Soltanto dopo la metà del secolo si impose un nuovo orientamento stilistico, indicato col termine di neoclassicismo, in cui il recupero del mondo antico, considerato unico depositario della bellezza e della perfezione, venne tradotto in un linguaggio moderno di nobile semplicità di forme e purezza di contorni.
Il neoclassicismo
Elemento comune alle varie forme di arte neoclassica fu la critica all’arte barocca e rococò settecentesca.
Di questa combatteva, dall’alto delle composte misure classicheggianti, la frivolezza, la retorica dell’immaginazione e la vuota tecnica virtuosistica.
Il ritorno dell’ispirazione all’antico, che le scoperte fatte da Winckelmann a Champollion avevano reso possibile, non era vissuto però come una reazione o un immobilizzante ritorno all’indietro. Centrale, ad esempio, ed estranea all’antico modello era nei neoclassici la razionalità della composizione: un’ispirazione questa in regola con le teorie illuministiche e rivoluzionarie.
In realtà, il neoclassicismo si adattò assai bene anche all’atmosfera dell’impero: con la sua insistenza sull’ordine e sulla simmetria, con l’opposizione del serio al frivolo e dell’eleganza al fasto, lo stile neoclassico seppe interpretare appunto il "ritorno all’ordine" napoleonico dopo le ventate rivoluzionarie e giacobine. Schematizzando assai, fu detto che se non tutti i classicisti erano liberali, tutti i liberali erano classicisti.
Il revival dell’antico visse un deciso incremento dopo i ritrovamenti delle città di Pompei ed Ercolano, sommerse dalla lava, ed in seguito al trasferimento verso i musei europei di reperti dai più celebri templi greci, quali quelli del Partenone di Atene, allora scambiati per copie romane, ma già riconosciuti come autentici da Antonio Canova, il più celebre scultore italiano di età neoclassica.
Nel considerare i prodotti dell’antichità greco-romana come modelli assoluti, l’ideale dell’armonia e della proporzione divenne il canone principale dell’operare artistico e l’imitazione un vero e proprio procedimento di ricerca critica.
La nuova tendenza stilistica non coinvolse soltanto l’architettura, la pittura e la scultura, ma si estese al campo delle arti applicate, riscattate adesso dal tradizionale ruolo subalterno nei confronti delle arti maggiori.
Mobili e oggetti decorativi vennero disegnati traendo ispirazione dai reperti provenienti dai cantieri archeologici e il gusto 'all’antica' si diffuse rapidamente in tutta Europa, alimentato dal gran numero di incisioni tratte dagli oggetti di scavo
L'amore per l'arte antica
Nel corso del Settecento si diffuse un enorme interesse per l’arte antica, promosso dal ritrovamento di importanti reperti archeologici nelle campagne di scavo avviate in questa epoca.
Roma, una città dove il passato, attraverso le sua auguste vestigia, faceva da sfondo alla vita contemporanea, assistette fin dall’inizio del Settecento ad un rinnovato fervore archeologico condotto su basi scientifiche.
L’Accademia di Francia a Roma promosse importanti scavi, incoraggiati dagli interessi personali dell’ambasciatore, il cardinale Melchior de Polignac, il quale finanziò ricerche sulla via Appia che portarono ad importanti rinvenimenti.
Un nuovo impulso allo studio dell’arte antica provenne dalla scoperta delle rovine di Ercolano nel 1738, seguite da quelle di Pompei nel 1748, le due città sepolte dall’eruzione vesuviana del 79 d.C. I resti di quella civiltà, sommersa dalla lava del vulcano, colpirono subito l’immaginazione degli artisti, assumendo un valore simbolico di risonanza europea.
L’attività archeologica coinvolse anche altre zone d’Italia, dalla Toscana alla Sicilia, mentre si formavano i primi corpi di spedizione verso la Grecia ed il Medio Oriente.
L’inaccessibilità dei luoghi di scavo, il cui ingresso era consentito soltanto a condizione che non venissero presi né appunti né schizzi - così come oggi sono proibite le riprese fotografiche - favorì il nascere di una manipolazione dell’antico che portò al travisamento di certi aspetti e alla semplificazione di taluni modelli decorativi, affidati solo alla memoria del visitatore o a disegni furtivi.
Il febbrile interesse per l’antichità portò al fiorire del mercato e del collezionismo antiquario; lentamente si fece strada anche la contraffazione dei pezzi archeologici.
Accanto all’attività di studio e di catalogazione delle opere, gli uomini del Settecento avvertirono presto la necessità di creare nuove normative per la tutela dell’ingente patrimonio che andava affiorando dal suolo italiano.
Roma, Napoli e la Toscana furono i primi stati ad approntare misure legislative miranti a disciplinare gli scavi, a creare enti preposti allo studio e alla pubblicazione del materiale rinvenuto, a proteggere le opere e a vincolarne l’esportazione.
Gli oggetti affiorati dal passato stimolarono la nascita di un nuovo gusto artistico, ispirato dai modelli classici. La nuova tendenza stilistica non coinvolse soltanto la pittura e la scultura, ma si estese al campo delle arti applicate, riscattate adesso dal tradizionale ruolo subalterno nei confronti delle arti maggiori.
Mobili e oggetti decorativi vennero disegnati traendo ispirazione dai reperti provenienti dai cantieri archeologici e il gusto 'all’antica' si diffuse rapidamente in tutta Europa, alimentato inoltre dal gran numero di incisioni tratte dagli oggetti di scavo.
Artisti e mecenati a Roma
La città di Roma fu nel Settecento il centro artistico più vitale in Italia. Accanto alla corte pontificia e agli ordini religiosi, le grandi casate dell’aristocrazia continuarono, come nel Seicento, ad alimentare con le loro richieste la produzione artistica.
Ad esse si unirono altre figure, accrescendo così il numero dei collezionisti privati: esponenti della piccola nobiltà, ecclesiastici e letterati che amavano circondarsi di oggetti d’arte, sino a formare vere e proprie collezioni private.
Non sorprende così che un numero sempre maggiore di artisti provenienti da ogni parte d’Italia si riversasse a Roma alla ricerca di commissioni di prestigio, richiamati dalle molteplici opportunità di lavoro.
La circolazione degli artisti fra le varie città determinò, nel corso del Settecento, la costituzione di un linguaggio che travalicava i limiti regionali e che travolgeva quella che per secoli era stata la struttura portante della geografia artistica italiana, cioè l’articolarsi per scuole locali.
Al clima di internazionalità, che sarà un carattere peculiare del Settecento in Europa, l’Italia partecipa attivamente e il suo centro è proprio Roma, il cui variegato universo artistico ne conferma la vitalità.
A partire dalla metà del secolo, il dibattito culturale apertosi tra le numerose colonie di artisti stranieri e gli scambi tra le Accademie artistiche di Francia e di Spagna con quella romana di San Luca fecero della città un centro, più di qualsiasi altro, aperto alla circolazione internazionale di idee.
A ciò si unì un nuovo sentimento per il mondo antico, che pure aveva connotato con continuità la cultura pittorica romana, col quale si confrontò un’intera generazione di artisti.
Roma, dove fervevano campagne di scavo, fu considerata la culla della civiltà classica e la custode delle grandi vestigia del passato.
Anche la pittura e la scultura risentirono di questo clima culturale, volgendosi verso i modelli di compostezza e di armonia dell’arte antica, fatta di equilibrio e di eleganza e purificata di ogni eccesso.
L'Accademia di Francia a Roma
L’Accademia di Francia a Roma nacque nel 1666 per volontà del re Luigi XIV, con lo scopo di offrire agli artisti francesi il privilegio di studiare i capolavori italiani del passato.
Vi giungevano i vincitori del prestigioso Prix de Rome, il premio conferito dall’Accademia Reale francese ai giovani più meritevoli.
Dal 1725 l’Accademia di Francia a Roma aveva sede in palazzo Mancini su via del Corso, a pochi passi da piazza Venezia.
Dall’anno della sua fondazione era stata trasferita ben tre volte: prima in una palazzina di proprietà della famiglia Saraca presso Sant’Onofrio, alle pendici del Pincio, poi a palazzo Caffarelli in via del Sudario e infine in palazzo Capranica, presso Sant’Andrea della Valle.
L’edificio, nel quale l’Accademia rimase fino al 1793, fu inizialmente preso in affitto dal marchese Giacomo Ippolito Mancini, pronipote del cardinale Giulio Mazarino; nel 1737 venne acquistato da Luigi XV, il quale stabilì che esso fosse aperto alla nobiltà romana in occasione di ricevimenti e mostre d’arte.
L’ultimo piano era adibito a pensionato per gli artisti, un ambiente sobrio assai simile al dormitorio di un convento.
Al piano terreno si trovavano invece i locali dove esercitarsi nelle arti. L’Accademia aveva il rigore di un seminario: ogni momento della giornata era scandito da una rigida disciplina.
La sera, prima della cena, le porte venivano chiuse ed il direttore stesso ne conservava le chiavi.
Fino al 1754, quando il papa Benedetto XIV creò l’"Accademia del Nudo" in Campidoglio, l’Accademia di Francia era la sola scuola a Roma, con quella fondata dal pittore Sebastiano Conca, ad offrire ai giovani la possibilità di studiare il disegno esercitandosi dal vero e di essere seguiti da bravi maestri.
Ogni giorno i giovani si applicavano allo studio per due ore, in estate al mattino e in inverno durante il pomeriggio, al lume delle candele.
Quando non vi erano modelli in posa, si copiavano calchi in gesso di opere dell’antichità o di grandi artisti del Seicento, quali Bernini e Algardi.
In estate, non mancavano le gite nella campagna romana per impratichirsi con la pittura di paesaggio, mentre Giovanni Paolo Pannini, cognato di Nicolas Vleughels, direttore dell’Accademia fino al 1738, dispensava lezioni di geometria e di prospettiva.
Le copie delle opere di pittura dei grandi maestri del passato, da Raffaello ad Annibale Carracci, da Veronese a Guido Reni, a Tiziano, erano un’altra occupazione per i giovani pensionanti.
La generosità del principe Pamphilj, che abitava nel palazzo dirimpetto, fece sì che i dipinti della sua collezione fossero a disposizione.
La Rivoluzione francese, scoppiata nel 1789, vide cessare quasi del tutto l’attività accademica ed il palazzo Mancini fu per lunghi anni teatro di saccheggi. Con l’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte fu deciso il trasferimento della sede nella Villa Medici al Pincio.
In questa occasione, allo studio della pittura, della scultura e dell’architettura, vennero affiancate nuove discipline come l’incisione e la musica.
Villa Albani a Roma
Per la sua collezione di sculture antiche, Alessandro Albani fece costruire dall’architetto Carlo Marchionni (1702-1786) una villa sulla via Salaria.
L’edificio richiese lunghi anni di lavoro e ingenti spese da parte del cardinale, il quale non lesinò su decorazioni ed arredamento, sia della villa che del circostante parco, disseminato di palazzine di svago e di fontane.
Nel 1763, dopo diciassette anni, il cantiere fu terminato e nella villa cominciarono a ritrovarsi studiosi, eruditi ed artisti di ogni nazionalità, allietati, nelle pause dalle loro dotte disquisizioni storiche, da concerti, danze e commedie.
Nelle sale, così come nei giardini, le sculture erano collocate nel modo più favorevole per essere ammirate; i pezzi antichi erano sparsi ovunque, ordinati secondo il gusto ed i consigli di Johann Joachim Winckelmann, che godé della protezione dell’Albani.
Tra i più alti esempi del gusto antiquario, diffusosi a partire dalla metà del XVIII sec., la villa, di proprietà dei Torlonia dal 1866, si struttura su due piani, animati in basso da un porticato e sormontati da una balaustra che corre continua lungo la facciata; su di essa si innalzano delle statue.
Sotto il loggiato, furono sistemate alcune sculture di età imperiale, mentre all’ombra delle due ali porticate, che fiancheggiano il corpo centrale della fabbrica, vennero allestite gallerie con statue e busti di illustri personaggi dell’antichità.
Gli interni rispecchiano la passione archeologica del cardinale, che nel loro arredamento tenne conto dei pezzi che vi dovevano essere accolti.
Il più celebre degli ambienti della villa, il Salone del Parnaso, prende il nome dal tema dell’affresco realizzato sulla volta da Anton Raphael Mengs, tra il 1760 ed il 1761, un’opera che costituisce uno dei primi esempi in Italia della pittura neoclassica.
Il cardinale Albani, mecenate delle arti
Nel 1721, alla morte di papa Clemente XI Albani, i suoi due nipoti cardinali, Annibale e Alessandro, ereditarono l’immensa fortuna dello zio, comprensiva di una scelta biblioteca e di una ricchissima collezione d’arte, ospitate a Roma nel palazzo di famiglia alle Quattro Fontane.
La passione collezionistica dello zio pontefice fu ereditata soprattutto da Alessandro Albani (1692-1779), creato cardinale nel 1721 a ventinove anni, il quale raccolse nella sua nuova villa sulla via Salaria una delle più belle raccolte archeologiche del Settecento.
Ancora giovane, aveva fondato un’Accademia antiquaria, affidandone la direzione a Francesco Bianchini, del quale era stato allievo. Fine erudito, esponente del bel mondo culturale e mondano, il cardinale amò circondarsi di personaggi colti e di amanti delle arti, che crearono un vero e proprio cenacolo, frequentato da collezionisti, studiosi e viaggiatori.
I diari di viaggio di numerosi stranieri in Italia per il Grand Tour narrano della eminente posizione culturale ricoperta dall’Albani nella Roma del secondo Settecento, soffermandosi spesso nella descrizione della sua splendida collezione.
Non solo raccoglitore di scultura antica, egli fu anche un attivo mercante d’arte, impegnato talvolta in modo poco ortodosso nel far uscire dallo Stato Pontificio materiale archeologico, vincolato dalle leggi di tutela promulgate dallo zio e confermate poi da Clemente XII.
La smania di possedere sempre più opere e la necessità di procurarsi denaro contante costrinsero più volte il cardinale a vendere altre opere di famiglia, soprattutto disegni, stampe, monete e medaglie, che non incontravano il suo particolare interesse.
Tra i tanti albums di disegni posseduti dagli Albani vi erano le celebri raccolte dell'erudito romano Cassiano del Pozzo (1588-1657) e del pittore Carlo Maratta, oggi disperse nei musei e nelle biblioteche di mezzo mondo. Trenta sculture, tra le più pregevoli della sua collezione, furono vendute nel 1728 al re di Polonia, mentre alcuni busti romani vennero acquistati nel 1734 da Clemente XII per evitarne la dispersione; il pontefice ne fece poi dono al Museo Capitolino, da poco istituito.
Mecenate di artisti quali il Winckelmann, che fu suo ospite negli ultimi dieci anni di vita in cui portò a compimento l’edizione dei Monumenti antichi inediti (Roma, 1767), Alessandro Albani morì a Roma l’11 dicembre 1779 e fu sepolto nella chiesa di San Sebastiano fuori le mura.
Gli scavi archeologici di Pompei
Nella primavera del 1748, per volontà del re Carlo III di Borbone, fu iniziata un’intensa campagna di scavo a Pompei. La città era stata improvvisamente distrutta il 24 agosto 79 d.C. da una terribile eruzione del Vesuvio, tre lunghi, interminabili giorni durò il cataclisma che la seppellì sotto quattro metri di ceneri e lapilli. In realtà, il sito dove venivano condotti gli scavi era conosciuto con il nome di Civita e soltanto nel 1763 le iscrizioni ritrovate permisero di stabilire che si trattava di Pompei, la florida città commerciale situata presso la foce del Sarno.
Plinio il Giovane aveva fornito con i suoi scritti un vivido resoconto del disastro e proprio dalle narrazioni dei contemporanei partirono le prime sistematiche ricerche.
L’ingegnere Alcubierre, incaricato dal sovrano, scoprì uno dei siti archeologici più suggestivi dell’antichità, che offriva un eccezionale documento della vita di un importante centro romano rimasto intatto sotto la coltre di cenere.
Carlo III ordinò di inviare ogni reperto rinvenuto nel suo palazzo di Portici, dove si raccolse la prima collezione di antichità pompeiane.
Nel 1755 egli fondò l’Accademia Ercolanense, i cui allievi iniziarono la pubblicazione de Le Antichità di Ercolano esposte, un vasto studio consistente in cinque volumi editi dal 1757 al 1796 con una serie di incisioni raffiguranti le scoperte effettuate in Campania: frammenti di decorazioni murali, sculture, oggetti di uso quotidiano e bronzetti.
Pubblicate più tardi in varie lingue, le Antichità costituirono un testo di ispirazione per artisti e decoratori di tutta Europa.
Ai dipinti pompeiani si rifecero pittori come Piranesi, Mengs, David e, più tardi, Ingres, i quali inserirono nelle loro opere motivi ripresi dall’antica decorazione di epoca romana, spesso interpretati in modo arbitrario. All’archeologia si ispirarono pure architetti come Robert Adam, ceramisti, arazzieri e disegnatori di arredi attivi fino alla metà del XIX sec.
Le teorie artistiche di Winckelmann
Johann Joachim Winckelmann, nato nel 1717 a Stendal, nella regione tedesca del Brandeburgo, dopo una formazione ecclesiastica si dedicò allo studio dell’arte antica, pubblicando nel 1755 il suo primo scritto, le Riflessioni sull’imitazione delle opere greche nella scultura e nella pittura.
Nel 1756 egli si stabilì a Roma, occupando l’incarico di bibliotecario della corte pontificia di Benedetto XIV. Negli anni del soggiorno romano, durante i quali fu nominato prefetto delle Antichità pontificie, vennero maturando i principi teorici che porteranno alla pubblicazione, nel 1764, della sua Storia dell’arte dell’antichità.
Attraverso una rigorosa indagine storica, egli adottò un nuovo indirizzo metodologico fondato sull’analisi stilistica delle opere, teso a caratterizzare le peculiarità del linguaggio artistico e a rilevarne le corrispondenze.
Dopo gli eccessi decorativi del barocco e del rococò, si era venuto affermando un nuovo orientamento classicista, il cosiddetto stile neoclassico, il quale reputava l’antichità greca e romana un esempio perfetto a cui ispirarsi nel campo dell’arte.
Winckelmann divenne il maggiore teorico di questo stile, sostenendo la perfezione dell’arte greca, unico modello sul quale i moderni avrebbero potuto operare un vero rinnovamento estetico. È interessante notare come la storia della scultura greca antica elaborata dal teorico tedesco si basasse soprattutto su statue identificate poi come copie romane di non eccelsa qualità.
Tuttavia, il suo processo analitico lasciò una profonda traccia nella storia dell’antichità classica, sopravvissuta alla scoperta successiva degli originali.
L’idea di concettualizzare la tradizione artistica su un modello storico di grandezza e di decadenza, e di classificare conseguentemente le sue produzioni in arcaiche, classiche e decadenti, si impose infatti come un modello per gli scritti di storia dell’archeologia fino ai nostri tempi.
L’ideale estetico del Bello formulato da Winckelmann e da lui individuato nel mondo classico si ripercosse nella vita politica e civile dell’epoca, diffondendosi in tutta Europa e coinvolgendo tutti i settori della produzione artistica.
La vita di Winckelmann fu interrotta l’8 giugno 1768 a Trieste, quando, nel corso di un tentativo di rapina, egli venne assassinato nel suo albergo.
Berlino come Atene
Fino al 1989, anno della caduta del muro innalzato dalla polizia di Berlino Est il 13 agosto 1961, la splendida prospettiva della piazza sulla quale sorge l’imponente monumento era celata dalla massiccia muraglia che in parte copriva la Porta.
Essa era stata edificata durante il regno di Federico II il Grande, tra il 1788 ed il 1791, dall’architetto Carl Ferdinand Langhans; al momento del compimento, alla sommità era stato collocato un gruppo in rame raffigurante la quadriga della Vittoria, opera dello scultore Johann Gottfried Shadow.
Esemplata sul prototipo del Propileo di Atene, la Porta costituì uno dei primi esempi a Berlino di ripresa dell’arte dell’antica Grecia, ammirata per la purezza e la magnificenza delle forme.
Il mito dell'antico Egitto
L’interesse archeologico che nel Settecento si concentrò sulla città di Roma si estese ben presto anche ad altri luoghi del Mediterraneo, culla di grandi civiltà del passato.
Se in primo luogo vi era la Grecia, non mancavano tuttavia i primi segnali di una rinnovata attenzione verso il vicino Egitto, terra di grandi monumenti antichi, nonché 'esotica' come voleva la moda del tempo.
Tra il 1752 ed il 1767 il collezionista ed erudito Caylus aveva redatto il Recuil d’antiquités Egyptiénnes, Etrusques, Greques, Romaines et Gauloises, di poco successivo alla raccolta storica dedicata alle antiche civiltà mediterranee del giansenista Charles Rollin (1730-1741).
Si intensificarono inoltre le pubblicazioni dei diari di viaggio, corredati da piante geografiche e illustrazioni dei maggiori monumenti.
Nel 1759 Carlo Emanuele III di Savoia finanziò una missione in Egitto ed in Medio Oriente per raccogliere reperti destinati all’Orto Botanico di Torino, opere e manoscritti che avrebbero costituito il primo nucleo dell’importante Museo Egizio della capitale piemontese.
Pittori e architetti non si sottrassero a questa moda dilagante, che culminerà nella spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto del 1798-1801.
Il barone Vivant Denon
Scrittore, disegnatore, collezionista, archeologo, diplomatico e, infine, direttore dei più importanti musei del mondo, allora appena costituito, il Louvre, Vivant Denon è una figura emblematica di erudito dell’età dei Lumi, versatile, colto e pieno di interessi.
Nato nel 1747 da una famiglia della piccola nobiltà di provincia, giunse a Parigi intorno al 1765 per compiere studi legali, ma alla giurisprudenza presto furono preferite le arti.
Incaricato da Luigi XV di sovrintendere alle collezioni reali di gemme e di medaglie raccolte da Madame de Pompadour, per lunghi anni la favorita del sovrano, Vivant Denon non tardò a farsi apprezzare per le sue qualità diplomatiche.
Nel 1772 fu inviato a San Pietroburgo come attaché dell’ambasciata francese; seguirono poi incarichi ufficiali a Stoccolma, a Ginevra e, dalla primavera del 1776, a Napoli.
Attratto nell’orbita del vivace clima culturale partenopeo, cosmopolita e amante delle antichità, egli iniziò ad acquistare oggetti di scavo provenienti dalle campagne archeologiche, interessandosi pure alla pittura e all’incisione.
Gli oltre cinquecento vasi etruschi da lui raccolti furono più tardi acquistati da Luigi XVI e inviati alla manifattura di porcellane di Sèvres per essere copiati. Al soggiorno napoletano seguirono nel 1785 due anni trascorsi a Roma nella cerchia del cardinale de Bernis, impegnati a disegnare dipinti di antichi maestri italiani destinati all’incisione.
Il ritorno a Parigi nel 1787 fu salutato con l’ammissione all’Accademia Reale di Pittura. La sua fama era ormai tale che per lui fu fatta un’eccezione: invece di un dipinto, per la prima volta nella storia dell’istituzione, come morceau de réception venne accettata un’incisione tratta da un’opera di Luca Giordano, l’Adorazione dei pastori.
Gli anni della rivoluzione lo videro lontano dalla Francia, a Venezia, impegnato a dare lezioni di disegno e ad incidere ritratti dell’alta società lagunare.
Rientrato a Parigi nel 1792, ottenne la protezione del pittore Jacques-Louis David e fu eletto deputato alla Convenzione.
Pur partecipando all’attività politica, non interruppe la sua carriera di incisore, dando alle stampe in quegli anni l’Opera priapica, ispirata alle pratiche sessuali degli antichi abitanti di Pompei, desunte dai dipinti murali da poco scoperti e ammirati durante il lungo soggiorno napoletano.
Il fascino esercitato dal giovane generale Napoleone Bonaparte lo spinse, nel 1798, a seguirlo nella campagna d’Egitto, durante la quale realizzò oltre centocinquanta disegni, molti dei quali inseriti nel Viaggio nel Basso ed Alto Egitto, pubblicato nel 1802, la prima seria descrizione dei monumenti dell’antica civiltà delle Piramidi. L’opera, apprezzata dallo stesso Napoleone, gli fruttò l’incarico di direttore dei Musei Imperiali, comprendenti il Musée Central des Arts, ovvero il Louvre, il Musée des Monuments Français ed il Musée de l’Ecole Française a Versailles.
Fu inoltre consulente artistico della Zecca delle Medaglie, della manifattura di Sèvres e della fabbrica di arazzi di Gobelins.
L’imperatore lo volle con sé durante la campagna d’Italia, incaricato di scegliere le opere d’arte da requisire e trasportare in Francia.
Per il suo lavoro fu insignito del titolo di Barone dell’Impero. Dopo la disfatta a Waterloo nel 1815 e l’esilio di Napoleone a Sant’Elena, Vivant Denon abbandonò tutti gli incarichi, ritirandosi a vita privata.
Dopo la sua morte, avvenuta nel 1825, fu stilato un catalogo completo della sua collezione d’arte, comprendente oltre 200 dipinti, 750 disegni, 600 stampe e un’enorme quantità di gemme, medaglie, bronzi, ceramiche, smalti e incisioni. La raccolta venne venduta all’asta dagli eredi.
Batoni
Il Batoni costituisce una delle maggiori espressioni pittoriche di quella fase di transizione tra rococò e neoclassicismo.
Nell’isolamento del suo studio in via Bocca di Leone a Roma, assente da tutte le imprese pubbliche anche quelle che non prevedevano l’affresco - tecnica che non praticò mai - produsse a ritmo serrato un gran numero di dipinti, spesso destinati al collezionismo straniero.
Richiestissimi da illustri personaggi e da viaggiatori stranieri, in soggiorno a Roma durante il loro Grand Tour, furono i suoi ritratti, spesso arricchiti da colte citazioni dall’antico mediante l’inserimento di monumenti celebri dell’antichità classica, presenze mai ingombranti ma sempre di raffinato contorno.
La sua opera, infatti, anche se di impaginazione solenne, è aliena da effetti teatrali e la verità si unisce all’idealizzazione.
Avere un proprio ritratto realizzato a Roma dal Batoni rappresentava un motivo di vanto per numerosi turisti, i quali, una volta tornati nel loro paese, avrebbero esposto il quadro nella propria galleria privata.
A partire dalla metà degli anni Quaranta, la sua fama tra i viaggiatori stranieri divenne sempre maggiore ed il suo virtuosismo pittorico altamente ammirato.
Egli inaugurò per i Grands Tourists un nuovo tipo di ritratto, in cui il personaggio era colto in una posa solo all’apparenza casuale, elegante e circondato spesso da frammenti di arte antica, in linea con la passione antiquaria e con la riscoperta dell’archeologia esplosa alla metà del Settecento.
Tra gli edifici antichi più spesso utilizzati nei ritratti del pittore si annoverano il Colosseo ed il Tempio della Sibilla a Tivoli, che spesso fanno da sfondo al dipinto, inquadrando con la loro vetustà il gentiluomo o, più raramente, la dama.
Accanto ad essi, posano con casualità alcuni dei marmi antichi più apprezzati dell’epoca, dal Laocoonte all’Apollo del Belvedere, dall’Ariadne Vaticana al Marco Aurelio Capitolino.
I clienti dell’artista erano soprattutto aristocratici, attachés d’ambasciata, giovani ecclesiastici, alti militari e anche alcuni collezionisti e amatori di antichità.
Molte commissioni erano procurate al Batoni dalle guide che accompagnavano i turisti in giro per Roma; altre, invece, provenivano dal più ricco e influente personaggio della colonia britannica romana, il banchiere Thomas Jenkins, intermediario nel commercio di antiche sculture, gemme e dipinti, il quale presentò al pittore numerosi futuri clienti.
Batoni richiedeva in genere due o tre sedute di posa per ogni ritratto e spesso spediva il quadro al committente dopo che egli era già partito da Roma.
Anton Raphael Mengs
Nato a Aussig, nel 1728 fu acclamato come il maggiore esponente del Neoclassicismo. Rinnegando la tradizione pittorica del Barocco e del Rococò, attraverso lo studio dell'antico e di Raffaello, creò composizioni di nobile semplicità, con colori chiari e brillanti.
Studiò a Dresda sotto la direzione del padre Ismael, pittore ufficiale della corte cittadina e artista specializzato nella miniatura e negli smalti.
Fu lui a condurre a Roma, dal 1741 al 1744, il giovane Anton Raphael. Qui il giovane lavorò sotto la guida di Marco Benefial e studiò le statue antiche del Belvedere, le Stanze di Raffaello e la pittura classicista del 600. Di questa esperienza sopravvivono scarse testimonianze, tra le quali il disegno Le arti piangono Raffaello, conservato al British Museum di Londra, derivato da un'incisione di Carlo Maratta.
Tornato a Dresda nel 1744, venne nominato pittore di corte, eseguendo per lo più ritratti a pastello, tra cui: il Ritratto di Augusto III, il Ritratto del padre e l'Autoritratto, tutti ora conservati alla Gemäldegalerie di Dresda. Nel 1746, dopo essere stato a Venezia, Parma e Bologna, era di nuovo a Roma dove restò fino al 1749. Ancora a Dresda, su incarico di Augusto III, realizzò nel 1750 Il sogno di Giuseppe e La vittoria della religione cristiana per la Hofkirche.
Dopo un soggiorno veneziano nell'inverno del 1751 si stabilì a Roma, per dipingere a diretto contatto con i capolavori classici la pala con l'Ascensione destinata all'altar maggiore della Hofkirche, che però terminerà solo nel 1766.
Accolto nell'Accademia di San Luca, dopo un iniziale periodo di diffidenza, di cui scrisse: "Non vidi altro che invidia, le scuole divise in sette, e Roma ridotta in un labirinto, in cui quasi necessariamente dovevo perdermi", entrò nelle grazie del cardinale Alessandro Albani, nipote di papa Clemente XI.
Grazie alla segnalazione del cardinale il duca di Northumberland gli commissionò, per la sua galleria di copie da Raffaello, Guido Reni e Annibale Carracci, la copia dell'affresco raffaellesco con la Scuola d'Atene, finita nel 1755.
Alla fine di quest'ultimo anno diventò uno stretto amico di Johann Joachim Winckelmann, che lo definirà «il maggior artista del suo tempo e forse anche dei tempi a venire», condividendo l'entusiasmo del suo compatriota per le antichità romane.
Successivi sono: la Danzatrice greca ed il Filosofo, commissionati dal marchese Croixmare (1755-56), andati perduti e noti da due disegni preparatori oggi a Karlsruhe; il Giudizio di Paride (1756 circa), San Pietroburgo, Ermitage e l'affresco con Gloria di sant'Eusebio (1757), destinata all'omonima chiesa romana.
Lungo tutto l'arco della sua carriera Mengs continuò a dipingere ritratti, dando vita ad una rivalità con Pompeo Batoni, uno dei maggiori ritrattisti della scuola romana. Nei ritratti e negli autoritratti, Mengs ricercò l'essenzialità e l'introspezione.
Tra i suoi ritratti si segnalano: due versioni di quello di Clemente XIII (Milano, Pinacoteca Ambrosiana e Bologna, Pinacoteca Nazionale), del "cardinal nipote" Carlo Rezzonico, quello di Ferdinando IV di Borbone, futuro re di Napoli (Madrid, Prado, quello di Johann Joachim Winckelmann (New York, Metropolitan Museum), quello di Domenico Annibaldi (Milano, Brera).
Nel 1761 realizzò l'affresco del Parnaso per il salone della villa del cardinale Alessandro Albani, fuori di Porta Salaria. Probabilmente Johann Joachim Winckelmann, che era il bibliotecario del cardinale, contribuì alla concezione di quest'opera.
Nell'affresco, in cui il cardinale è rappresentato come Apollo, in quanto protettore delle arti, Mengs tende a creare una composizione perfettamente composta e semplificata quasi priva di profondità e movimento, con citazioni tratte dalla statuaria antica, affreschi di Ercolano e dai dipinti di Raffaello.
L'elemento più dinamico è costituito da due danzatrici, motivo derivante dalle coeve scoperte archeologiche, tra cui gli affreschi rinvenuti nella cosiddetta villa di Cicerone a Pompei.
Nell'impostazione formale e nella disposizione delle figure si possono cogliere riferimenti al Parnaso di Raffaello affrescato nella Stanza della Segnatura in Vaticano
Nel 1761 chiamato da Carlo III si recò a Madrid, dove decorò le sale del Palazzo Reale, con gli affreschi l'Aurora e l'Apoteosi di Ercole (1762-70, completati però durante il suo secondo soggiorno madrileno, dopo il 1774). In queste opere Mengs non utilizzò il metodo del quadro riportato, ma si rifece al Correggio, ad Andrea Sacchi e a Carlo Maratta.
Significativa del passaggio dal barocco al neoclassico è la difficile convivenza tra Mengs, l'altro italiano Corrado Giaquinto e un altro genio della pittura settecentesca, il veneziano Giovanni Battista Tiepolo, le cui opere passeranno presto di moda, quasi subito dopo la sua morte in Spagna nel 770.
Nel 1762, pubblicò a Zurigo il suo trattato Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei, Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura, edito in Italia a Parma nel 1780 con il titolo Opere di Antonio Raffaello Mengs primo pittore della Maestà di Carlo III, dove teorizza l'imitazione dei grandi maestri come l'unico strumento in grado di raggiungere la bellezza ideale, quella che non esiste in natura, ma ch'è il frutto di una scelta di ciò che in natura è migliore.
Nel trattato si scaglia inoltre contro la pittura del Seicento e del Settecento, condannando della prima l'uso del chiaroscuro e l'eccessivo patetismo drammatico e religioso e della seconda le tematiche prive di intenti morali ed educativi.
Tornato in Italia per motivi di salute nel 1770, dopo una tappa a Firenze (dove partecipò al restauro degli affreschi di Masaccio al Carmine) dipinse l'Allegoria della Storia (1772), per la camera dei papiri in Vaticano. Successivamente, dopo un breve viaggio a Napoli, tornò a Madrid nel 1774, dove affrescò a Palazzo Reale l'Apoteosi di Traiano e si accorse del talento del giovane Francisco Goya, raccomandandolo per la commissione di una serie di cartoni per arazzi.
Nel 1777 Mengs tornò a Roma, dove dipinse il Perseo oggi al Museo dell'Ermitage e cominciò una pala per la basilica di San Pietro in Vaticano che la morte, il 29 giugno 1779, gli impedì di terminare.È sepolto nella chiesa dei Santi Michele e Magno.
Angelika Kauffmann
Figura femminile di artista elegante e spregiudicata, precoce talento pittorico che si manifestò nella prima adolescenza, Angelika Kauffmann crebbe come una 'bambina prodigio' tra la Valtellina e Milano, incoraggiata nella sua vocazione dal padre pittore.
Soggiornò a Parma, Bologna e Firenze, dove incontrò l’americano Benjamin West, precedettero l’arrivo nel 1763 a Roma, città che divenne la sua patria di adozione. Legata da rapporti di amicizia e di stima con i maggiori interpreti del neoclassicismo, da Winckelmann a Batoni, da Gavin Hamilton a Piranesi, la giovane donna fu ammessa nel 1765 a far parte dell’Accademia di San Luca, dopo avere già frequentato le Accademie di Firenze e di Bologna.
Quando giunse a Roma, la città ospitava già da molti anni numerosi artisti stranieri, antiquari e mercanti. Si trattava soprattutto di inglesi, i quali avevano stabilito una vera e propria 'colonia'. Grazie al sostegno degli amici britannici Angelika poté presto imporsi come una pittrice di grido, ricercata dagli stranieri di transito nella capitale. I
l suo giro di relazioni tutte al maschile suscitò subito una serie di pettegolezzi che la accompagnerà per tutta la vita. Un periodo trascorso a Londra non tacitò le voci, che la volevano amante del pittore Nathaniel Dance e di Joshua Reynolds.
Neppure il matrimonio precipitoso con l’artista veneziano Antonio Zucchi, più anziano di lei di diciotto anni, metterà a tacere le indiscrezioni sulla sua condotta per l’epoca altamente spregiudicata e immorale. La coppia acquistò una casa sopra la scalinata di Piazza di Spagna, la stessa dove aveva abitato tra il 1752 ed il 1756 Anton Raphael Mengs.
Qui iniziarono a riunirsi artisti e intellettuali del tempo; anche Goethe, durante i suoi soggiorni romani, non mancò agli appuntamenti di casa Zucchi, o, forse, sarebbe meglio dire di casa Kauffmann.
Angelika era infatti divenuta uno dei personaggi più in vista della città: i suoi ritratti ed i disegni erano richiestissimi dagli stranieri di passaggio, mentre i giovani artisti ricercavano la sua protezione e il suo appoggio per essere ammessi nel mercato dell’arte di élite.
Antonio Canova era uno di questi: a Roma fin dal 1781 strinse amicizia con lei e le chiese consigli. Morto Mengs nel 1779, ormai in età avanzata Pompeo Batoni ed occupato quasi esclusivamente nel commercio di opere d’arte Gavin Hamilton, nella Roma degli anni Ottanta i facoltosi turisti inglesi, russi, polacchi e tedeschi riconoscono nella Kauffmann la massima interprete del genere ritrattistico.
Una malattia polmonare, forse tubercolosi, minava sempre più la salute della donna, mentre si intensificavano i rapporti epistolari col Canova. Sarà lo stesso scultore ad allestire la sua sepoltura in Sant’Andrea delle Fratte nel novembre 1807.
Benjamin West, un americano a Roma
Motivazioni politiche ed economiche portarono allo scoppio, nel 1775, della guerra di Indipendenza americana, che si protrasse fino al 1783, quando a Parigi venne firmato l’accordo di pace con cui la Gran Bretagna dovette riconoscere l’indipendenza delle sue colonie d’oltremare.
Il 4 luglio 1776 i delegati delle tredici colonie britanniche si riunirono a Washington per proclamare l’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
Il testo della Dichiarazione d’Indipendenza, preparato da un comitato del quale faceva parte Benjamin Franklin, si ispirava ai principi filosofici dell’Illuminismo, che ormai aveva varcato l’oceano. Il futuro presidente della Confederazione, Thomas Jefferson, redasse gran parte del testo.
La vivacità culturale della giovanissima repubblica ben si evidenzia nel campo delle arti, in cui viene ricercato uno stile semplice e libero dai vincolanti influssi dei modelli europei.
Già da alcuni anni la pittura americana di storia aveva trovato il suo maggiore esponente in Benjamin West, inizialmente dedito alla ritrattistica ma convertitosi ai soggetti storici dopo un soggiorno di tre anni a Roma, dal 1760 al 1763.
Gli anni romani lo videro impegnato nella copia delle opere degli antichi maestri, nello studio della pittura barocca e nell’incontro con i maggiori talenti presenti in città, da Mengs a Batoni, da Gavin Hamilton a Nathaniel Dance.
Perfettamente inserite nella nuova corrente neoclassica sono le opere di questo periodo, che consistono soprattutto in ritratti per turisti, piccole scene sacre e soggetti di storia antica.
Lasciata Roma, West si diresse verso l’Inghilterra e ben presto nella sua opera i temi della contemporaneità soppiantarono i miti classici.
Le vicende di Annibale, Attilio Regolo e Germanico lasciarono il posto ai più significativi eventi della sua epoca: ciò che adesso ispirava l’artista era la storia più recente della Gran Bretagna e della nativa America, le battaglie, le morti illustri e le trattative dei governi del suo tempo.
Antonio Canova
Nato a Possagno nel 1757 da padre scalpellino, il suo apprendistato si svolse in Veneto. A Venezia tra il 1768 ed il 1775, aprì il suo primo studio di scultore nel chiostro di Santo Stefano.
Dal 1768 frequentò i corsi dell’Accademia, studiando e disegnando i calchi in gesso delle sculture antiche. Fino al 1779 fu a Venezia, dove ricevette numerose importanti commissioni.
Trasferitosi a Roma, dove approfondì la sua conoscenza della scultura classica, frequentò i corsi di nudo dell’Accademia di Francia e la scuola di Pompeo Batoni.
Quando lo scultore giunse a Roma, la città godeva di un immenso prestigio culturale e continuava ad esercitare una grande forza attrattiva per artisti di ogni nazionalità e per viaggiatori stranieri. La passione archeologica e il culto dell’arte antica avevano ormai pervaso la cultura artistica coeva.
Qui egli ebbe modo di studiare le opere che erano considerate i modelli di perfezione e di aderire in modo ragionato e meditato al neoclassicismo.
A Roma, che sarà il centro della sua attività, egli si affermò ben presto con una serie di prestigiose commissioni culminanti nel Monumento a Clemente XIV (1784-1787) nella Basilica dei Santi Apostoli e nel Monumento a Clemente XIII (1783-1792) nella Basilica di San Pietro.
Nell’ultimo decennio del secolo, creò alcuni celebri opere marmoree, come Amore e Psiche, Venere e Adone ed il Perseo. Nel 1802 fu chiamato a Parigi per eseguire il Ritratto di Napoleone Bonaparte, soggetto ripreso in numerose versioni, a mezzo busto e a figura intera.
Nel primo decennio dell’Ottocento, lavorò ancora per la famiglia Bonaparte, scolpendo i ritratti di Letizia, madre di Napoleone, di Carolina e Gioacchino Murat e di Elisa Baciocchi.
A consacrare definitivamente la fama dell’artista giunse, nel 1804 ca., la commissione del ritratto della sorella di Napoleone, Paolina Borghese, raffigurata sotto le sembianze di Venere.
Forse l’opera più celebre di Canova, che alla sua attività di scultore affiancò quella di pittore, soprattutto ritrattista.
In questi anni scolpì il Monumento di Vittorio Alfieri per la chiesa di Santa Croce a Firenze e inaugurò quello a Cristina d’Austria nella chiesa viennese degli Agostiniani (1805).
Incaricato dal papa della missione diplomatica di recupero degli oggetti d’arte portati a Parigi da Napoleone, da qui si recò a Londra per ammirare i marmi appena giunti dal Partenone di Atene.
Alle opere di scultura di quest’ultima fase della sua attività si unisce la creazione a Possagno di un tempio ispirato al Pantheon di Roma.
Qui, oltre ad un gran numero di opere, sono conservate le spoglie del Canova, morto a Venezia nel 1822. Oggetto di un incondizionato apprezzamento da parte dei suoi contemporanei, il Canova, attivo a cavallo tra Sette e Ottocento, in pieno clima neoclassico, meglio di ogni altro artista seppe recuperare il vagheggiato ideale dell’arte antica, rendendolo vivo ed attuale.
La sua tecnica scultorea si articolò in quattro fasi: l’esecuzione degli schizzi preparatori dell’opera da eseguire, la preparazione del modello in creta da cui derivava lo stampo di gesso, il trasporto delle misure dal gesso al marmo e, infine, la rifinitura della statua.
Ancora si conservano nella gipsoteca di Possagno le fasi di taluni di questi passaggi, suggestive testimonianze della preparazione dei suoi capolavori.