato detto, è vero? E io, dal canto mio, ti farò pure una promessa: quando, verso i trent'anni, vorrò «scagliare a terra la coppa», allora, dovunque tu sia, verrò a discorrere ancora una volta con te ... fosse anche dall'America, sappilo. Verrò appositamente. A quel tempo sarà molto interessante vedere come sarai anche tu." Come vedi, è una promessa abbastanza solenne. Infatti ci diciamo addio forse per sette, per dieci anni. Su via, ora va' dal tuo Pater Seraphicus, egli sta morendo; se morisse senza di te, te la prenderesti ancora con me per averti trattenuto. Arrivederci, baciami un'altra volta, ecco cosi, e va'..."
Alla ragione evidente di Ivan si contrappone il perdono e l’amore. Non una logica euclidea ma l’assurdità di quell’armonia che Ivan disprezzava e riteneva assurda.
Nella seconda parte - libri settimo dodicesimo - prevale l'azione, si ha un susseguirsi di scene di alta drammaticità: mentre la drammaticità nei primi sei libri è prevalentemente ideologica e mentale, e si esprime in parole, nei libri della seconda parte è prevalentemente dinamica, e si esprime in movimenti, incontri frenetici, colpi di scena, deliri, allucinazioni. Questa parte ha uno dei suoi culmini nell'assassinio di Fjodor Karamazov e nel processo (ma anche nell'indimenticabile scena dell'osteria, o nell'incubo di Ivan, che viene visitato dal diavolo-doppio). Assistiamo al tormentoso processo del rinascere di un essere umano, al ritorno di Grusen'ka, cioè, alla sua dignità, che ella riconquista con l'amore e la sofferenza e la dedizione di sé.
L'inizio di questo riscatto si ha già, nel settimo libro, nell'episodio della visita di Rakitin e Aljosa alla ragazza (che aveva intenzione di sedurre il novizio). È interessante osservare che Grusen'ka ritrova un punto d'appoggio spirituale proprio in Aljosa e che Aljosa, sconvolto dalla morte di Zosima (e dallo scandalo scatenatosi poi a causa dei mancati miracoli e del puzzo di cadavere che emanò dal corpo del vecchio subito dopo la morte, nonostante tutte le leggende popolari sui santi e con gran gioia sia dei miscredenti sia dei monaci avversari, che poterono subito dire che Zosima non era stato certo un santo), ritrovò nel colloquio con Grusen'ka la fede nell'umanità e nell'amore.
Abbiamo qui tutta una serie di immagini e scene realiste intrecciate con racconti ed episodi di derivazione leggendaria popolare: c'è il matrimonio spirituale di Aljosa e Grusen'ka, premessa della salvezza della ragazza; c'è il racconto, famoso, narrato dalla ragazza, della "cipolla": cioè di quella donna malvagia che, dopo la morte, andò all'inferno, nel lago di fuoco e il suo angelo, volendo salvarla disse a Dio che una volta, una sola volta, aveva dato una cipolla ad un mendicante; e Dio concesse alla donna di aggrapparsi a quella cipolla per uscire dal lago di fuoco; già stava per uscirne, quando gli altri dannati vollero aggrapparsi anch'essi per essere salvati; ma la donna, malvagia com'era, si mise a tirar calci per ributtarli giù: e così la cipolla si sciolse e la donna ricadde nel lago di fuoco "dove brucia tuttora". "Quella donna cattiva sono io" dice Grusen'ka ad Aljosa : ma da questo momento ha inizio il riscatto morale di Grusen'ka, la sua speranza.
L'ottavo libro è il libro di Mitja: Dmitrij Karamazov è preso come da un delirio, egli è innamorato pazzo di Grusen'ka, e con le sue proprie mani, nelle sue forsennate azioni (colpisce anche il vecchio Grigorij e crede di averlo ucciso) si costruisce la trappola che lo porterà alla condanna. Mentre il povero Dmitrij è in preda al suo delirio amoroso, che non lo porta però ad oltrepassare il limite estremo del parricidio, un altro, Smerdjakov, con fredda premeditazione uccide il vecchio sensale Fjodor Karamazov.
La baldoria all'osteria si chiude, nel nono libro, con l'arresto di Mitja. Mitja e Grusen'ka, che si sono ormai "trovati", sono travolti dalla catastrofe. Ma attraverso la catastrofe che distrugge le loro illusioni, essi maturano nella loro coscienza quel rinnovamento che si realizzerà come una specie di processo sotterraneo negli ultimi libri dell'opera. Accanto al processo giudiziario difatti (processo cui è dedicato il dodicesimo libro) si svolge come un sotterraneo processo di risveglio spirituale di Dmitrij, si realizza l'incontro profondo tra Dmitrij e Grusen'ka da una parte, e Dmitrij e Aljosa dall'altra.
Il tema dei bambini, sviluppato nel decimo libro, vuol essere un'altra risposta, o, meglio, un approfondimento della risposta di Aljosa alle domande di Ivan e alla tragedia di Mitja. Il tema dei bambini prepara la visione dell'armonia, dell'amore universale, del mito della resurrezione nell'amore con cui si chiude il romanzo.
Questo tema permette all'autore, da una parte, di rivelare un'ennesima volta le sue grandi doti di scrittore realista, nel rappresentare la realtà della vita dei bambini nella città, le loro interne sofferenze in un ambiente innaturale, l'influsso della povertà sul carattere (l'orgoglioso Iljusa e il suo coraggio nel difendere il padre insultato). Inoltre, come ho già osservato, il tema dei bambini permette a Dostoevskij di dare al romanzo una dimensione epica, oltre la contemporaneità, incidendo nella prospettiva di tre generazioni (i vecchi, come Fjodor o Zosima, i contemporanei, come i fratelli Karamazov, Grusen'ka ecc., e il "futuro", come gli amici di Iljusa, di cui è seguita la formazione psicologica, il rinnovamento, poiché, secondo l'autore, saranno proprio essi a rinnovare la Russia).
Al centro dell'undicesimo libro c'è la tragedia di Ivan: i suoi colloqui con Smerdjakov, che poi si impiccherà (nel raffigurare Smerdjakov, Dostoevskij ha non poco calcato la mano, facendone un personaggio assolutamente negativo, una specie di demone malvagio di ascendenza romantica); e poi il delirio di Ivan, durante il quale gli compare il diavolo sotto l'aspetto di un intellettuale di provincia meschino e vanitoso ad un tempo; questo diavolo è, naturalmente, la proiezione dell'"io" autentico e naturale di Ivan, è l'incarnazione dei lati negativi del suo carattere, il suo "io" meschino e filisteo sotto il linguaggio razionalistico. Il "colloquio" tra Ivan e il diavolo è senza dubbio tra le scene più potenti dell'opera.
Quest'ultima scena, nel dodicesimo capitolo, arriva alla conclusione con una lucidità di scene e una serrata concatenazione di fatti e discorsi tali da rendere perfettamente il pathos polemico di Dostoevskij nei confronti del formalismo legale in atto, accompagnato com'era da disinteresse per l'umanità dei "soggetti".
L'epilogo è dedicato, da una parte, alle voci sulla preparazione della fuga di Mitja, che non sappiamo se si effettuerà veramente, se riuscirà: ma possiamo pensare anche a un fine, escluso dal romanzo, relativamente lieto, e quindi credere nella riuscita dell'impresa, tanto più che ad essa concorreranno due forze notevoli: i soldi di Katerina Ivanovna e la facilità a farsi corrompere dei poliziotti di scorta dei convogli dei deportati.
Ma la conclusione del romanzo, nel senso ideologico, e patetico, è data dal discorso di Aljosa sulla pietra di Iljusa e, più particolarmente ancora, dalle sue ultime parole...
"Ecco, andiamo tenendoci per mano!"..., ripetute dalla voce entusiasta di Kolja...
"E così in eterno, tutta la vita per mano! Un urrah per Karamazov"..., e dalla voce di tutti gli altri ragazzi.
Con questa promessa di un amore fra tutti gli uomini prefigurato nell'amicizia eterna dei ragazzi, Dostoevskij ha voluto dare una risposta, non si sa se serena o disperata (disperata per il suo utopismo) alla massa ingente e angosciosa di dolori e tragedie umane che nel romanzo si è andata via via tormentosamente dipanando.